Il cuore dell’uomo

Il cuore dell'uomo

Ultimo di questa trilogia islandese, Il cuore dell’uomo ( 2011, trad. it. di Silvia Cosimini, Iperborea 2014) segue Paradiso e inferno e La tristezza degli angeli. Jón Kalman Stefánsson porta qui a compimento l’educazione sentimentale e la formazione generale del suo protagonista, il ragazzo innominato, in una Islanda di fine Ottocento che si presta al ruolo di metafora della precarietà della condizione umana. Il giovane attraversa una serie di iniziazioni, nello schema simbolico morte-rinascita, ripreso a vari livelli – compreso quello amoroso – e con diversa approssimazione alla morte vera e definitiva. Testo fortemente unitario, pur se frazionato in tre parti, questa trilogia della precarietà e della resistenza in faccia al nulla è tramata dalla voce del gruppo dei morti, che narrano. Ma se narrano non sono nel nulla, sono nello spazio dell’ombra in cui ancora sono. E la loro preoccupazione principale è quella della condizione di morto, in cui la morte scaglia il vivente, nei modi più diversi, e alle età più diverse: vecchi e bambini e uomini e donne maturi possono tutti scendere nello Sheol. Poiché «la morte calpesta i nostri desideri, le nostre preghiere, la nostra disperazione e le nostre forze, lo fa quando le pare e piace» (p. 418), ponendo la questione seria della dignità dell’umano. Di fronte al destino di un vecchio marinaio che ha perso la vista e il gusto della vita fino a scegliere di sprofondare in mare ci si può chiedere: «dov’è adesso la dignità, allora non esiste proprio, né in vita né in morte?» (p.425) Inevitabilmente, Stefánsson qui sfiora il nichilismo, nella constatazione amarissima che «alla fine diventiamo solo silenzio». (p. 429) Ma il finale dialettico e aperto, che realizza un’intensificazione e una concentrazione assolute del tema della solidarietà fra gli umani che percorre l’intera trilogia, non vede nell’annichilimento la parola decisiva, «perché dove comincia la vita e si ferma la morte, se non in un bacio?» (p. 445)

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