Pan

Avevo letto, di Knut Hamsun, solo Fame, nel 1979 nell’edizione Adelphi – me l’aveva regalato una ragazza, ahi giovinezza tempo delle occasioni perdute – e non mi era piaciuto affatto. Il personaggio protagonista, anzi unico agonista, l’avevo trovato insopportabile, addirittura disumano. Solitamente, quando un autore mi dispiace al primo incontro non lo frequento più, e così è accaduto con Hamsun, nonostante le pagine di Claudio Magris su di lui mi avessero tentato, tempo addietro.  Poi, qualche anno fa, mi sono imbattuto nel bel libro di Per Olov Enquist Processo a Hamsun (sottotitolo Un racconto per film, si tratta della sceneggiatura scritta da Enquist per il film Hamsun di Jean Troell presentato a Venezia nel 1996 – Iperborea, Milano 1996) e mi sono trovato di fronte ad un ritratto bellissimo di questo vecchio scrittore processato per tradimento della sua patria, la Norvegia, e collaborazionismo con l’invasore nazista. Un libro, quello di Enquist, mosso da una pietà umana controllata ma proprio per questo persuasiva e affascinante, nei confronti di un uomo il cui unico titolo per meritarla è la vecchiezza, il suo stare ancora fisicamente vigoroso sul limite della vita. Ora nel giro di tre giorni, avendo ancora in bocca il sapore delle pagine di Enquist, ho letto Pan (1894, trad.it. F. Ferrari, Adelphi, Milano 2001), La regina di Saba (1897, trad.it. G. Paterniti, Iperborea, Milano 1999) e Per i sentieri dove cresce l’erba (1948, trad.it. M.V. D’Avino, Fazi Editore, Roma 1997). Pan, Fame, e Per i sentieri dove cresce l’erba sono considerati capolavori di Hamsun. Se una narrazione, per essere ancora viva, non si deve limitare ad essere testimonianza di una cultura, a fornire ad es. informazioni su modi di intendere vita e letteratura in certi ambienti nordico-germanici di fine Ottocento, ma deve comunicare al lettore una vita di entità fittizie – i personaggi – che ci appaia nella lettura vivissima e interessante, allora devo dire che i libri di Hamsun mi lasciano freddino. Prendiamo Pan: Thomas Glahn, voce narrante del diario che costituisce il corpus del libro e suo protagonista, è l’instabile vagabondo hamsuniano di tutti i libri di Hamsun: sradicato, senza misura, estraneo alla civiltà borghese e anarcoide, incapace di amare una donna, incapace di amare veramente anche la natura – non scherziamo, spara a tutti gli uccelli, anche ad un’aquila, non è nemmeno un vero cacciatore ( e questo mi fa davvero arrabbiare), uccide il suo fedele cane da caccia e ne manda il cadavere alla ragazza cui lo ha promesso in dono (vivo). Una bestia, un imbecille che se non morisse prematuramente ammazzato da un rivale sarebbe già pronto per diventare da vecchio un accolito dei nazisti, come – non c’è da sorprendersi a posteriori leggendone i libri – divenne a suo tempo il suo povero creatore.

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