Corrono, corrono, una massa confusa di monaci e di folla, in mezzo a loro i due prigionieri, che vengono picchiati, maledetti, interrogati mentre camminano, e non dicono nulla, non dicono nemmeno il proprio nome.
Ma ecco che con un forte rumore si aprono i battenti di un enorme portone, e ne esce una fila di figure che emettono bagliori. Elmi, corazze. Si schierano. All’unisono le lance appoggiate al suolo emettono un secco avvertimento.L’avanguardia della folla arretra. Un sussurro impaurito la percorre: Le guardie!
Chi sono? chiede Filemone. Soldati, soldati romani, gli risponde una voce.
Filemone, che è nell’avanguardia della folla, indietreggia anche lui, senza sapere perché. Ma al nome “Romani” vorrebbe andare avanti. Da bambino aveva sognato di loro, di quelli che hanno conquistato il mondo. Ora sono qui davanti a lui. Ma si sente afferrare un braccio. Un ufficiale gli chiede bruscamente: Cosa significa questo? Perché voi figli di cani alessandrini non ve ne state a dormire nelle vostre cucce?
La Chiesa di Alessandro sta bruciando, risponde Filemone, pensando che come spiegazione basti.
Tanto meglio!
Ma… I giudei stanno assassinando i cristiani.
Allora andate pure a scontrarvi con loro. Uomini! Tornate dentro! È solo uno dei soliti disordini fra cani giudei e cristiani.
E la truppa fa marcia indietro, e scompare, e subito la folla riprende a correre, più selvaggia di prima. Filemone corre in mezzo agli altri, ma avverte un senso di delusione. Pietro sta scherzando coi suoi uomini, dice che sono stati bravi a tenere fermi e zitti i prigionieri in mezzo a loro, senza farli vedere dai soldati. Ma Filemone rimugina: È solo uno dei soliti disordini, ha detto quello! Uno dei soliti disordini, per quella gente, abituata a creare e deporre Cesari! Loro sono sicuri con le loro armi e la loro disciplina, non si curano di uomini eccellenti come i monaci e i parabolani, non si preoccupano se i giudei ammazzano i cristiani, se perseguitano la vera fede, se bruciano la chiesa di Alessandro. Loro sono sicuri di sé, e per loro noi siamo cani. Filemone li odia, adesso, quei soldati. Così indifferenti davanti alla causa della giustizia, per cui lui sta lottando, per cui si è appena scoperto un eroe combattente. Gli tornano in mente le parole di quell’ometto, di quel facchino filosofo, e torna a sentirsi piccolo. E ancora più piccolo si sente quando sopra la folla risuona una voce acuta di donna, da un tetto: grida che non si vedono fiamme, che la chiesa da lontano appare intatta. La massa tace, poi si leva un brusio, tutti parlano con la concitazione delle folle, ed ecco che nella folla non c’è nessuno che abbia visto coi suoi occhi bruciare la chiesa, sono state voci incontrollate, esche per incendiare gli animi. Chi le avrà messe in giro? Qualcuno dice che la chiesa è troppo lontana, che ormai è passato parecchio tempo, che se fosse stata in fiamme sarebbero comunque arrivati troppo tardi, ma forse invece qualcuno è intervenuto per tempo e l’ha salvata. E le strade sono buie e piene di giudei in agguato ad ogni angolo, tra loro e la chiesa. Forse è meglio portare i prigionieri in luogo sicuro e avvertire l’Arcivescovo per ricevere ordini. E, come succede sempre alle masse, anche questa comincia a sciogliersi: a due, a tre tutti si allontanano, e alla fine anche quelli che avrebbero voluto continuare imitano gli altri. Il gruppo più folto che resta unito, e in cui rimane Filemone, raggiunge il Serapeo, è là incontra un’altra folla di cristiani. Questi dicono che la falsa voce dell’incendio della chiesa di Alessandro è stata diffusa dai giudei, e dicono anche che sono stati trovati uccisi in casa un prete e due fedeli, e che gli ebrei hanno già ammazzato un migliaio di cristiani. Dicono che l’intero quartiere degli ebrei è in armi e sta marciando contro i cristiani. Panico, furia selvaggia. Decidono di asserragliarsi nel palazzo dell’Arcivescovo, immediatamente, di rinforzare le porte e di prepararsi ad un assedio. Filemone è tra i primi ad agire, prepara pietre da lanciare, rompe sedili e tavoli per preparare mazze. Grande confusione. Finalmente qualcuno osserva che prima di continuare a spaccare tutto sarebbe meglio attendere per vedere se davvero si sta preparando un attacco.
Ma ora si ode dalla strada un suono di passi pesanti che si avvicina. L’allarme è al massimo. Pietro scende di corsa, per vedere se sono pronti i pentoloni di acqua bollente. Ma la luna scintilla su una lunga fila di elmi e corazze. Grazie a Dio, sono i soldati.
Chiedono i cristiani: Stanno arrivando i giudei? La città è calma? Perché non avete prevenuto questi crimini? Ma un ufficiale risponde: Tornate nel vostro pollaio, gallinacce, o vi spenniamo noi! Un brusio di indignazione accompagna i soldati che passano oltre, e in realtà non cercano grane con nessuno.
Charles Kingsley
Ipazia, scene XX e XXI
E così Filemone entra nelle file dei parabolani, un’organizzazione al servizio della Chiesa di Alessandria. E in loro compagnia passa quel pomeriggio, e vede il lato oscuro di quel mondo, dopo averne contemplato il lato luminoso presso il porto e il mare. La massa della popolazione greca vive nella più squallida miseria, tra la sporcizia, l’abbandono, la violenza, completamente trascurata dalle autorità civili, preoccupate solo di reprimere le frequenti sollevazioni. Accanto al più ricco porto del Mediterraneo, che esporta cibo ovunque, quella gente muore di fame e di malattia. E in mezzo a quella gente– fanatici sì ma solleciti e generosi – i parabolani si prodigano notte e giorno per aiutare e soccorrere i bisognosi. E così Filemone fatica con loro, portando cibo e vestiario ai poveri e ai malati, seppellendo morti, disinfettando le case contaminate in quei quartieri dove la febbre è endemica, e confortando i morenti con la buona novella del perdono. Fino a quando la maggioranza dei parabolani torna indietro per i servizi divini della sera. Lui, invece, riceve dal suo superiore l’ordine di rimanere al capezzale di un malato, e può tornare indietro solo a notte fonda. A Pietro il Lettore viene riferito che il giovane si è dimostrato un uomo di Dio: come sicuramente, essendo un monaco, lui ha fatto, senza pensare minimamente di acquistare per questo grandi meriti. Filemone infine entra in una delle molte celle che si aprono su un lungo corridoio, si getta su un pagliericcio, e si addormenta all’istante.
In un sogno confuso è immerso Filemone: Goti che danzano insieme ai parabolani; Pelagia in veste d’angelo, con ali di pavone; Ipazia con corna e zoccoli di cervo, che cavalca tre ippopotami nel teatro; Cirillo che dall’alto di un palazzo lo maledice spaventosamente e gli scaglia contro vasi di fiori. Le impressioni del giorno precedente rimescolate nel sonno. Ma ecco rumori di gente che corre, un tumulto indistinto che lo sveglia, e mentre lui riprende coscienza si va precisando in parole gridate: La Chiesa di Alessandro brucia! Aiuto! Cristiani! Fuoco! Aiuto!
Filemone si mette a sedere sul pagliericcio, cerca di capire dove si trova e con un po’ di fatica ci riesce. Si riveste della sua pelle di pecora. Il corridoio è pieno di diaconi e monaci che corrono. Chiede a un diacono cosa sta succedendo.
La chiesa di Alessandro sta bruciando!
Si riversano per le scale, attraversano il cortile, escono in strada, l’alta figura di Pietro avanti a tutti, il loro stendardo. Mentre sta oltrepassando il cancello, Filemone è colpito dalla luce della luna e delle stelle che inonda la strada, i muri e i tetti, e si ferma un attimo. E questo forse gli salva la vita, perché dall’ombra balza una nera figura, e balena una lunga lama, e con un gemito il diacono che lo precede cade al suolo, mentre l’assassino sparisce nella tenebra. Monaci e parabolani lo inseguono urlando, Pietro davanti a tutti. Lungo inseguimento. Filemone corre come uno struzzo del deserto, supera tutti e si avvicina a Pietro. In quel mentre, da porte e angoli altre nere figure escono fuori e si uniscono all’inseguimento, correndo davanti a tutti. Ma all’improvviso si fermano all’altezza di una strada laterale e anche l’assassino, lontano, si ferma.
Pietro sospetta qualcosa, e rallenta la corsa, e afferra il braccio di Filemone. Vedi quegli uomini là?
Ma prima che Filemone possa rispondere, altre trenta o quaranta figure appaiono in mezzo alla strada, lame scintillanti alla luce della luna. Che senso ha questo? Ecco un piacevole assaggio della vita nella città più cristiana e civile dell’Impero! Bene, riesce a pensare il giovane, io sono venuto qua per vedere il mondo, e se continua così ne vedrò moltissimo.
Pietro all’istante si gira e fugge con la stessa velocità con cui ha inseguito, Filemone lo segue e senza fiato i due si ricongiungono al loro gruppo. C’è una folla armata là, ansima Pietro.
Si leva una babele di voci: Assassini! Giudei! Cospirazione! Ma i nemici avanzano si vedono le loro nere figure. Monaci e parabolani fuggono, seguendo Pietro, velocissimo con le sue lunghe gambe.
Filemone li segue, perplesso e malcontento, senza correre. Ma non ha fatto molti passi che sente una voce piangente, da terra: Aiuto! Pietà! Non lasciarmi qui, ché mi uccidono! Sono una cristiana io! Una cristiana sono!
A terra giace una donna etiope, che piange e trema, con le vesti stracciate. Filemone si china e la solleva. Sono fuggita fuori quando ho visto che la chiesa stava prendendo fuoco, singhiozza la poveretta, e i Giudei mi hanno bastonato e ferito. Prima che potessi scappare da loro mi hanno strappato scialle e tunica… poi anche la folla dei nostri che fuggiva mi ha investito e calpestato… e adesso se mai riesco a tornare a casa mio marito mi batterà. Presto, giriamo per questa stradina qui, o ci ammazzeranno!
Ormai gli uomini armati, chiunque siano, stanno arrivando. Non c’è tempo da perdere. Filemone dice alla donna che non la abbandonerà, e la trascina per la piccola via che lei ha indicato. Ma gli inseguitori li hanno visti, e mentre il grosso continua per la strada principale, tre o quattro uomini se ne distaccano per dare loro la caccia. La povera donna può solo zoppicare, Filemone è disarmato: si volge indietro e vede i riflessi della luce lunare sulle lame, e si prepara a morire da monaco. Ma è anche giovane, e bramoso di vita. Spinge l’etiope dentro un andito oscuro, rendendola quasi invisibile, e si apposta dietro una colonna. Il primo inseguitore arriva, lui trattiene il respiro. Non morirà come un agnello, senza lotta. No, il figuro continua a correre ansimando, passa oltre. Ma quasi subito ne arriva un altro, e di colpo lo vede, si spaventa, e arretra di un passo. Quell’attimo di paura è la salvezza di Filemone. Felino, il giovane gli salta addosso, e con un solo pugno lo stende al suolo, e gli strappa dalle mani la daga. Balza di nuovo in piedi giusto in tempo per colpire in pieno volto il terzo inseguitore con la sua nuova arma. L’uomo si stringe il volto con le mani, arretra, e finisce addosso ad un compagno che gli stava alle costole. Filemone, preso dalla furia, li tempesta di colpi, mal indirizzati perché lui è nuovo all’uso delle armi, ma tali da volgerli in fuga. Li sente imprecare in una lingua sconosciuta, e si ritrova vittorioso, con la povera etiope scossa da tremiti, e uno dei figuri che giace al suolo privo di sensi. Tutto è durato pochi istanti. La donna etiope ora in ginocchio ringrazia il Cielo per averla salvata. Anche Filemone sta per inginocchiarsi a pregare, ma un nuovo pensiero lo colpisce, e lui toglie al caduto il suo mantello e lo porge alla povera donna. Pensa che in fondo quel mantello è suo per diritto di conquista, una spoglia strappata al nemico. La donna lo sommerge di ringraziamenti. Ma in quel momento ecco in fondo alla strada una nuova folla che accorre veloce. Un momento di terrore, e poi gioia quando Filemone scorge, alla luce delle torce e della luna, vesti di monaci. Davanti a tutti Pietro il Lettore, aria impavida ora che il pericolo è passato, ansioso di parlare per primo prevenendo qualsiasi domanda.
Ah! Ragazzo! Tutto bene? Ti davamo per morto ormai, ma sei salvo, per intercessione dei santi! Chi tieni là? Un prigioniero? Noi ne abbiamo preso un’altro di quei bastardi, il Signore ce lo ha dato nelle nostre mani.
Sì, è andata così, dice Filemone trascinando il suo uomo, ed ecco qua un suo compagno. Subito i due individui vengono legati insieme per i polsi, e il gruppo dei monaci e parabolani si rimette in marcia verso la chiesa di Alessandro in fiamme.
Filemone si guarda intorno cercando la donna etiope, ma è svanita. Di lei non dice nulla agli altri, perché si vergogna profondamente alla sola idea che possano sapere che lui è stato in compagnia di una donna da solo . E tuttavia sente di desiderare di essere ancora con lei, con quella dolce creatura che lui ha salvato dalla morte. Non la giudica ingrata perché non è rimasta là, per raccontare a tutti quello che aveva fatto per lei. Al contrario, le è grato. Se fosse rimasta, lui sarebbe sprofondato in un imbarazzo colmo di vergogna. Sparendo, lei lo ha salvato. E lui vorrebbe tanto dirglielo. Vorrebbe sapere come sta, se è ferita. E pensa a tutte le donne con cui è entrato in contatto da quando ha lasciato la laura. In ogni caso, il Signore ha creato l’uomo maschio e femmina, ed è logico che nel mondo si incontrino entrambi i sessi: non è mica colpa sua! E la Provvidenza si è servita spesso di donne… Inutile arrovellarsi. Corri, Filemone. C’è una chiesa che brucia!
Ipazia, scena XIX
Filemone a fatica si strappa dalla folla, scorge un presbitero e gli consegna la lettera che si è portata in seno. Quello lo conduce subito per un corridoio e una rampa di scale ad una vasta aula. Là deve attendere la chiamata dell’uomo più influente d’Egitto.
Vi è una porta con una cortina, oltre la quale Filemone avverte i passi di qualcuno che cammina avanti e indietro con furia. Esplode lì dentro una voce profonda e potente: Finiranno per portarmi a questo! Che il loro sangue possa ricadere sulle loro teste! Non gli basta bestemmiare Dio e la Sua Chiesa! Non gli basta avere il monopolio di tutte le attività truffaldine, di tutta la magia, la ciarlataneria, l’usura e la monetazione di Alessandria! No, non gli basta: ora vogliono anche consegnare il mio clero nelle mani del tiranno?
Ma era così anche al tempo degli apostoli, obietta una voce più sommessa ma molto più sgradevole.
Non sarà mai più così, tuona la voce possente. Dio mi ha dato il potere di fermarli, e se non lo usassi gli recherei offesa, e il Signore mi punirebbe. Domani stesso io spazzerò questa immense stalla di Augia, e non lascerò nemmeno un giudeo a bestemmiare Cristo e imbrogliare il popolo in Alessandria!
Temo che un giudizio del genere, per quanta ragione abbia in sé, potrebbe offendere l’eccellentissimo governatore.
Eccellentissimo? Eccellentissimo tiranno! Perché mai Oreste è così accondiscendente con questi circoncisi, se non perché essi prestano denaro a lui e ai suoi amici? Lui sarebbe disposto a tenere in Alessandria un covo di demoni se quelli gli fornissero gli stessi servizi. Pronto a scagliarli contro di me e contro la mia gente, a infangare la religione, fino a un oltraggio come quello di oggi! Sediziosi! Non hanno colmato la misura? Prima li eliminerò, meglio sarà. E quel tentatore stia attento, perché il suo giudizio è imminente.
Il prefetto…? insinua l’altra voce.
Chi ha parlato del prefetto? Chiunque sia un tiranno, e un assassino, e un oppressore dei poveri, uno che favorisce la filosofia che disprezza e schiavizza i poveri, uno così non dovrebbe perire quand’anche fosse sette volte un prefetto?
A questo punto Filemone pensa di aver forse udito un po’ troppo, e segnala la sua presenza tossicchiando. La cortina di colpo si apre, e quello che evidentemente è il segretario gli chiede con una certa durezza chi sia. Ai nomi di Pambo e Arsenio, tuttavia, l’uomo assume subito un’espressione amichevole, e conduce il giovane alla presenza di colui che di fatto, se non di diritto, siede sul trono dei faraoni. Ma senza la loro pompa esteriore: la stanza è ammobiliata semplicemente, e semplice è l’abbigliamento del grand’uomo. Alta e maestosa la figura, severamente belli i suoi lineamenti, gli occhi scintillanti sotto le folte sopracciglia: tutto indica in lui uno nato per esercitare il comando.
Cirillo immobile penetra il giovane con lo sguardo, sguardo che brucia come fuoco, e fa desiderare a Filemone che la terra si spalanchi sotto i suoi piedi. Ha in mano la lettera, la legge, e poi dice: Filemone. Un greco. Qui si dice che tu hai imparato a obbedire. Se è così, tu hai imparato anche a comandare. Il tuo padre Pambo ti ha affidato a me. Ora dovrai obbedirmi.
E io obbedirò.
Hai detto bene. Allora va’ a quella finestra, e salta!
Filemone si avvicina alla finestra e guarda giù: saranno venti piedi. Ma il suo compito è quello di obbedire, non di misurare. Sul davanzale c’è un vaso di fiori. Lui lo sposta delicatamente, e fa per lanciarsi. La voce di Cirillo tuona: Fermati!
Il ragazzo ha superato la prova, caro Pietro. Ora non si deve temere per i segreti che potrebbe aver origliato.
Pietro sorride con aria distaccata, come se in fondo per lui fosse preferibile un Filemone azzittito dalla morte.
Tu desideri vedere il mondo, gli dice Cirillo. Forse già oggi ne hai visto un poco…
Ho visto l’assassinio…
Allora hai già visto ciò che sei venuto a vedere: che cosa è il mondo e quale sia la sua giustizia… e la sua pietà. Non ti dispiacerà vedere quale sarà la replica di Dio alla tirannia dell’uomo… e di collaborare con Dio in quella replica, se io giudico bene dal tuo aspetto…
Vendicherò quell’uomo, esclama Filemone.
Ah, quel mio povero maestro, quell’anima semplice! E ora per te il suo martirio è illuminante. Aspetta di essere entrato con Ezechiele nel sacrario del tempio del diavolo, e vedrai cose peggiori di queste… Donne che piangono per Tammuz, lamentando il venir meno di una idolatria in cui sono le prime a non credere… Anche questa cosa è nella lista delle nostre fatiche di Ercole, mio caro Pietro.
Entra un diacono e annuncia: Padre, i rabbi della nazione maledetta sono arrivati, e attendono di essere ricevuti. Li abbiamo fatti passare dalla porta posteriore, per timore di…
Bene, bene. Sei stato intelligente, non mi dimenticherò di te: un incidente con loro poteva essere dannoso per noi in questo momento. Conducili qui. Pietro, prendi questo giovanotto e presentalo ai parabolani… Chi potrebbe essere l’uomo più adatto a prendersi cura di lui?
Il fratello Teopompo è molto misurato e gentile…
Cirillo scuote la testa ridendo. Figlio mio, dice a Filemone, va’ nella stanza di là. E al suo braccio destro: No, Pietro, mettilo sotto un santo pieno di fuoco, un vero figlio del tuono, uno che possa comandarlo rigidamente, e addestrarlo severamente, e che gli mostri il meglio e il peggio di ogni cosa. Uhm… Clitofonte potrebbe essere l’uomo giusto. Ordunque, vediamo i miei impegni per oggi. Un breve abboccamento con questi giudei—Oreste non ha voluto spaventarli, vedremo cosa potrà fare Cirillo… Poi un’ora per la situazione dell’ospedale; un’ora per le scuole; un po’ meno per qualche nostro fratello in difficoltà; un po’ di tempo per le mie preghiere e per il servizio divino. Pietro caro, guarda che il giovane è ancora qui. Bisogna far entrare le persone rispettando il loro turno. Altrimenti poi si perde tempo per cercare quello o quell’altro… e la vita è troppo corta per queste perdite di tempo, no? Dove sono i giudei adesso? E Cirillo si getta nelle attività della seconda parte del giorno con la sua energia inesauribile. È questa energia, unita allo spirito di sacrificio e al rigore nell’adempimento dei suoi doveri, ciò che ha generato nel cuore di centinaia di migliaia di esseri umani quella reverenza piena d’amore per lui, quella prontezza ad eseguire I suoi ordini. Nonostante i sospetti che circolano sulla sua ambizione, sui suoi intrighi, e sulla sua violenza.
Ipazia, scena XVIII
Filemone non fa in tempo a dire di no: un boato scoppia all’interno, folla si precipita fuori, i messi del prefetto corrono dentro.
È falso! È falso! urlano molti. È una calunnia dei giudei! L’uomo è innocente!
Un grasso macellaio sembra pronto ad abbattere un uomo o un bue, indifferentemente. Grida: Lui è sempre il primo ad acclamare i discorsi del nostro santo patriarca!
Cara, dolce anima, mormora una donna. Io proprio questa mattina gli ho detto: Perché non usi la verga coi miei figlioli, maestro Ierace? Come ti puoi aspettare che imparino qualcosa, se non li bastoni? E lui mi ha risposto che non può nemmeno sostenere la vista di una verga, perché si ricorda le bastonate che ha preso da bambino, una tortura.
Sembra proprio una profezia del suo destino, dice qualcuno.
E prova che è innocente. Perché come potrebbe profetizzare se non fosse uno dei santi di Dio?
Un eremita dall’aspetto selvaggio, barba e capelli sulle spalle e sul petto tuona: Monaci, dobbiamo salvarlo! Ierace è un Cristiano, e lo hanno preso e torturato nel teatro. Nitria! Nitria! Per Dio e per la Madre di Dio, monaci di Nitria! Morte ai giudei assassini! Morte ai tiranni pagani! E la folla sembra gonfiarsi per magia, scorre sotto l’immensa volta, trascina con sé Filemone e il facchino.
Soffocato dalla folla, l’omino tenta di mostrare una calma filosofica e chiede: Amici miei, perché questo tumulto?
I giudei hanno sparso la voce che Ierace volesse suscitare disordini. Maledetti loro e il loro Sabato! Ogni settimana sono loro a creare un caos intorno a questa loro danzatrice, invece di lavorare come fanno i cristiani.
I quali invece, riesce a ribattere l’omino, le sommosse le attuano nelle loro Domeniche… Uhm… differenze settarie, che il filosofo… Non fa a tempo a finire la frase che uno spasmo della massa lo fa cadere a terra e sparire tra innumerevoli gambe.
L’idea di una persecuzione in atto rende furioso Filemone, contagiato dalla folla urlante intorno a lui. Si fa spazio con la forza, fende la massa, fino all’avanguardia, bloccata da un’alta cancellata di ferro, insuperabile. Da lì si può vedere tutta la tragedia che si sta svolgendo all’interno. Legato al patibolo, quello sventurato innocente si contorce e urla ad ogni colpo della frusta di cuoio. Filemone e i monaci intorno a lui spingono la cancellata, la colpiscono in tutti i modi, invano. Dall’interno, i messi del prefetto sghignazzano e li deridono. Maledicono la plebaglia turbolenta di Alessandria, insieme col suo patriarca, col clero, i santi, le chiese. Promettono che per ognuno di loro monaci arriverà ben presto quella stessa punizione. Intanto le urla del suppliziato diventano sempre più deboli, infine il suo corpo devastato ha una violenta convulsione e rimane immobile.
Lo hanno ucciso! È un martire! Andiamo dall’arcivescovo! Lui ci vendicherà! Di bocca in bocca passa la notizia del martirio, e la parola d’ordine “Dall’arcivescovo!”. Come un solo uomo la folla si volge, come un fiume scorre di strada in strada verso la casa di Cirillo. Filemone è pieno di orrore, di rabbia, di pietà, è fuori di sé, e corre con quel fiume. Un’ora tumultuosa passa, anche più, strade larghe e stretti passaggi oscuri, e si ritrova in uno spazio di grandi edifici, e vicino è il Serapeo in rovina con le sue quattrocento colonne. Tra le grandi pietre sta già crescendo alta l’erba. Anche le maestose colonne un giorno cadranno, e della gloria degli antichi non resterà nulla.
Ipazia, scena XVII
La grande strada finisce sul molo. Allo sguardo incantato di Filemone si presenta un ampio semicerchio di mare blu. Tutto intorno, palazzi e torri. Involontariamente si ferma, e anche il suo accompagnatore si ferma e rivolge al giovane monaco uno sguardo obliquo, a cogliere gli effetti che lo spettacolo dovrebbe provocare in lui.
Guarda! Guarda cosa abbiamo fatto noi Greci! Noi, pagani, che viviamo nella tenebra! Guarda questa bellezza, e vediti per quello che sei: un giovane piccolo uomo presuntuoso e ignorante. Uno che pensa che la sua nuova religione gli dia il diritto di disprezzare tutte le altre. Lo hanno fatto i cristiani tutto questo? Lo hanno edificato i cristiani il Faro che vedi là a sinistra, una delle meraviglie del mondo? L’hanno costruita i cristiani questa diga lunga un miglio, coi suoi due ponti mobili, che connette i due porti? Sono stati i cristiani a costruire questo lungomare? O questa Porta del Sole, sotto cui ci troviamo ora? O il Cesareo, là a destra? Guarda! Guarda! E sentiti piccolo! Davvero molto piccolo. Lo hanno edificato i cristiani tutto questo? Hanno scolpito e inciso loro, con la sapienza degli antichi? Lo hanno costruito i cristiani il Museo, ne hanno concepito loro le statue e gli affreschi? Sotto i quali, ahinoi, aleggia ormai solo un soffio dell’antica sapienza… Hanno fatto sorgere loro dal mare quel palazzo là? Hanno riempito loro il tempio di Nettuno di statue che sembrano vive? Parla! Tu, figlio di pipistrelli e di talpe. Tu, sei piedi di sabbia! Tu, mummia fuoruscita da una caverna delle colline! Sono capaci i monaci di fare cose come queste?
Filemone è abbagliato dallo splendore intorno a lui, dalla grandiosità dello scenario. Troppo meravigliato per arrabbiarsi con qualcuno. Esita a rispondere al facchino, e dice: Altri uomini prima di noi hanno faticato, e noi come successori abbiamo preso il loro posto…
Ma il contrasto tra il riposo senza fine delle grandi masse di pietra delle costruzioni e il movimento della superficie scintillante del porto, con le innumerevoli imbarcazioni e vele in movimento sciamanti verso l’aperto mare, questo contrasto lo tocca profondamente, lo schiaccia, e lo riempie di tristezza. Dunque questo è il mondo… Non è meraviglioso? E gli uomini che hanno fatto tutto questo… se non sono stati grandi… allora cosa sono stati? Sicuramente avevano in loro grandi anime e nobili pensieri! Per creare cose simili bisogna avere in sé qualcosa di divino! Qualcosa che ha illuminato nazioni, generazioni… E là c’è il mare. E al di là del mare nazioni innumerevoli. La sua fantasia si accende, si smarrisce. Tutti questi popoli sono destinati alla dannazione? Dio non ha alcun amore per loro?
Infine Filemone riesce a rimettere in ordine i suoi pensieri, e chiede di nuovo alla sua guida qual è la strada per la casa dell’arcivescovo.
Da questa parte, seguimi, giovane nullità, risponde l’omino. E procedono lungo la grande facciata del Cesareo, ai piedi degli obelischi.
Lo sguardo di Filemone cade sul frontone, che ha ornamenti che paiono aggiunti da poco: simboli cristiani.
Ma come? Una basilica?
No, è il Cesareo. Solo temporaneamente è un luogo di adunanza dei cristiani. Gli Dei immortali sono stati condiscendenti, ma rimane il Cesareo. Da questa parte, in fondo alla strada, a destra. Guarda, dice l’omino indicando un portone sul lato del Museo, là c’è l’ultimo ritrovo delle Muse, la sala dove Ipazia tiene le sue lezioni, dove io sono un allievo clandestino, indegno… E si ferma presso la porta di una splendida casa, sull’altro lato della strada: Qui è la residenza della favorita di Atena… ora puoi deporre a terra il cesto. E bussa alla porta, e consegna il cesto a un portinaio nero, e con un cortese inchino a Filemone sembra volersi congedare.
Ma la casa dell’arcivescovo dov’è? chiede il giovane.
Vicino al Serapeo. Non puoi sbagliarti: quattrocento colonne di marmo, anche se rovinate dai cristiani persecutori. Sono ben visibili.
Ma quanto lontana è?
Circa tre miglia, vicino alla Porta della Luna, risponde l’omino.
Ma…non era la porta attraverso la quale siamo entrati in città dall’altro lato?
Proprio così. Siccome hai già percorso la strada per arrivare qui, sarà facile per te ripercorrerla nella direzione opposta.
Filemone lo strozzerebbe, sbatterebbe il suo cranio contro il muro, ma si controlla: Allora tu, maledetto pagano, intendi dire che mi hai volutamente allontanato dalla mia meta?
Calma, giovanotto. Se mi tocchi, io chiamo aiuto. Siamo vicini al quartiere ebraico, e là ci sono migliaia di uomini che piomberanno qui come uno sciame di vespe e non gli parrà vero di poter massacrare un monaco. E poi, quello che ho fatto l’ho fatto a fin di bene. Per il mio bene anzitutto, un bene inteso secondo saggezza pratica, al fine che tu, e non io, avessi a portare il peso del cesto. E poi secondo saggezza filosofica, secondo ciò che vedo della pura ragione: al fine che tu, messo di fronte allo splendore di questa grande civiltà, che voialtri vorreste distruggere totalmente, tu imparassi che sei un somaro, una tartaruga, una nullità, e così, rendendoti conto di non essere nulla, potessi essere spinto a diventare qualcosa. E fa per andarsene.
Filemone lo afferra per la tunica, e lo blocca. L’omino tenta di svincolarsi, vanamente.
Pacificamente, se vuoi, altrimenti a forza, in ogni caso tu ora mi riporti indietro, alla mia meta!
Il filosofo, risponde l’omino, vince le circostanze sottomettendosi ad esse. Verrò pacificamente. In verità, sono proprio le basse necessità della mia esistenza che mi riportano verso la Porta della Luna, per un’altra faccenda di frutta.
E così i due tornano indietro insieme.
Mezzo miglio camminano in silenzio, i pensieri di Filemone non si staccano dalla strana donna che ha sentito esaltare, di cui non sa nulla. All’improvviso sbotta: Ma chi è questa Ipazia, di cui parli sempre?
Chi è Ipazia, bifolco? La regina di Alessandria! Per sapienza è Atena! Per maestà è Era! Per bellezza è Afrodite!
E chi sono queste? chiede Filemone.
Il facchino si ferma, lo squadra dalla testa ai piedi con un’espressione mista di pietà e disprezzo, e nell’estasi del suo sdegno fa per allontanarsi. Ma il forte braccio di Filemone lo blocca.
Ah, già, abbiamo un accordo… Chi è Atena? La dea che dona la saggezza. Era è la sposa di Zeus e regina dei Celesti. Afrodite è la madre dell’amore…Non mi aspetto che tu capisca.
Filemone tuttavia capisce almeno questo: che nella mente dell’omino che lo guida Ipazia è una persona unica e meravigliosa. Perciò gli fa l’unica domanda con cui al momento può valutare qualsiasi fenomeno di Alessandria: E lei è amica del patriarca?
Il facchino sbarra gli occhi, fa con la mano un complicato gesto di scongiuro verso Filemone, su cui non ha alcun effetto. Poi si ferma, contempla ancora la possente figura del monaco e risponde: Mio giovane amico, lei è amica della stirpe degli umani in generale. Il filosofo deve innalzarsi al di sopra dell’individuo, alla contemplazione dell’universale… Aha! Ecco qualcosa che merita di essere visto, e le porte sono aperte. E si ferma all’entrata di un vasto edificio.
È questa la casa del patriarca?
I gusti del patriarca sono più plebei. Dicono che viva in due stanze sporche… consapevole di quello che gli si addice. La casa del patriarca? È l’opposto di questa, non vi è arte né spirito. Questa, questa è il tempio dell’arte e della bellezza, il tripode delfico dell’ispirazione poetica, il conforto dell’uomo affaticato: in una parola, il teatro. Se il tuo patriarca potesse, domani stesso lo ridurrebbe a un cumulo di rovine. Invece il filosofo non deve disprezzarlo. Ah, vedo all’entrata i messi del prefetto. Sta preparando la lista dei piatti del giorno, per così dire, assecondando il palato del popolo. Questo è il giorno in cui ogni settimana qui si esibisce una mima molto spiritosa, molto ammirata, soprattutto dai Giudei. Per il gusto più classico, molte delle sue movenze, certi ancheggiamenti, sono privi dell’antico decoro… nell’insieme potrebbe essere definita indecente. Tuttavia, il pellegrino stanco potrebbe anche trovarla piacevole. Entriamo a vedere lo spettacolo.
Ipazia, scena XVI
Ecco un omino addossato ad una catasta di legna. Ai suoi piedi una cesta di frutta, smilzo, occhi neri ridenti, medita osservando gli stranieri. La casa del patriarca? risponde. La conosco. Certo che la conosco. Tutta Alessandria la conosce, per forza. Tu sei un monaco?
Sì.
Allora chiedi ai monaci, se fai tre passi ne trovi subito uno.
Ma io non conosco nemmeno la direzione giusta…, dice Filemone. Ma tu, amico, perché ce l’hai coi monaci?
Giovanotto, mi sembri un po’ ingenuo, per essere un monaco. Non pensare che rimarrai così candido se resterai in Alessandria. Se continuerai a vestirti di pelle, e ad andare di chiesa in chiesa per un mese qui, senza imparare a mentire, a calunniare, ad applaudire e urlare invettive, e magari a partecipare a qualche atto di violenza… o assassinio… vorrà dire che sei un uomo migliore di quello che mi sembri adesso. Mio caro, io sono un greco, e sebbene il vortice della materia abbia imprigionato la mia scintilla spirituale in un corpo di facchino, sono un filosofo. L’omino si drizza in posa di oratore e continua: Perciò, giovanotto, io detesto la tribù dei monaci. Anzitutto la detesto come uomo e come marito. Essi odiano la bellezza del mondo, e la bellezza delle donne. Odiano le donne. Se i monaci ne avessero la forza, farebbero sparire il sesso dal mondo, non vi lascerebbero né uomini né donne, e tutti sarebbero angeli, come li chiamano loro, per una generazione soltanto, che sarebbe l’ultima. Essi imporrebbero all’umanità un suicidio volontario! In secondo luogo, li detesto come facchino, poiché se tutti gli uomini diventassero monaci, non avrei più clienti, lo stesso mestiere di facchino sarebbe cancellato. Infine li detesto come filosofo, perché come la moneta falsa di fronte alla moneta autentica, così è spregevole l’ascetismo irrazionale e animalesco del monaco di fronte al dominio di sé logico e metodico del più umile dei filosofi, quale sono io, che aspira ad una vita regolata dalla pura ragione.
Dimmi, ti prego, chiede Filemone sorridendo, chi è stato il tuo maestro di filosofia?
La fonte stessa della sapienza intramontabile: Ipazia. Io, guardiano di mantelli e parasoli, non oltrepasso mai le sacre porte dell’aula dove lei insegna, resto fermo lì alla soglia, ascolto, mi imbevo della conoscenza suprema. Fin dalla mia giovinezza ho percepito in me un’anima che si libra al di sopra della mandria degli uomini intrappolati nella materia. E Lei mi ha rivelato la splendida verità: io sono una scintilla della divinità. Sono una stella caduta, mio caro. E continua, meditabondo, accarezzandosi lo stomaco: una stella caduta… caduta… se la dignità della filosofia mi consente di usare queste parole… caduta tra i porci del mondo inferiore. Anzi, proprio nel truogolo dei porci. Va bene. Ti mostrerò la strada per l’arcivescovato. Aprire il proprio tesoro ad un giovane modesto dà una sorta di piacere filosofico! E l’omino si leva, mette la sua cesta di frutta in braccio al monaco e si avvia.
Filemone lo segue, imbarazzato ma anche curioso di questa strana filosofia, di cui non sa nulla. Questa filosofia, che sembra tanto elevare la stima di sé di un individuo così misero, basso, straccione, che lo sta guidando. Questa filosofia… Ma la via rumoreggia, fiume di corpi e di volti, file di carri, portantine, asini carichi, cammelli. Da una parte e dall’altra urti, botte, mentre passano la Porta della Luna e imboccano l’ampia strada. La filosofia evapora dalla sua mente, sostituita da una curiosità insaziata, e da una vaga persistente paura di quella grande realtà cittadina vivente selvaggia, più terribile di ogni landa deserta piena di morte che lui ha conosciuto, e che si è lasciato alle spalle. Ancora una volta Filemone avverte la nostalgia della tranquillità silenziosa della laura, dei volti sorridenti dei fratelli, ma è troppo tardi, non c’è ritorno. L’omino lo conduce per la grande strada, più di un miglio, attraversano il centro della città. Da lì si scorgono in lontananza le colline che fanno arco intorno, e la foresta degli alberi maestri nel porto dalle mille navi.
Ipazia, scena XV
Lungo la corrente del Nilo scende Filemone coi suoi nuovi compagni, i goti. Una dopo l’altra, lungo le rive, appaiono antichissime città, ora ridotte a villaggi. Anche i campi sembrano aver perso la fertilità, oppressi dallo sfruttamento romano e dal malgoverno. È sera quando imboccano il grande canale di Alessandria. Scivolano tutta la notte tra le ombre stellate del lago Mareotide, e all’alba si trovano tra le innumerevoli alberature e i rumorosi moli del più grande porto del mondo.
Questo per il giovane monaco è il primo volto del mondo. Folla variopinta di stranieri, frastuono di lingue diverse, dalla Spagna alla Crimea, immense pile di mercanzia, mucchi di grano, massicce sagome di navi granarie dalle alte murate. Vedendo queste cose, e molte altre, Filemone pensa che il mondo a prima vista non sembra meritare solo disprezzo, come gli avevano insegnato i fratelli del deserto. Gruppi di schiavi neri davanti a mucchi di frutta. Ridono e chiacchierano sul molo, in attesa di ordini. Loro certo non pensano che essere stati tolti alla fatica nei campi per questa vita nella città sia stato un cambiamento in peggio… Filemone distoglie lo sguardo da questa vanità. Ma ovunque lo posa, lo sguardo accoglie una nuova vanità. Si sente oppresso dalla moltitudine di cose nuove, stordito dal chiasso. Fatica a concentrarsi abbastanza per cogliere la prima occasione di fuga. Ma lo sforzo gli riesce, e approfittando della folla e della confusione tenta di allontanarsi dalla pericolosa compagnia.
Ehi là! ruggisce Smid l’armiere, inseguendolo. Non te ne stai mica andando via senza un saluto?
Fermati qua con me, ragazzo! dice il vecchio Wulf. Io ti ho salvato, e tu sei un mio uomo.
Filemone si gira. Esita. Io sono un monaco, dice, un uomo di Dio.
Puoi esserlo ovunque. Io farò di te un guerriero.
Filemone pensa che in Alessandria gli serviranno molte più armi spirituali di quelle che gli bastavano nel deserto. Le armi della mia guerra, risponde al goto, non hanno a che fare con la carne e il sangue: sono la preghiera e il digiuno. Lasciami andare! Io non sono fatto per il vostro genere di vita. Ti ringrazio e ti benedico, signore. Pregherò per te. Ma lasciami libero!
Ruggisce uno dei goti: Dannato cane vigliacco! Principe Wulf, perché non hai lasciato che lo sistemassimo a modo nostro? Dovevi aspettartela una gratitudine del genere da un vile monaco!
Devo finire di divertirmi con lui, dice Smid. E scaglia un’ascia mirando alla testa di Filemone. Ma il giovane ha riflessi fulminei e la schiva, e l’ascia sbatte contro un muro di granito.
Bella schivata, dice freddo Wulf. Marinai e donne del mercato si mettono a gridare. Accorrono funzionari, agenti e guardie del porto. Ma l’Amalo dalla poppa della nave tuona: Non preoccupatevi, ragazzi! Noi siamo solo un gruppetto di goti, e stiamo anche andando a rendere visita al prefetto
Siamo solo goti, cari amici cavalcatori di somari, gli fa eco Smid. A quel nome temibile tutti cercano di apparire tranquilli, e si ricordano di avere pressanti impegni altrove.
Lasciatelo andare, dice Wulf, lasciate che il ragazzo se ne vada. Io non ho mai riposto totale fiducia in un uomo, mormora a se stesso, ma questo mi ha davvero deluso. E da lui non devo aspettarmi null’altro. Andiamo, gente, andiamo a sbronzarci!
Ora che potrebbe andarsene, ovviamente, Filemone desidererebbe restare. In ogni caso, sente l’obbligo di tornare indietro a ringraziare i suoi ospiti. Torna veloce, e trova Pelagia col suo gigantesco innamorato. Stanno salendo su una portantina. Filemone si avvicina con gli occhi bassi alla bellissima donna occhi di basilisco, e riesce a dire qualche parola convenzionale di saluto. Lei subito gli rivolge un ammaliante sorriso. E gli dice: Prima di andartene, dicci qualcos’altro di te. Tu parli un greco così bello, che sembra ateniese puro. È così piacevole udire di nuovo il proprio accento… Sei mai stato ad Atene?
Da bambino… ricordo qualcosa…
Cosa ricordi? chiede Pelagia, evidente ansia.
Una grande casa in Atene. E una grande battaglia. Un caos. E di essere venuto in Egitto su una nave.
O Cielo! esclama Pelagia, e dopo una pausa: Che strano. Ragazze, chi ha detto che lui mi assomiglia?
Non volevamo offendere nessuno, se l’abbiamo detto era per scherzo, sussurra una delle ancelle.
Mi assomiglia! Tu devi venire da noi. Io ho qualcosa da dirti… Devi assolutamente venire da noi!
Il tono della donna rivela un fortissimo interesse, e Filemone lo fraintende. Non si ritrae, ma fa un gesto involontario di riluttanza. Pelagia ride. Non essere così vanitoso da immaginarti chi sa cosa, ragazzino, ma vieni da noi! Pensi forse che io sappia parlare solo di argomenti frivoli? Io abito… e nomina una strada alla moda. Filemone in cuor suo fa voto di non accettare l’invito, ma non può evitare di prender nota di quel nome.
Lascia quel pazzo, vieni via, ringhia l’Amalo dalla portantina. Non starai mica pensando di farti monaca?
Certo che no, almeno finché nel mondo ci sarai tu, l’unico vero uomo che io abbia mai incontrato, risponde Pelagia salendo agilmente sulla portantina. Mostrando maliziosamente una bellissima gamba, una freccia per Filemone, come fanno coi loro archi i Parti in ritirata. Ma Filemone non vede, è già stato travolto da una folla indaffarata e allegra, tra cesti, casse e gabbie di uccelli. Vuole solo andarsene, in mezzo a quella Babele, e trovare la strada verso la casa del patriarca. Deve chiedere a qualcuno.
Ipazia, scene XII, XIII e XIV
Miriam corre verso la sua casa nel quartiere ebraico, il rotolo ben stretto in seno. Vi giunge trafelata, non risponde al saluto della serva e si chiude nella sua camera. Con mani esperte dissigilla la lettera e la legge. Poi riavvolge il rotolo, e con mirabile destrezza lo sigilla nuovamente. Nessun occhio potrebbe accorgersi dell’operazione.
Una sala del palazzo del prefetto. Oreste sta giocando a dadi con Rafael Aben-Ezra. C’è ansia. Attendono la risposta di Ipazia.
Hai vinto di nuovo, dice il prefetto. Hai un demone grande in te, Rafael!
L’ho sempre pensato, risponde Rafael raccogliendo le monete d’oro.
Quando sarà qui la vecchia strega?
Quando avrà letto anche la risposta di Ipazia, oltre alla tua lettera.
Avrà letto?
Naturalmente, dice Rafael. Tu non immaginerai che lei sia tanto sciocca da consegnare messaggi a qualcuno senza conoscerne il contenuto? Non infuriarti, lei non dirà mezza parola. Lei darebbe uno di quei suoi occhi tenebrosi, pur di vedere la cosa andare a buon fine.
E perché?
L’eccellente prefetto lo saprà quando arriverà la lettera. Eccola qua! Sento i suoi passi. Ascoltami prima che entri, ti propongo una scommessa: due a uno che ti chiederà di ritornare al paganesimo.
Cosa scommettiamo? Qualche ragazzino negro?
Quello che vuoi.
D’accordo. Scommettiamo due schiavetti neri.
Entra Ipocorisma, imbronciato: Quella furia ebrea è qua fuori con una lettera in mano, e ha l’impudenza di dire che vuole dartela direttamente, senza consegnarla a me!
E allora falla entrare, dice il prefetto. Veloce!
Ma allora cosa ci sto a fare qui, mormora il ragazzo.
Non vorrai un bel nastro rosso e blu intorno a quelle tue bianche natiche, tu scimmiotto? Perché, se lo vuoi, ho uno staffile nuovo, di pelle di ippopotamo, sibila Oreste.
Rafael sogghigna: potremmo farlo stare qui a quattro zampe per un paio d’ore, usandolo come tavolo per il gioco dei dadi… come tu usavi fare con le ragazze in Armenia…
Ah, te lo ricordi quello? E come i loro babbi brontolavano, finché non mi sono deciso a farne crocifiggere un paio, eh? Quella era vita! Mi piacciono quelle terre di confine, dove non si deve rispondere delle proprie azioni… Invece qui è quasi come stare tra i monaci deserto, ma con tutti gli occhi addosso. Ma eccola qua la nostra Canidia! La risposta, prego!
Miriam si inchina e porge il rotolo a braccio teso. Oreste legge, la sua voce è un bisbiglio. La sua espressione perde ogni allegria.
Ho vinto? chiede Rafael.
Gli schiavi fuori! urla il prefetto. Se qualcuno origlia gli faccio tagliare le orecchie!
Allora ho vinto, non c’è dubbio, mormora l’ebreo.
Il prefetto gli lancia la lettera, e Rafael la legge velocemente:
«Gli Dei immortali non accettano che gli sia tributato un culto parziale, per la qual cosa colui che vorrebbe disporre dei consigli della loro profetessa deve ricordare che essi non si degneranno di illuminarla finché non si tornerà ad onorarli come avveniva un tempo. Se colui che aspira a farsi signore dell’Africa oserà finalmente calpestare l’odiosa croce, e restituire i sacri edifici a coloro per il cui culto furono edificati, se oserà proclamare a viso aperto, con parole e opere, quel disprezzo delle nuove e barbare superstizioni che gli è già stato infuso dal gusto e dalla ragione, allora soltanto egli si dimostrerà un uomo con cui sarà una gloria affrontare la fatica, il rischio, la morte per una grande causa. Ma finché dureranno le presenti ambiguità e incertezze questa unione sarà impossibile.»
Cosa devo fare? chiede il prefetto.
Accetta le sue condizioni, alla lettera, risponde Rafael.
Santo cielo! Verrò scomunicato! E… e… cosa sarà della mia anima?
Cosa ne sarà in ogni caso, prefetto eccellentissimo, risponde Rafael con fastidio.
Sì, lo so che voi maledetti ebrei pensate che dalla dannazione sarete salvati soltanto voi. Ma il mondo, il mondo che cosa dirà? Che io sono un apostata! E davanti a Cirillo e alla plebaglia cristiana! No, te lo dico: non oserò mai.
Ma nessuno chiede all’eccellente prefetto di apostatare…
Eh? E allora cosa intendevi dire?
Io ti ho chiesto solo di promettere, dice Rafael. Promettere. Non sarebbe la prima volta che alle promesse fatte prima del matrimonio non corrispondono i fatti dopo…
Non oso promettere, non voglio. Credo che sia un intrigo di voi giudei, per coinvolgermi nella vostra lotta contro i cristiani, che voi odiate.
Io disprezzo troppo profondamente l’intero genere umano per poter odiare i cristiani, replica Rafael. Non capirai mai quanto fosse disinteressato il mio consiglio quando ti ho proposto questo matrimonio. Non voglio farmene un vanto… Ma tu dovresti fare un piccolo sforzo per conquistare quella donna. Con la profondità del suo intelletto a tua disposizione, tu potresti essere arbitro tra Occidente, Oriente e Germani. E.. per quanto concerne la bellezza, c’è una fossetta in quel polso, proprio dove si attacca quella meravigliosa mano, che vale più di tutta la carne e il sangue di Alessandria…
Per Ercole! Tu l’ammiri tanto che io sospetto che tu ne sia innamorato. E allora perché non te la sposi tu? Io potrei darti un alto incarico di governo, e allora noi due potremmo disporre del suo sapere senza i problemi che possono derivare dalle sue fantasie di ripristino dell’ordine antico. Per gli Dei! Se tu la sposi e mi aiuti io ti darò tutto quello che vuoi.
Rafael si alza e si inchina profondamente.
La generosità del prefetto è sublime, e mi schiaccia. E tuttavia io non mi sono mai preoccupato degli interessi di alcuno al di fuori di me, per la qual cosa non ci si può attendere che ora mi dedichi all’interesse di un altro, fosse pure quello dell’illustre prefetto Oreste.
Parole oneste!
Certamente. E poi diciamo che se anche avessi di nuovo l’intenzione folle di sposarmi, la persona da me sposata sarebbe in pratica, e anche in teoria, una mia proprietà particolare e privata… Come tu comprendi…
Altre parole oneste!
Certamente. E va considerato che lei probabilmente rifiuterebbe anche una mia proposta di matrimonio. Inoltre il prefetto intenderà come non sia conveniente che nel mondo corra la voce che io, che sono un suddito, abbia come moglie una persona così sapiente e affascinante, soprattutto qualora la stessa persona abbia rifiutato seccamente una proposta di matrimonio del prefetto stesso.
Per Zeus! Ipazia mi ha rifiutato… ma farò in modo che se ne penta. Sono stato un idiota a chiederglielo. A che cosa serve il potere se non può essere usato per imporre la propria volontà? Se con le buone no, allora con le cattive! Manderò a prenderla immediatamente.
Illustrissimo prefetto, questo non è possibile. Dovresti conoscere la fermezza di quella donna. Nessuna tortura potrebbe piegare la sua volontà finché le resterà un soffio di vita. E da morta non ti servirà a niente, mentre servirà molto a Cirillo.
E come?
Cirillo sarà felice di poter usare l’intera faccenda contro di te: Ipazia che muore come una vergine martire… Inventerà che poco prima di morire è stata illuminata da Cristo, ha abbracciato la fede cattolica, subito pronta a testimoniarla con la vita. Sulla sua tomba andranno a pregare, ci saranno miracoli, e il tuo palazzo tremerà.
Ma Cirillo verrà a saperlo comunque. Ecco un altro regalo che mi hai fatto, tu coi tuoi intrighi! Pensa se quella donna diffondesse in tutta Alessandria la voce che io ho chiesto la sua mano e lei si è onorata di un rifiuto…
Volevi sposarla per la sua saggezza. Se si comportasse come tu dici si rivelerebbe una sciocca… Sa bene che se lei parlasse tu potresti informare la plebaglia cristiana delle condizioni che ti ha posto. Ipazia disprezza il peso della carne, ma non ha nessuna intenzione di alleggerirsi facendosi fare a pezzi da una folla di monaci cristiani. Anche se l’ho sentita qualche volta, quando era presa da melanconia, dire che in ogni caso la sua fine è già segnata. Una fine violenta.
Allora, cosa mi consigli di fare?
Semplicemente nulla. Lasciare che il suo sdegno filosofico si attenui. Ci vorrà qualche giorno. Vedrai che quando l’immagine di un trono emergerà dalle nebbie astrali e metafisiche che in questo momento sono davanti ai suoi occhi Ipazia capirà che per lei è giusto accettare la tua offerta. Anche lei è un essere umano, e io conosco gli esseri umani. Prima che passi un mese, lei spontaneamente ti scriverà per un accordo. Scommettiamo qualche mulo del Caucaso? Sei d’accordo? Dunque sia così. Tu non fare nulla.
Per un prefetto tormentato dal dubbio tu sei il consigliere più affascinante, dice Oreste. Se io avessi soltanto una fortuna privata, come te, io mi limiterei a godermela, lasciando che il denaro producesse denaro, senza affannarmi…
Non affannarsi: questo è il metodo più sicuro per governare con successo. Ora il tu servo ti lascia. Potrò averti a cena a casa mia domani?
Rafael si inchina ed esce. Appena fuori del palazzo, vede Miriam sull’altro lato della strada. Evidentemente lo sta aspettando, ma fa finta di nulla, lo segue e non appena lui gira un angolo lo raggiunge e lo afferra per un braccio.
Quel pazzo oserà farlo? sibila la donna.
Chi oserà fare cosa?
Sai quello che intendo. Non penserai che la vecchia Miriam porti in giro lettere senza preoccuparsi del loro contenuto? Lui apostaterà? Dimmelo. Sarò muta come una tomba.
Quel pazzo ha trovato in sé stesso una parte della sua anima ancora non divorata dai vermi, e non osa apostatare, risponde Rafael.
Maledetto vigliacco! E dire che avevo concepito un piano così bello. Nel giro di un anno tutti i cani cristiani sarebbero stati spazzati via dall’Africa. Ma di cosa ha paura quell’uomo?
Del fuoco dell’Inferno.
Ci andrà in ogni caso, quel maledetto gentile!
Gliel’ho accennato, con tutta la delicatezza del caso. Ma come tutti gli umani lui preferisce scegliersi personalmente una delle tante strade che portano là.
Che vigliacco! E di chi mi potrei servire ora? Oh, se quella Pelagia avesse tanto intelletto nel suo corpo intero quanto Ipazia ne ha nel suo mignolo, allora io potrei far sedere lei e quel suo goto sul trono dei Cesari. Ma…
Ma lei ha cinque sensi, e abbastanza buon senso da usarli bene, eh?
Non la deriderai per questo? Dopo tutto, a me piace molto. Anche il mio vecchio sangue si riscalda vedendo come conosce bene il suo mestiere. E come lo ama, una vera figlia di Eva!
Certamente lei è la tua allieva di maggior successo, madre. Davvero puoi essere orgogliosa di lei.
La vecchia sogghigna tra sé. D’un tratto si rivolge a Rafael: Guarda qua! Ho un dono per te. E tira fuori un anello meraviglioso.
Madre! Mi copri sempre di regali! Solo un mese fa mi hai mandato questo pugnale avvelenato…
Perché non dovrei? Perché? Prendi l’anello di questa vecchia!
Che splendido opale!
Sì, è proprio un opale. E ha inciso il nome impronunciabile… proprio come quello di Salomone. Prendilo, ti dico. Chiunque lo porti non temerà il fuoco, il ferro, il veleno, e l’occhio di una donna.
Compreso il tuo, eh?
Ti dico di prenderlo! E Miriam afferra la sua mano e glielo infila. Ecco! Adesso sei al sicuro. Ed ora chiamami ancora madre. Mi piace. Non so perché, ma mi piace. E, Rafael Aben-Ezra, non prendermi in giro, non chiamarmi strega e megera, come fai spesso. Sono abituata a sentirmi chiamare così dagli altri, non ci faccio caso. Ma quando lo fai tu… vorrei ucciderti. Per questo ti ho regalato il pugnale. Usavo portarlo io, e temevo che un giorno avrei potuto essere tentata di usarlo, al pensiero di te morto, bello, quieto, la tua anima felice nel seno di Abramo a contemplare tutti i Gentili fritti e arrostiti là sotto. Ti dico di non ridere di me, di non prendermi in giro. Un giorno potrei fare di te il primo ministro dell’imperatore. Se lo volessi, potrei…
Che il cielo non voglia, ride Rafael.
Non ridere! La notte scorsa ho fatto il tuo oroscopo, e so che non hai alcun motivo di ridere. Su di te pende un grave pericolo, ed una grande tentazione. Se supererai la tormenta, nessun potere ti sarà precluso… anche il soglio… Tu salirai al potere. Per i quattro Arcangeli! Tu salirai!
La vecchia svanisce in una stradina laterale, lasciando Rafael molto perplesso. Mosè e tutti i profeti! Ma cosa ci sarà in me, in questa persona pigra ed egoista, da suscitare un amore così selvaggio? Bene, caro Rafael Aben-Ezra, hai un altro che ti vuol bene in questo mondo oltre al mastino Bran. E quindi ancora noie, visto che gli amici si aspettano sempre un qualche ritorno dall’affetto e dai buoni uffici che ti prestano… Mi chiedo se la vecchia si sia impantanata in qualche sordido affare e aspetti un aiuto da me. Santo cielo! Per arrivare a casa dovrei camminare per tre quarti di miglia sotto questo sole. Devo salire su qualche veicolo… con un conducente fetido di cipolle, che magari ne sta ancora masticando una. E per mezzo miglio non ne troverò nemmeno uno. O etere divino! Come Prometeo… e voi brezze dalle ali veloci! Nemmeno una qui. Quando sarà finito tutto? Questa Babele di furfanti e di idioti la sopporto da trentatré anni… E con questa abominevole buona salute che mi accompagna non posso sperare nemmeno in una gotta o in una indigestione. Almeno altrettanti anni in questa Babele… Io non so nulla, non mi importa di nulla e non mi aspetto nulla. Ma non ho neanche la voglia di suicidarmi tanto per far uscire quel po’ di spirito che ho qua dentro, per vedere se ha una qualche forza… ma chi vedrebbe? E magari l’altro versante della tomba è stupido come questo… Quando sarà finito tutto? Quando sarò nel seno di Abramo… o di qualcun altro? Basta che non sia quello di una donna…
Ipazia, scena XI
Mattina. Nella camera di Ipazia irrompe la sua domestica prediletta, sulla faccia il terrore.
Signora, la vecchia ebrea… quell’arpia… quella che ultimamente non fa che guardare questa casa. Ieri sera ci ha spaventate a morte con le sue occhiate. Noi tutte sappiamo che quella è una strega potentissima, che mette il malocchio…
Ho capito… cosa mi vuoi dire di lei?
Lei ha chiesto di entrare, mia signora… e di parlare con te. Ma io non mi preoccupo mica… Io ho il mio amuleto con me. Tu ne hai uno con te, spero…
Sciocchina! sbotta Ipazia. Quante volte ti ho detto che quelli come me, gli iniziati ai divini misteri, possono sottomettere i demoni e comandarli! E tu pensi ancora che io tema le magie e gli incantesimi? Su di me non hanno potere. Falla venire qui.
La ragazza va, nello sguardo sacro timore e incertezza. Ritorna con la vecchia Miriam, camminando dietro le sue spalle, il suo amuleto forse non la salverebbe dall’occhio di basilisco…
Miriam entra, avanza, guarda Ipazia. Ipazia rimane seduta e la guarda. Miriam le fa un profondo inchino continuando a guardarla. Ipazia fissa gli occhi della vecchia, sguardo nero intenso, sente un’ira non filosofica crescerle dentro.
Silenzio teso. Miriam estrae una lettera dalla veste, si inchina di nuovo profondamente e la porge ad Ipazia.
Chi me la manda?
Forse la lettera stessa lo rivelerà alla signora bellissima, alla signora fortunata, alla signora sapiente… Come potrebbe una povera vecchia ebrea conoscere i segreti dei grandi di questo mondo?
Dei grandi?
Ipazia guarda il sigillo. È quello di Oreste. Anche la scrittura è la sua. Ma perché il prefetto avrebbe scelto un messaggero talmente… irriconoscibile come messaggero? Perché questa segretezza? Batte le mani per chiamare la domestica. Falla attendere in anticamera, le dice. Miriam si ritira con un altro profondo inchino. Ipazia dà un’ultima occhiata alla vecchia e ritrova quello sguardo nero puntato su di lei. Avverte un brivido freddo, e non lo comprende. Pazza che sono! Cosa può significare per me quella strega? Leggiamo la lettera!
«Alla nobilissima e bellissima, la signora della filosofia, la diletta di Atena, il suo allievo e servo manda il suo saluto»… Il mio servo! E non scrive il suo nome! «Alcuni ritengono che la gallina preferita di Onorio, che porta il nome di Città Imperiale, vivrebbe meglio con un nuovo nutritore, e il Conte d’Africa è stato inviato da se stesso e dagli Dei immortali a sovrintendere al pollaio dei Cesari, almeno durante l’assenza di Ataulfo e Placidia. V’è anche qualcuno che ritiene che in sua assenza il leone di Numidia possa essere indotto a farsi compagno di giogo del coccodrillo d’Egitto, e che un podere arato da un siffatto paio si possa estendere dalla Cateratta superiore alle Colonne d’Ercole. Un podere simile potrebbe essere attraente anche agli occhi di un filosofo. Ma l’Arcadia non è perfetta finché il contadino non ha la sua ninfa. Senza Arianna, cosa sarebbe Dioniso, e Ares senza Afrodite? E Zeus senza Era? Perfino Artemide si accompagna ad Endimione. La sola Atena rimane senza sposo, ma solo per il fatto che Efesto è troppo rozzo per lei. Così non è lui ad offrire alla rappresentante di Atena l’opportunità di condividere quello che potrebbe vedere la luce solo con l’aiuto della sua sapienza, e che senza di lei non potrebbe sussistere.»… Mentre legge, Ipazia arrossisce. Col foglio in mano si alza di scatto e si precipita nella biblioteca. Teone è là, in mezzo ai suoi libri.
Papà, sai qualcosa di questa faccenda? Guarda cosa ha l’impudenza di scrivermi Oreste. Me l’ha fatto avere dalle mani di una strega ebrea. Gli porge la lettera, aspetta ansiosa che il vecchio la legga, e lui la legge con estrema attenzione. Ipazia trema dalla rabbia mescolata al suo orgoglio. Teone solleva lo sguardo, e non appare dispiaciuto di quel che ha letto.
Allora, papà, gli chiede lei, non avverti anche tu l’offesa che è stata recata a tua figlia?
Teone stupito: Bambina mia, non vedi che lui ti offre…
Lo so quello che mi offre, papà. Mi offre l’impero d’Africa. Io dovrei discendere dalle altezze della scienza, dalla contemplazione di ciò che non muta, dell’ineffabile, fino al fango della vita terrena. Dovrei diventare una pedina del gioco politico, in mezzo alle ambizioni meschine, alla depravazione e alla falsità del gregge. E il premio che mi offre, che offre a me, che sono pura, senza macchia… è la sua mano! Pallade Atena!
Bambina mia, bambina mia… un impero…
L’impero del mondo non potrebbe restituirmi il mio rispetto di me stessa, né il mio giusto orgoglio. Come potrei impedirmi di arrossire ogni volta al pensiero di essere una moglie? Moglie: che nome odioso e degradante! Proprietà di un uomo… il fantoccio di un uomo… una che deve sottomettersi al suo piacere, e fargli figli… tutte le nauseanti faccende di una moglie. Non sarei più pura, indipendente. Non sarei più io la fonte della mia gloria. La mia bellezza non sarebbe più l’espressione dell’amore di Atena, ma il giocattolo di un uomo. E quell’uomo! Frivolo, lussurioso, senza cuore. Lui mi ha frequentata per anni, ma della filosofia non gli importa nulla. Raccoglie briciole dal banchetto degli Dei, e le piega ai suoi bassi fini. Ma sono stata cieca, io. L’ho incoraggiato, senza volerlo… No, veramente le cose stanno così: è stato solo perché speravo che il fatto che un uomo così in vista, il prefetto, frequentasse la scuola avrebbe sostenuto la causa degli Dei immortali agli occhi della moltitudine. Senza volerlo. Per leggerezza, ho contaminato la purezza sacra con la putredine mondana. E questa è la mia punizione! Devo rispondergli immediatamente. Si merita che la risposta gli sia portata dallo stesso degno messaggero che mi ha inviato… Insulto per insulto!
In nome delle Potenze Supreme, figlia mia! Per la vita di tuo padre! Per la mia vita! Ipazia! Mio orgoglio, mia gioia, mia unica speranza! Abbi pietà dei miei capelli bianchi! Teone si getta ai piedi della figlia e le abbraccia le ginocchia. Disperazione.
Ipazia lo solleva, lo cinge con le braccia, appoggia il capo sulla sua spalla. Le sue lacrime scendono, la sua bocca è serrata. Nulla può piegare la sua determinazione.
Teone singhiozza: Pensa alla mia gloria nella tua gloria! Io penso a te, non a me stesso…Sai bene che non mi sono mai preoccupato per me. Ma l’idea di morire vedendoti sul trono…
Se non muoio prima di parto, padre mio, come capita a molte donne tanto deboli da diventare schiave, che si sottomettono… a torture da schiave.
Ma… ma… balbetta il vecchio filosofo, cercando qualche argomento sufficientemente alto e nobile e lontano dalle idee volgari da poter avere un effetto sulla figlia. Ma pensa alla causa degli Dei! Che cosa potresti fare da sovrana! Ricordati di Giuliano! Pensa alle nobili imprese di colui che i Cristiani chiamano l’Apostata!
Di colpo, le braccia di Ipazia cadono. Sì! È vero! Il pensiero attraversa la sua mente. Una folgore di delizia e terrore. Visioni e sogni della fanciullezza: templi, sacrifici, collegi sacerdotali… Che cosa non potrebbe fare dal trono! Come trasformerebbe l’Africa! Dieci anni di potere, e l’odiato nome di cristiano potrebbe cadere nell’oblio… Una statua colossale di Atena Poliade, luccicante d’oro, potrebbe sovranamente guardare le navi che riempiono il porto di Alessandria… Ma il prezzo! Il prezzo da pagare! Ipazia si copre il volto con le mani e scoppia in lacrime. Lacrime amare. Trema tutto il suo corpo per la lotta in lei. Lentamente ritorna alla sua camera.
Teone la guarda con ansia. È perplesso. Sta fermo un attimo, poi la segue, incerto. Lei è seduta al suo tavolo, la faccia nascosta dalle mani, scossa da tremiti. Non osa disturbarla. Il padre ama la figlia, così bella, così sapiente, così ricca di doni divini. Fermo sulla soglia, continua a guardarla, e prega tutte le potenze divine e demoniche, da Atena allo spirito guardiano di sua figlia. Le prega di non accecarla, di piegare la sua ostinazione irrazionale.
Ma ecco che Ipazia ha vinto la sua battaglia interna. Solleva lo sguardo, nuovamente chiaro, calmo e radioso.
Sia pure. Per la vita degli Dei immortali… per l’arte, la scienza, l’erudizione e la filosofia… sia pure. Se gli Dei richiedono una vittima, eccomi. Se per la seconda volta la flotta greca non può salpare se non col sacrificio di una vergine, offrirò la mia gola al coltello. Padre, come Ifigenia!
Teone piange di gioia e tenta di scherzare: E io dunque sarei un altro Agamennone? Mi vedi come un padre molto crudele, ma…
Risparmiami, papà. Ipazia fredda. Come io ho risparmiato te. E inizia a scrivere la sua risposta.
Il padre rimane in piedi. La guarda scrivere. Lei non alza la testa finché non ha finito.
Ho accettato la sua offerta. Sotto condizione. Vedremo se lui l’accetterà, dipende tutto da… Tu non chiedermi nulla! Finché Cirillo è il capo della marmaglia cristiana, per te, papà, sarà più sicuro essere nelle condizioni di negare qualsiasi conoscenza della mia risposta. Ti dico solo questo: gli ho scritto che se agirà come io vorrei che facesse, io farò come tu vorresti che io facessi.
Non sarai stata troppo… aspra? Non gli avrai chiesto qualcosa che magari lui non oserà garantirti pubblicamente ora, per timore di suscitare l’ira delle folle? Qualcosa che però lui potrebbe darti il modo di fare tu stessa, una volta che…
Gliel’ho chiesto. Se io devo essere una vittima, il sacrificatore deve almeno essere un uomo, e non un codardo, un servitore dello spirito di questi tempi. Se lui crede davvero in questa fede cristiana, che la difenda contro di me! Perché o questa fede sarà annientata, o sarò annientata io. Se non farà la scelta che gli ho chiesto, se continuerà come ora, che viva pure nella sua menzogna, che le sue labbra pronuncino pure per bassi motivi politici bestemmie contro gli Immortali, anche se il suo cuore e la sua ragione si ribellano!
Batte le mani. Subito entra la domestica. Ipazia le consegna la lettera senza una parola. Chiude la porta, si siede. Vorrebbe riprendere le sue riflessioni su Plotino. Vorrebbe tornare nel mondo dei sogni della metafisica. Ma non può uscire dalla lotta troppo umana del suo cuore. La sua anima individuale deve assumersi da sola il peso di un atto di volontà, di una decisione pesante e terribile. Per questa decisione a che le giova aver definito il processo mediante il quale le anime individuali emanano dall’Universale? La sua ragione individuale è abbandonata ad una lotta per la vita, in uno sconfinato oceano in tempesta di oscurità e dubbio. Per questa lotta a che le giova saper scrivere elegantemente sull’immutabilità della suprema Ragione? Tutto le è apparso grande, luminoso e logico, fino ad un’ora fa. Sillogismo dopo sillogismo. Irrefutabilmente… ha dimostrato che il male non esiste. Ha dimostrato come il male non sia altro che una forma inferiore del bene. Come il male non sia che uno degli innumerevoli prodotti della grande Mente che pervade il tutto, Mente immutabile e infallibile, ma recondita tanto che la maggior parte degli umani non la intende. Il filosofo la intende, che ha imparato a vedere il tronco e il ramo che connettono il frutto in apparenza amaro con la radice perfetta dell’albero. Ma in questa situazione, qui e ora, lei può vedere il ramo? La connessione tra la pura Ragione suprema e le odiose carezze di quel vigliacco e debosciato di Oreste… Quello in cui sta cadendo non è un male allo stato puro, senza una sola venatura di bene passato presente o futuro? Vero che lei potrebbe mantenere puro il suo spirito in mezzo a quel marciume. Potrebbe sacrificare il corpo, che non vale nulla, e innalzare la sua anima mediante l’auto-sacrificio… Ma si accrescerebbe l’orrore. Il male presente, reale, inspiegabile… Perché le Potenze lo richiedono, perché la torturano? Lei, l’ultima loro adepta pura… Forse è richiesto a loro che procedano così con lei… senza pietà. Da un potere più alto, del quale esse sono solo le emanazioni. Gli strumenti. E forse a questo stesso potere il suo sacrificio è richiesto da uno ancora più alto, un potere senza nome, che agli umani appare come un destino assoluto. Un destino di cui lei e Oreste e tutti in cielo e in terra sono le vittime, tratte in un vortice ineluttabilmente, senza speranza, senza aiuto, ciascuno verso la sua fine. E questo orrendo destino è il suo. Pensiero che annienta. Ma Ipazia è invasa dall’ira. No! Non si piegherà. Sarà ribelle. Come Prometeo. Sfiderà il destino, come un’eroina tragica. E si precipita per impedire la partenza della lettera. Ma è andata. Miriam è sparita.
Ipazia si appoggia al muro, e piange amaramente.
Ipazia scene IX e X
Per due giorni la barchetta di Filemone ha disceso la corrente del Nilo. I suoi occhi si sono posati su città e villaggi, sulla gente lungo le rive. Che vita conducono? Sono felici? Si è tenuto a distanza da ogni inbarcazione che ha incrociato, splendide barche di ricchi signori o mercanti, piccole zattere di commercianti poveri. Ha salutato ciurme di monaci in movimento da un monastero all’altro. Viaggio che sembra senza fine. Paesaggio sempre uguale, fango, sabbia, uccelli acquatici e coccodrilli immobili al sole. Nostalgia delle sue colline e del deserto immenso, aperto su un mondo favoloso di elefanti, draghi, satiri e antropofagi… il mondo della Fenice. Stanchezza, melanconia. La mente di Filemone torna sulle ultime parole di Arsenio. Che cosa lo sta attirando nel grande mondo, lo spirito o la carne? Come capire? Sente che il mondo lo eccita, e questo è carnale. Ma lui aspira a convertire quel mondo, e questo non è spirituale? Non sta forse per gettarsi in una nobilissima impresa? Assetato di fatica, di santificazione, anche di martirio. Il martirio taglierebbe il nodo di Gordio di tutte queste tensioni, delle tentazioni assillanti. Il martirio lo salverebbe. Ma è vero che nella laura lui si salverebbe senza dover affrontare gli orrori del mondo… Il dubbio lo attanaglia. Ma infine si riscuote. Il dato è tratto! Filemone andrà avanti, risponderà alla chiamata, che sia dello spirito o della carne. Ma quanto desidererebbe un’ora, un’ora soltanto, nella vecchia laura, tra i volti familiari…
Ed ecco una grande imbarcazione, una nave, tutta dipinta di colori vivaci. A bordo uomini armati, vesti rozze, straniere. Grida belluine. Stanno dando la caccia a qualcosa di grosso, nell’acqua. A prua sta un gigante, impugna un arpione con la destra, con la sinistra tiene una fune. La fune è legata ad un altro arpione, conficcato nella schiena di un ippopotamo. Schiuma, sangue. A poppa un vecchio guerriero capelli grigi, il timoniere. Mantiene la barca vicina all’animale. Venti remi in azione, tutti sono eccitati. Filemone dimentica il suo dovere, si avvicina curioso. Sulla grande barca dei cacciatori c’è un tendone decorato: dall’ombra sguardi di occhi bistrati si posano su di lui. Chiacchiericcio, sorrisi, gridolini, agitarsi di boccoli scuri e collari d’oro. Lino trasparente, braccia nude. A poche braccia da lui… I serpenti!
Confusione nella mente, vergogna, Filemone rema freneticamente per allontanarsi da quella gente, e non vede il pericolo. La bestia furiosa ha visto la barchetta, l’attacca, e in un attimo la capovolge. Filemone nuota come un pesce da sempre, e si accorge di non aver paura. Una furia lo prende, impugna il suo coltello dalla corta lama, colpisce e colpisce la bestia sul fianco. I barbari gridano entusiasti, la scena li delizia. L’ippopotamo spalanca la bocca e in un attimo la barchetta va in frantumi. Ma allora il gigante dalla prua scaglia un arpione con tanta forza che sprofonda fino alla vita della bestia, che rimane a galleggiare immobile nell’acqua sanguinosa.
Grida di trionfo, maschili e femminili. Solo Filemone tace, nuota tra i resti della sua barchetta. Che fare? Nuotare verso la riva? Coccodrilli? E quegli occhi di basilisco che lo guardano… Dai coccodrilli potrebbe salvarsi, ma dalle donne… E si mette a nuotare con tutto il vigore verso la riva. Ma deve fermarsi, perché si ritrova accanto la fiancata della nave, si ritrova tra le mani una corda, si ritrova issato a bordo, tra barbari ridenti e amichevoli. Risate, complimenti, meraviglia, mormorio della ciurma. Trovano strana la sua riluttanza a valersi del loro aiuto. Il ragazzo li guarda stupito. Hanno la pelle chiara, corpi possenti, barbe rosse e capelli biondi, lunghi, annodati sopra la testa. Vestiti mezzi barbari e mezzi romani, usurati dal tempo e dalle battaglie. Collane di monete romane, d’oro. Il timoniere si distingue perché indossa semplici brache di lino e una corazza di cuoio. Come mantello una pelle d’orso. Parlano una lingua che Filemone non capisce.
Il gigante sta dicendo al timoniere: Il nostro ospite è un ragazzo con muscoli e cuore, Wulf figlio di Ovida, e capisce meglio di te cosa vuol dire portare pelli d’orso sulla schiena in questa fornace.
Io mi mantengo fedele al modo di vestire dei miei padri, Amalric! Quel che ci ha portato a saccheggiare Roma può portarci fino ad Asgard.
Il gigante Amalric sogghigna: Asgard, sempre Asgard… se sei tanto ansioso di andare ad Asgard da questi banchi di sabbia, potresti chiedere a questo ragazzo quanto dista da qui.
Wulf lo prende alla lettera, e lo chiede al giovane monaco. Filemone non capisce e scuote la testa.
Chiediglielo in greco, dice il gigante.
Il greco è una lingua di schiavi! Che glielo chieda uno schiavo, sbotta Wulf.
Amalric ridendo tuona: Nessuno dei Goti è uno schiavo. Ehi! Una di voi, ragazze! Pelagia! Tu parli la lingua del ragazzo. Domandagli quanto ci vuole da qui ad Asgard.
Dall’ombra del tendone una voce sensuale: Me lo dovresti chiedere più gentilmente, mio ruvido eroe.
Vieni qua, allora, mio virgulto d’olivo, mia gazzella, mio fiore di loto, mio… non mi viene. Vieni qua, e domanda a questo selvaggio uomo delle sabbie quanto distanti siamo noi ora qui da Asgard.
Filemone vede il telone sollevarsi, vede apparire una giovane donna ornata come una regina, splendente di gioielli. Come se dalle figure dipinte che lo avevano sedotto, nella valle lassù, una avesse preso qui… carne e vita.
Asgard? cinguetta, che cos’è questa Asgard? La bella creatura guarda il gigante aspettando la risposta.
La città degli Dei immortali, dice Wulf bruscamente, rivolto alla ragazza.
La città di Dio è nell’alto dei cieli, dice Filemone all’interprete, distogliendo subito lo sguardo da quegli occhi scintillanti e sensuali, che cercano i suoi.
Tutti scoppiano a ridere, tranne il capo, che si limita ad alzare le spalle.
Ad Alessandria i goti hanno raccolto tradizioni di ogni genere sulle terre del profondo Sud. Per me, dice Amalric, Asgard potrebbe essere nell’alto dei cieli come alle sorgenti del Nilo. Potremmo raggiungerla volando come uccelli, o remando controcorrente. Pelagia, chiedigli da dove viene il fiume.
La domanda di Pelagia scatena il caos nella mente di Filemone: le meraviglie di quel mondo magico su cui ha fantasticato da ragazzino camminando coi monaci. Potenza del fiume Nilo! Nasce nel Caucaso. Ma dov’è il Caucaso? Non lo sa… In Paradiso? In Etiopia? In India? Dove si trovano quelle terre? Non lo sa. Nessuno lo sa. Il fiume scorre per centocinquanta giorni di viaggio attraverso deserti… Deserti dove non vive nessuno, solo serpenti alati e satiri. Dove il calore incendia le criniere dei leoni…
Laggiù tra quei dragoni potremmo fare buona caccia, se non altro, dice Smid figlio di Troll, l’armiere del gruppo.
Buona come la caccia di Thor, quando prese il serpente Midgard con la testa di toro, dice Wulf.
Ancora cento giorni di viaggio, riprende Smid, intorno all’Arabia e all’India, tra foreste piene di elefanti e di donne dalla testa di cane.
Sempre meglio, Smid! grugnisce Wulf, approvando.
Bistecche fresche laggiù, nobile Wulf, eh? Dice Smid. Devo sistemare per bene le punte delle frecce.
Filemone riesce a dire: Dalle montagne degli Iperborei, immerse nella notte eterna, dove l’aria è piena di piume… Cioè, un terzo delle acque del Nilo viene di là, e un altro terzo dall’oceano del Sud, oltre i monti della Luna, dove nessun umano ha mai posto piede, e un terzo ancora dalla terra dove vive la Fenice, che nessuno sa dove sia. Ma risalendo il fiume si incontrano le Cataratte, e le piene, e… e… e… oltre le Cataratte nulla se non dune di sabbia e rovine, infestate di demoni… Quanto ad Asgard, tra noi nessuno ne ha mai sentito parlare…
Pelagia traduce in gotico, sbaglia, interpreta, aggiunge. Tra i goti qualcuno sa abbastanza bene il greco e protesta. Alla fine il gigante si dà una manata sul ginocchio e giura che Asgard può marcire fino al giorno della fine degli Dei prima che lui risalga il Nilo di un altro braccio.
Non badiamo al monaco! ringhia Wulf. Cosa può saperne un poveraccio come lui?
Perché dovrebbe saperne di meno lui di quel bue di governatore romano? chiede Smid.
Oh, i monaci sanno tutto, dice Pelagia. Loro risalgono il fiume per centinaia di miglia, migliaia di miglia. Attraversano i deserti, in mezzo a nemici e mostri, dove chiunque altro verrebbe divorato, o impazzirebbe immediatamente…
Ah, quei santi uomini! Il segno della Santa Croce li rende invincibili! grida una delle ragazze. Tutte si segnano devotamente. Due o tre stanno per lanciarsi ai piedi del monaco per farsi benedire, ma le trattiene il pensiero dei loro amanti goti, che non amano troppo queste manifestazioni di religiosità.
Perché dovrebbe saperne di meno lui di quel bue di governatore romano? dice Amalric. Ben detto, Smid! Credo che quel servitore del prefetto si sia preso gioco di noi quando disse che Asgard dista solo dieci giorni di viaggio risalendo il fiume.
Perché? Chiede Wulf.
Io non do mai ragioni. A cosa servirebbe essere un Amalo, un figlio di Odino, se uno dovesse sempre addurre ragioni come un bastardo leguleio romano? Ho detto che il governatore sembrava un bugiardo. E adesso dico che questo monaco sembra un ragazzo giusto, e che ho deciso di credergli. Fine di tutto.
Non guardarmi così male, nobile Wulf, sussurra Pelagia. Non è colpa mia. Potevo solo tradurre le parole del monaco.
Chi ti guarda male, mia regina? ruggisce Amalric. Dimmelo, e per il martello di Thor io lo…
Chi ha parlato con te, stupidone mio? cinguetta Pelagia. Sono io che dovrei essere arrabbiata col mio testone, che capisce male, confonde le parole e le cose, pasticcione! Dovrei fare come ho sempre minacciato, e scapparmene col nobile Wulf… se non stai buono. E… non vedi che tutti i tuoi uomini stanno aspettando un tuo discorso?
Amalric si piazza al centro della barca, la sua statura cresce e si innalza come una quercia.
Voi qui, Wulf figlio di Ovida e Smid l’armiere, e voi guerrieri! Se vogliamo ricchezze, non le troveremo tra le dune di sabbia. Se vogliamo donne, tra diavoli e draghi non potremo trovarne di più belle di queste qua. Wulf, non arrabbiarti! Non avrai mica intenzione di sposarti con una di quelle donne con la testa di cane di cui ha parlato il monaco, vero? Bene, allora qua noi abbiamo donne e denari. E se vogliamo divertirci, uccidere uomini è meglio che uccidere animali. E allora dobbiamo cercare un luogo pieno di questa selvaggina a due gambe, e non lo troveremo di sicuro risalendo il fiume. E quanto alla gloria e a tutto il resto, sebbene ne abbia abbastanza, ce n’è ancora un sacco da conquistare qua e là lungo le coste del Mediterraneo. Alessandria… la bruceremo e la saccheggeremo. In due giorni quaranta goti come noi possono ammazzare tutti quei cavalcatori di somari. E impiccare quel bugiardo prefetto che ci ha mandato a vagare verso il nulla come dei pazzi… Non dire nulla, Wulf. Io lo sapevo che ci stava prendendo in giro, ma voi tutti ascoltavate le sue panzane a bocca aperta, e sono stato costretto a far decidere gli anziani. Ora torniamo indietro, mandiamo messaggeri al nostro popolo, e ai Vandali. Allestiamo un esercito e prendiamo Costantinopoli. Diventerò Augusto, e Pelagia sarà la mia Augusta. Tu Wulf e tu Smid sarete i due Cesari. E questo monaco qui, lo faremo il capo degli eunuchi. Va bene? Sono disposto a fare tutto quello che volete, ma non a risalire questo fiume di acqua calda, che sia maledetto! Miei eroi! Chiedetelo alle vostre donne, e io lo chiederò alla mia. Le donne, tutte, sono profetesse. Ognuna di loro lo è.
Quando non sono puttane, mormora tra sé Wulf.
Con te, mio re, io andrò fino alla fine del mondo, sospira Pelagia. Ma ad Alessandria staremo meglio. Qui ci sono solo afa e bestiacce.
Il vecchio Wulf prende la parola: Ascoltatemi, tu Amalric, Amalo figlio di Odino, e voi tutti, eroi! Quando i miei padri giurarono di essere uomini di Odino, e affidarono il regno ai sacri Amali, i figli degli Aesir, qual era il patto tra i mie padri e i vostri? Non era quello di andare verso mezzogiorno, sempre verso mezzogiorno, finché non sarebbero giunti ad Asgard, la città dove dimora Odino, per offrirgli il dominio di tutte le nazioni della terra? E non abbiamo mantenuto la nostra sacra promessa? Non siamo rimasti fedeli agli Amali? Non abbiamo lasciato Atawulf proprio perché non volevamo seguire un Balto, mentre c’era un Amalo cui obbedire? Non siamo stati sempre leali a te, figlio degli Aesir?
Nessuno mai ha visto Wulf, il figlio di Ovida, tradire un amico o un nemico, risponde Amalric.
Allora perché il suo amico deve tradire lui? Perché il suo amico deve tradire se stesso? Se il capo del branco di bisonti se ne sta sdraiato a crogiolarsi, cosa faranno gli altri senza una guida? Se il capobranco dei lupi perde la traccia, come la seguiranno gli altri? Se l’Yngling dimentica la canzone di Asgard, chi la canterà agli eroi?
Cantala tu, se vuoi. Per me, Pelagia canta più che bene.
E Pelagia inizia a cantare. Una canzone dolce e ammaliante, a bassa voce:
Ammaina la vela, smetti di remare,
guarda il mare da lungi scintillare!
La vita è breve, rapida a finire,
vieni finché puoi con me a dormire!
Puoi rispondere a questo, Wulf? gridano molte voci.
Ascoltate il canto di Asgard, goti guerrieri! Non l’amava anche Alaric il re? Non la cantai davanti a lui nel palazzo dei Cesari, finché lui non giurò, con tutto che fosse cristiano, di andare verso sud in cerca della sacra città? E quando lui salì al Valhalla, e le navi affondarono vicino alla Sicilia, e Atawulf il Balto si volse sui suoi passi come un cane impigrito, e sposò la figlia dei Romani, odiata da Odino, e di nuovo andò verso nord, in Gallia… allora io in Messina non vi cantai forse l’intera canzone di Asgard? Finché voi giuraste di seguire l’Amalo attraverso acqua e fuoco finché non sareste giunti alla sala di Odino e ricevuto la coppa di idromele dalle sue stesse mani. Ascoltatela ancora, goti guerrieri!
No! Quella canzone no! ruggisce Amalric. Ci farebbe tornare la folle sete di sangue, proprio mentre stiamo ritornando in noi stessi e riscoprendo ciò che rende la nostra vita degna di essere vissuta.
Ascoltiamo la canzone di Asgard! Ad Asgard, lupi dei Goti! grida un altro. E si leva una babele di voci.
Questi ultimi sette anni non abbiamo fatto altro che marciare e combattere!
Abbiamo versato tanto sangue da soddisfare Odino, anche troppo!
Vogliamo riposarci ancora un po’!
Il nobile Wulf è come dice il suo nome: ha le gambe di un lupo in inverno. Ma noi abbiamo gambe umane che si stancano!
Non avete sentito quel che dice il monaco? Non riusciremo mai a superare quelle Cateratte!
Quelle favole da vecchie rimbambite dalla sua bocca non usciranno più, e non decideranno quello che dobbiamo fare noi! dice Smid, e prende in mano un coltellaccio e si lancia su Filemone. Lo afferra alla gola con una mano. Vuole ucciderlo.
Filemone ha appena combattuto con un animale, e ora per la prima volta nella sua vita è assalito da un uomo. Non pensa a nulla, il suo corpo combatte. Afferra il braccio sollevato, il polso della mano che lo strozza. Si scatena in una lotta feroce. Uno strano piacere lo invade.
Le donne strillano, pregano i loro uomini di separare i due, ma invano. Lottano, si colpiscono, rotolano avvinghiati per terra. Filemone è più forte, sta per strappare il coltello dalla mano di Smid. Sente un’onda in lui, una sete di sangue… Ma improvvisamente il monaco interrompe la lotta. Con una potente spinta allontana Smid, e si siede immobile. Tutti sono stupefatti. Lui trema per quell’orrenda cosa che ha sentito in sé.
I goti sono fulminati. Erano sicuri che il giovane avrebbe spaccato il cranio del loro compagno, a buon diritto, e come uomini d’onore loro non glielo avrebbero impedito. Si sarebbero consolati della perdita scorticandolo vivo o con qualche altro rituale di sangue per l’anima del morto. Per placarla.
Smid si rialza, brandendo il coltello, e si guarda intorno quasi a capire cosa vogliano da lui. Alza la sua arma per colpire. Filemone rimane seduto e lo guarda in faccia. L’occhio del vecchio guerriero vede la riva: si sta allontanando velocemente. Vede che stanno scendendo lungo la corrente. Depone il coltello, e va a sedersi al timone. Di nuovo tutti sono stupefatti.
Uno dice: Un buon combattimento! Ma neanche un po’ di sangue. Che vergogna! Sangue dobbiamo vedere! Ed è meglio che sia il tuo, sporco monaco! E si scaglia contro Filemone.
Il cuore di tutto l’equipaggio si ritrova in quelle parole. La lotta tra Filemone e Smid ha ridestato i lupi. Vogliono il sangue. E non nella frenesia insensata dei Celti e degli Egiziani, ma con la fredda crudeltà germanica che talvolta abita i guerrieri quando non sono invasati nella furia selvaggia. Si alzano tutti a deliberare di che morte il monaco debba morire.
Il monaco non reagisce. Stordito, alienato da sé, come se si stesse compiendo per lui un destino imprevisto ma ineluttabile. La laura è sprofondata di colpo in un passato che è nulla. Filemone si sente gettato in un nuovo mondo di pensieri e azioni. Nuovi compagni. Gli può accadere qualsiasi cosa, anche di morire. Lui che ha promesso di non levare mai il suo sguardo su una donna, ora si trova in mezzo a donne, e donne di un’infima specie. La cosa peggiore che gli è capitata è questa, rischia di perdere la sua anima. Il resto non conta, lui è partito per conoscere il mondo, e il mondo è questo. Violenza. Per quel che sta in lui, deve continuare il suo cammino. Se questi non lo fermeranno qui. E in pochi istanti potrebbero fermarlo, e in un modo orribile.
Ma Pelagia grida: ‘Amalric! Amalric! Fermali! Non posso tollerare una cosa del genere!
Mia dolcezza, le risponde l’Amalo, i guerrieri sono uomini liberi, e sanno quello che fanno. E a te cosa può importare della vita di questo animale?
Ma prima che possa fermarla, Pelagia salta su dai cuscini e si getta in mezzo al cerchio dei goti, lupi intorno alla preda. Risparmialo! Risparmialo per amor mio! grida.
Oh, mia dolce signora, non devi interrompere lo svago dei guerrieri!
In un istante, Pelagia si toglie lo scialle e copre Filemone. E sta accanto a lui. E le sue membra bellissime si rivelano attraverso il lino trasparente. Minaccia: Guai all’uomo che lo tocca sotto il mio scialle!
I goti si ritraggono. La cortigiana di Alessandria si è tramutata in una dèa germanica dagli occhi lampeggianti. I goti parlano tra loro, a voce bassa.
Il destino di Filemone è incerto. Pelagia avverte sulla sua spalla una mano pesante, si gira e vede Wulf il figlio di Ovida. Torna ai tuoi cuscini, donna graziosa! Uomini, io chiedo il ragazzo per me. Smid, concedimelo. Lui è tuo. Se tu avessi voluto, lo avresti ucciso, e invece non lo hai fatto. Nessun altro può farlo!
Dallo a noi, nobile Wulf! Non vediamo un po’ di sangue da tanti giorni!
Se aveste avuto il coraggio di proseguire, di sangue ne avreste visto a fiumi. Il ragazzo è mio, è un ragazzo coraggioso. Oggi ha tenuto testa a un guerriero, e avrebbe anche potuto ucciderlo. Ma lo ha risparmiato. E noi lo ricompenseremo facendone un guerriero. E fa alzare in piedi Filemone.
Ora sei un mio uomo, gli dice Wulf. Ti piace combattere?
Filemone non capisce le parole, istintivamente scuote la testa.
I goti strepitano: Fa cenno di no! Non gli piace! È un vigliacco! Facciamolo fuori!
Io ho ucciso re quando voi andavate a caccia di rane, tuona Smid. Ascoltatemi, figli miei! Un codardo all’inizio combatte con forza, ma ben presto il suo braccio diviene flaccido, perché il suo sangue fa presto a scaldarsi ma anche a raffreddarsi. Ma un uomo coraggioso nel corso della lotta diventa sempre più forte, perché lo spirito di Odino è sopra di lui. Ho sentito le mani del ragazzo mentre lottava, e vi dico che sarà un uomo, un guerriero ne farò. Ma possiamo renderlo utile subito. Dategli un remo!
Bene, dice Wulf, il suo nuovo protettore. Può ben remare come remava nella sua barchetta. Forza ne ha. E se dobbiamo tornare per morire una morte indegna e finire nell’oscuro mondo di Hela, prima ci andiamo e meglio sarà.
Tutti i rematori tornano ai loro remi. Al giovane monaco ne viene assegnato uno. E lui rema con forza tale che gli stessi che volevano torturarlo e ucciderlo ora gli fanno i complimenti, e qualcuno gli batte la mano sulla spalla. Le donne cinguettano. Pelagia e Amalric si fanno le fusa. Wulf a poppa scruta pensoso l’immenso fiume, mormorando: Walhalla, Walhalla, Walhalla…