Ipazia, scena XVIII

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Filemone non fa in tempo a dire di no: un boato scoppia all’interno, folla si precipita fuori, i messi del prefetto corrono dentro.
È falso! È falso! urlano molti. È una calunnia dei giudei! L’uomo è innocente!
Un grasso macellaio sembra pronto ad abbattere un uomo o un bue, indifferentemente. Grida: Lui è sempre il primo ad acclamare i discorsi del nostro santo patriarca!
Cara, dolce anima, mormora una donna. Io proprio questa mattina gli ho detto: Perché non usi la verga coi miei figlioli, maestro Ierace? Come ti puoi aspettare che imparino qualcosa, se non li bastoni? E lui mi ha risposto che non può nemmeno sostenere la vista di una verga, perché si ricorda le bastonate che ha preso da bambino, una tortura.
Sembra proprio una profezia del suo destino, dice qualcuno.
E prova che è innocente. Perché come potrebbe profetizzare se non fosse uno dei santi di Dio?
Un eremita dall’aspetto selvaggio, barba e capelli sulle spalle e sul petto tuona: Monaci, dobbiamo salvarlo! Ierace è un Cristiano, e lo hanno preso e torturato nel teatro. Nitria! Nitria! Per Dio e per la Madre di Dio, monaci di Nitria! Morte ai giudei assassini! Morte ai tiranni pagani! E la folla sembra gonfiarsi per magia, scorre sotto l’immensa volta, trascina con sé Filemone e il facchino.
Soffocato dalla folla, l’omino tenta di mostrare una calma filosofica e chiede: Amici miei, perché questo tumulto?
I giudei hanno sparso la voce che Ierace volesse suscitare disordini. Maledetti loro e il loro Sabato! Ogni settimana sono loro a creare un caos intorno a questa loro danzatrice, invece di lavorare come fanno i cristiani.
I quali invece, riesce a ribattere l’omino, le sommosse le attuano nelle loro Domeniche… Uhm… differenze settarie, che il filosofo… Non fa a tempo a finire la frase che uno spasmo della massa lo fa cadere a terra e sparire tra innumerevoli gambe.
L’idea di una persecuzione in atto rende furioso Filemone, contagiato dalla folla urlante intorno a lui. Si fa spazio con la forza, fende la massa, fino all’avanguardia, bloccata da un’alta cancellata di ferro, insuperabile. Da lì si può vedere tutta la tragedia che si sta svolgendo all’interno. Legato al patibolo, quello sventurato innocente si contorce e urla ad ogni colpo della frusta di cuoio. Filemone e i monaci intorno a lui spingono la cancellata, la colpiscono in tutti i modi, invano. Dall’interno, i messi del prefetto sghignazzano e li deridono. Maledicono la plebaglia turbolenta di Alessandria, insieme col suo patriarca, col clero, i santi, le chiese. Promettono che per ognuno di loro monaci arriverà ben presto quella stessa punizione. Intanto le urla del suppliziato diventano sempre più deboli, infine il suo corpo devastato ha una violenta convulsione e rimane immobile.
Lo hanno ucciso! È un martire! Andiamo dall’arcivescovo! Lui ci vendicherà! Di bocca in bocca passa la notizia del martirio, e la parola d’ordine “Dall’arcivescovo!”. Come un solo uomo la folla si volge, come un fiume scorre di strada in strada verso la casa di Cirillo. Filemone è pieno di orrore, di rabbia, di pietà, è fuori di sé, e corre con quel fiume. Un’ora tumultuosa passa, anche più, strade larghe e stretti passaggi oscuri, e si ritrova in uno spazio di grandi edifici, e vicino è il Serapeo in rovina con le sue quattrocento colonne. Tra le grandi pietre sta già crescendo alta l’erba. Anche le maestose colonne un giorno cadranno, e della gloria degli antichi non resterà nulla.

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