Ipazia, scena XV

91eZc+mnoCL._SL1500_Lungo la corrente del Nilo scende Filemone coi suoi nuovi compagni, i goti. Una dopo l’altra, lungo le rive, appaiono antichissime città, ora ridotte a villaggi. Anche i campi sembrano aver perso la fertilità, oppressi dallo sfruttamento romano e dal malgoverno. È sera quando imboccano il grande canale di Alessandria. Scivolano tutta la notte tra le ombre stellate del lago Mareotide, e all’alba si trovano tra le innumerevoli alberature e i rumorosi moli del più grande porto del mondo.

Questo per il giovane monaco è il primo volto del mondo. Folla variopinta di stranieri, frastuono di lingue diverse, dalla Spagna alla Crimea, immense pile di mercanzia, mucchi di grano, massicce sagome di navi granarie dalle alte murate. Vedendo queste cose, e molte altre, Filemone pensa che il mondo a prima vista non sembra meritare solo disprezzo, come gli avevano insegnato i fratelli del deserto. Gruppi di schiavi neri davanti a mucchi di frutta. Ridono e chiacchierano sul molo, in attesa di ordini. Loro certo non pensano che essere stati tolti alla fatica nei campi per questa vita nella città sia stato un cambiamento in peggio… Filemone distoglie lo sguardo da questa vanità. Ma ovunque lo posa, lo sguardo accoglie una nuova vanità. Si sente oppresso dalla moltitudine di cose nuove, stordito dal chiasso. Fatica a concentrarsi abbastanza per cogliere la prima occasione di fuga. Ma lo sforzo gli riesce, e approfittando della folla e della confusione tenta di allontanarsi dalla pericolosa compagnia.

Ehi là! ruggisce Smid l’armiere, inseguendolo. Non te ne stai mica andando via senza un saluto?

Fermati qua con me, ragazzo! dice il vecchio Wulf. Io ti ho salvato, e tu sei un mio uomo.

Filemone si gira. Esita. Io sono un monaco, dice, un uomo di Dio.

Puoi esserlo ovunque. Io farò di te un guerriero.

Filemone pensa che in Alessandria gli serviranno molte più armi spirituali di quelle che gli bastavano nel deserto. Le armi della mia guerra, risponde al goto, non hanno a che fare con la carne e il sangue: sono la preghiera e il digiuno. Lasciami andare! Io non sono fatto per il vostro genere di vita. Ti ringrazio e ti benedico, signore. Pregherò per te. Ma lasciami libero!

Ruggisce uno dei goti: Dannato cane vigliacco! Principe Wulf, perché non hai lasciato che lo sistemassimo a modo nostro? Dovevi aspettartela una gratitudine del genere da un vile monaco!

Devo finire di divertirmi con lui, dice Smid. E scaglia un’ascia mirando alla testa di Filemone. Ma il giovane ha riflessi fulminei e la schiva, e l’ascia sbatte contro un muro di granito.

Bella schivata, dice freddo Wulf. Marinai e donne del mercato si mettono a gridare. Accorrono funzionari, agenti e guardie del porto. Ma l’Amalo dalla poppa della nave tuona: Non preoccupatevi, ragazzi! Noi siamo solo un gruppetto di goti, e stiamo anche andando a rendere visita al prefetto

Siamo solo goti, cari amici cavalcatori di somari, gli fa eco Smid. A quel nome temibile tutti cercano di apparire tranquilli, e si ricordano di avere pressanti impegni altrove.

Lasciatelo andare, dice Wulf, lasciate che il ragazzo se ne vada. Io non ho mai riposto totale fiducia in un uomo, mormora a se stesso, ma questo mi ha davvero deluso. E da lui non devo aspettarmi null’altro. Andiamo, gente, andiamo a sbronzarci!

Ora che potrebbe andarsene, ovviamente, Filemone desidererebbe restare. In ogni caso, sente l’obbligo di tornare indietro a ringraziare i suoi ospiti. Torna veloce, e trova Pelagia col suo gigantesco innamorato. Stanno salendo su una portantina. Filemone si avvicina con gli occhi bassi alla bellissima donna occhi di basilisco, e riesce a dire qualche parola convenzionale di saluto. Lei subito gli rivolge un ammaliante sorriso. E gli dice: Prima di andartene, dicci qualcos’altro di te. Tu parli un greco così bello, che sembra ateniese puro. È così piacevole udire di nuovo il proprio accento… Sei mai stato ad Atene?

Da bambino… ricordo qualcosa…

Cosa ricordi? chiede Pelagia, evidente ansia.

Una grande casa in Atene. E una grande battaglia. Un caos. E di essere venuto in Egitto su una nave.

O Cielo! esclama Pelagia, e dopo una pausa: Che strano. Ragazze, chi ha detto che lui mi assomiglia?

Non volevamo offendere nessuno, se l’abbiamo detto era per scherzo, sussurra una delle ancelle.

Mi assomiglia! Tu devi venire da noi. Io ho qualcosa da dirti… Devi assolutamente venire da noi!

Il tono della donna rivela un fortissimo interesse, e Filemone lo fraintende. Non si ritrae, ma fa un gesto involontario di riluttanza. Pelagia ride. Non essere così vanitoso da immaginarti chi sa cosa, ragazzino, ma vieni da noi! Pensi forse che io sappia parlare solo di argomenti frivoli? Io abito… e nomina una strada alla moda. Filemone in cuor suo fa voto di non accettare l’invito, ma non può evitare di prender nota di quel nome.

Lascia quel pazzo, vieni via, ringhia l’Amalo dalla portantina. Non starai mica pensando di farti monaca?

Certo che no, almeno finché nel mondo ci sarai tu, l’unico vero uomo che io abbia mai incontrato, risponde Pelagia salendo agilmente sulla portantina. Mostrando maliziosamente una bellissima gamba, una freccia per Filemone, come fanno coi loro archi i Parti in ritirata. Ma Filemone non vede, è già stato travolto da una folla indaffarata e allegra, tra cesti, casse e gabbie di uccelli. Vuole solo andarsene, in mezzo a quella Babele, e trovare la strada verso la casa del patriarca. Deve chiedere a qualcuno.

Un pensiero su “Ipazia, scena XV

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...