Alessandria. Una piccola stanza sotto il tetto di un alto edificio, stile ateniese, vicino al Museo. Non è per la tranquillità che è stata scelta da chi vi abita. È vero che il baccano delle schiave che lavorano, chiacchierano e litigano nel cortile delle donne vi giunge attutito, ma ben si odono le voci dei passanti e lo sferragliare dei carri dalla strada affollata, e i versi degli animali dal Serraglio, là oltre la strada. No, la stanza è stata scelta per la vista che dona. Oltre il muro dei giardini del Museo si offrono agli occhi fiori, fontane, statue, cespugli, viali. Settecento anni di filosofi e poeti alessandrini. Qui c’è la celebre Biblioteca, dove sono raccolti secoli di pensiero e di bellezza.
La stanza è arredata con elegante semplicità. Una donna seduta sta leggendo un manoscritto. Semplice eleganza anche nel suo vestito. Espressione pensosa e triste. Solleva lo sguardo e contempla i giardini del Museo. E mormora a se stessa: Sì, le statue vengono distrutte. Le biblioteche vengono saccheggiate. Nessuno più discute di filosofia e di scienza. Gli oracoli sono muti. E tuttavia… L’antica fede degli eroi e dei sapienti è morta? Ma no! La bellezza non può mai morire. Mai. Se il divino ha abbandonato le forme della religione antica, non ha abbandonato le anime di quelli che apirano al divino. Gli Dei non guidano più l’Impero… ma la Divinità non ha smesso di parlare alle anime elette. Si è allontanata dalla massa del popolo. Ignoranza e superstizione dappertutto… Io la Divinità la sento ovunque, la sento in me. La Divinità non ha abbandonato Ipazia. Io sono legata al mondo passato. Ma per me non è passato! Gli dèi sono simboli, i miti sono cifre della sapienza. Tutti se ne sono allontanati. Resto io sola… quasi sola. Credere a dispetto di ogni delusione… Sperare contro ogni speranza. Mostrarsi superiore alla massa dei mortali, vedendo profondi abissi di gloria vivente in quei miti che ai loro occhi sono diventati oscuri. Anzi, morti. Non vedono più nulla, sono ciechi. Questa epoca in cui tutto va in rovina produce nuova superstizione. Credenze vili, una umanità sordida avanza. E io sono chiamata a combattere contro tutto questo. Per gli antichi dèi, gli antichi eroi, per la filosofia che li ha interpretati scoprendone il senso razionale, mentre sondava i misteri della terra e del cielo. Luce di conoscenza! Per questa lotta riceverò un ricompensa… Salire attraverso i cieli, dove sono le anime immortali, le Potenze, attraverso gli Eoni, fino alla casa eterna, fino allo splendore del Senza Nome, fino all’assoluto Uno…
Tace. Estasi.
Ma sotto il muro dei giardini c’è una vecchia, curva, ebrea dal vestito. Guarda verso la sua stanza, sguardo che sembra maligno.
Vecchia megera, mi perseguita. Cosa vorrà da me? La vedo dappertutto. Devo chiedere al prefetto di indagare, di liberarmi di lei e del suo malocchio. Grazie agli Dei, se ne va. Che scema, io, una filosofa, crederei al malocchio e alla magia? L’oscurità di questo tempo mi contamina?
Si sentono dei passi, la porta della stanza si apre: un anziano, mantello da filosofo: il padre di Ipazia. Si mette a camminare su e giù, inseguendo un pensiero. Ce l’ho! No, mi sfugge ancora. Si autocontraddice. Pitagora… Tu, Ipazia, eri arrivata vicino alla soluzione, ma… Intelletto debole che sono!
Papà, siediti a mangiare qualcosa. Oggi non hai ancora messo in bocca nulla.
Ma che m’importa del cibo, esclama Teone. Bisogna assolutamente comprendere questa realtà incomprensibile, costi quel che costi: come può essere che lui, il Sole, la cui sfera perfettamente circolare si trova al di là delle stelle, si avvicini alla Terra?
Magari potessimo imitare in tutto gli immortali, e vivere senza cibo, dice Ipazia. Ma finché siamo imprigionati nella materia dobbiamo tenerci le nostre catene. E anche portarle con grazia, se ci è dato. Ci siamo sempre detti che le basse necessità di questo corpo di vergogna che abbiamo possono assurgere a simboli del cibo divino della ragione. Di là c’è una zuppa di lenticchie, c’è frutta, e anche pane, se non lo disprezzi troppo.
Il cibo degli schiavi, risponde il padre. Be’, mangerò vergognandomi di mangiare, come sempre. Ma lo sai? Questa mattina alla scuola di matematica si sono presentati sei nuovi allievi. La scuola sta crescendo! Si sta espandendo! Possiamo ancora vincere la nostra battaglia…
Ipazia sospira. Come puoi essere sicuro che non facciano con te come Crizia e Alcibiade con Socrate, che non vengano da te al puro scopo di apprendere virtù politiche, abilità da spendere nei loro affari mondani? Che strano… Che degli uomini si accontentino di strisciare sulla terra, quando potrebbero salire al rango di dèi! Ah, papà mio, questa è la mia amarezza. Vedere quelli che la mattina nell’aula sembrano venerare ogni mia parola come se fosse quella di un oracolo… vederli nel pomeriggio intorno alla lettiga di Pelagia, la cortigiana. E poi di notte, lo so che lo fanno, giocano ai dadi, si ubriacano, e peggio. Come se ogni giorno Pallade Atena venisse sconfitta da Afrodite Pandemia. Come se Pelagia valesse più di me. Non che un essere come lei possa turbarmi. La mia serenità non deve essere oscurata da nessun essere di questo mondo. Ma se io potessi abbassarmi ad odiare… sì, quella la odierei. La odierei davvero.
Un giovane schiavo affannato si affaccia alla porta: Signora, c’è il prefetto! Sta salendo le scale…
Stupidello! Risponde Ipazia volendo mostrarsi indifferente. E perché mai il suo arrivo dovrebbe preoccuparmi? Fallo entrare.
E il prefetto Oreste entra, con lui l’olezzo di diversi profumi. Uomo di aspetto delicato, vestito splendidamente secondo il suo rango, carico di gioielli. E dice: Il rappresentante dei Cesari è onorato di sacrificare all’altare di Atena Poliade, ed esulta nel vedere che la sua sacerdotessa appare sempre più simile alla dea che serve… In verità, ogni volta che mi trovo sotto l’influsso dei tuoi occhi non posso far a meno di parlare un linguaggio puramente pagano.
Grande è la potenza della verità, dice Ipazia, alzandosi ad accoglierlo con un sorriso.
Eh, dicono così… Ma il tuo illustre genitore è sparito. Non credo che sia incapace di trattare segreti di stato, come lui dice. Troppo modesto. O forse è vero… ma in ogni caso io sono venuto qui per consultare te, la tua sapienza, illuminata da Atena. Dimmi come si è comportata questa città, questo covo di fanatici, durante la mia assenza.
Il gregge ha continuato a fare quello che fa sempre: mangiare, bere, sposarsi, inseguire i piaceri… credo, risponde la donna mestamente.
E certamente ha continuato a moltiplicarsi, dice il prefetto con un sogghigno. Alla prossima sommossa ne condannerò a morte una o due dozzine. Un gran conforto per l’uomo di stato sapere che le masse sono consapevoli di meritare l’impiccagione, e che così sono trattenute dallo spolpare la provincia. Trattenute in parte, diciamo… Ma la tua scuola come va?
Ipazia scuote la testa, amarezza sul volto.
Eh, i ragazzi saranno sempre ragazzi, dice Oreste… Mi sento colpevole anch’io: «Video meliora proboque, deteriora sequor». Non devi essere troppo dura con noi… Anche se non seguiamo i tuoi precetti nella vita privata, lo facciamo in pubblico. E se noi ti abbiamo posta sul trono di regina di Alessandria, tu devi concedere qualche piccola licenza a noi, tuoi cortigiani e guardie del corpo. Non ti angustiare di questo, ne soffrirei troppo. In ogni caso, la tua peggiore rivale ha abbandonato il campo, è partita verso le terre selvagge, per andare a vedere la città degli dèi, lassù, oltre le cateratte del Nilo.
Di chi stai parlando? Chiede Ipazia, improvvisamente tesa.
Di Pelagia. L’ho incontrata a metà strada tra qui e Tebe. La più graziosa e pericolosa delle donne… trasformata in una perfetta e casta Andromaca.
Trasformata per chi? Dimmi.
Per un goto, un gigante. Questi barbari! Che uomini poderosi, ti sembra che potrebbero schiacciarti come una noce. E io ho passato un po’ di tempo in sua compagnia.
Interessante, mormora Ipazia. Il prefetto che conversa con un barbaro selvaggio. Anche loro sono umani…
A dirti il vero, dice Oreste, quel goto si muoveva in compagnia di quaranta guerrieri. Avrebbero potuto causare dei problemi. E poi bisogna sempre mantenersi in buoni rapporti con questi barbari. Dopo il sacco di Roma, dopo quello che è accaduto ad Atene… Come vespe che saccheggiano un alveare. La situazione diventa sempre più seria. E per quel che riguarda quel grosso animale, era di rango abbastanza alto. Si vanta di discendere da qualche divinità antropofaga, roba del genere. E lui dal canto suo si è degnato di parlare ad un insignificante governatore romano. Sai perché? Perché la sua innamoratissima e fedelissima compagna ha interceduto per me. Del resto, quel tipo sa godersi la vita, e il nostro trattato di amicizia lo abbiamo celebrato con libagioni. Cose trascurabili, in fondo. Me ne sono liberato dandogli qualche indicazione geografica per i loro vagabondaggi… Così ora la stella di Venere è tramontata, e quella di Pallade è alta nel cielo. Quindi dimmi: come dovrei comportarmi con quel santo sobillatore del popolo?
Intendi Cirillo?
Cirillo, sì.
Con giustizia, dice Ipazia.
Giustizia, giustizia, uhm. Tu, alta sapienza, faresti bene a non pronunciare questa parola terribile al di fuori dell’aula dove insegni. I discorsi teorici possono essere perfetti e convincenti, senza smagliature, nitidi come il sole. Bene. Ma poi c’è la giustizia pratica, mondana, e chi governa deve accontentarsi di fare il possibile. Ora, in una visione astratta della giustizia, io dovrei far impiccare Cirillo, con tutti i suoi diaconi e i suoi fanatici, una bella fila di impiccati sul ciglio della strada. Sarebbe semplice. Ma in questo mondo, che non è semplice, questo atto di giustizia radicale è impossibile. Impossibile come tante altre cose semplici ed eccelse.
Hai timore del popolo?
Signora, il demagogo di Alessandria non ha tutta la plebaglia dalla sua parte? Dovrei causare io una ripresa qui dei tumulti che hanno insanguinato Costantinopoli? Davvero, non sarei in grado di fronteggiarli. Non ho la forza, i nervi… Forse sono indolente, troppo… E sia: ognuno è come è, e ha il suo fato.
Ipazia sospira. Tu, prefetto, hai una parte decisiva nel grande duello che si sta svolgendo. E non illuderti che lo scontro sia solo tra pagani e cristiani…
Perché, la interrompe il prefetto, io come cristiano al servizio di un imperatore cristiano, per non menzionare la sua augusta sorella…
Comprendiamo, lo interrompe a sua volta Ipazia, con un gesto della mano. Ma in sostanza la lotta non è tra cristianesimo e paganesimo. Non è nemmeno tra filosofia e barbarie. No, lo scontro è tra ricchezza, raffinatezza, arte, cultura, tutto quello che fa la grandezza delle nazioni, e la mandria ignobile di quelli che sono capaci solo di fare figli, nati per essere schiavi e lavorare per i pochi che sono nobili. Tra chi nasce per essere libero e chi nasce per essere schiavo. L’Impero romano dovrà obbedire ai suoi schiavi o dominarli? Tu, prefetto, e il vescovo Cirillo da questa domanda siete chiamati a combattervi. E la lotta sarà fratricida.
Non mi meraviglierei se lo diventasse, davvero, risponde il prefetto accarezzandosi il collo. Ogni volta che esco a cavallo mi aspetto che una pietra scagliata da qualche monaco impazzito mi sfracelli il cranio.
Ipazia si accalora. E perché non dovrebbe accadere in quest’epoca in cui, come è stato detto chiaramente molte volte, imperatori e senatori di rango consolare si prostrano sulle tombe di un tessitore di tende e di un pescatore, e baciano le ossa ammuffite degli schiavi più vili? Perché no, tra gente il cui dio è il figlio crocifisso di un falegname? Ti proteggerà forse la tua cultura superiore? Ti proteggeranno l’autorità, l’antichità, la nascita, il rango? Ti proteggerà il sistema dell’Impero, cresciuto nei secoli, fondato sulla sapienza? Ti proteggerà la filosofia, nel momento in cui si scatenerà la furia bestiale di un qualsiasi straccione che pensa che il figlio del suo dio è morto per lui tanto quanto per te Ti proteggerà qualcosa dalla bestialità di chi pensa di essere uguale a te, anzi superiore, forse, agli occhi del suo dio meschino e illetterato?
Mia eloquentissima filosofa, quello che dici sarà anche tutto vero. Nella nuova religione ci sono degli aspetti un po’ problematici… lo riconosco. Ma il mondo è pieno di difetti, di difficoltà… Un uomo saggio in questa nostra epoca non può esentarsi dal professare un credo, e se questo ha degli aspetti disdicevoli… non se la prenderà con quel credo più di quanto se la prenda con l’alluce se gli fa male. Non può farci niente, e deve cercare di ottenere il massimo di bene da una situazione che in sé non è buona. Io sono cristiano perché ho ricevuto il battesimo, ma… Da te vorrei una cosa sola: insegnami come mantenere la pace.
E lasciare che la filosofia sia annientata? Dice Ipazia, fredda.
Questo non accadrà mai, finché Ipazia vivrà… a illuminare la terra. E per quel che dipende da me io ti prometto di favorirti in ogni modo, e di renderti ancor più visibile al mondo. Te l’ho appena dimostrato, con questa visita pubblica. Sono venuto da te, sotto gli occhi di Alessandria, prima di dare udienza al primo dei quattrocento cittadini che l’hanno richiesta, e che adesso saranno lì ad aspettarmi, ansiosi di tormentarmi con le loro noiose querele. Aiutami, dunque! Dammi il tuo consiglio. Che cosa devo fare?
Te l’ho detto.
Eh, sì. I principi generali, sì. Ma al di fuori della sala conferenze io preferisco i consigli pratici. Per esempio, Cirillo, peste lo colga, non mi lascia andare a caccia per una settimana in santa pace, Cirillo mi scrive che c’è un complotto degli ebrei per uccidere tutti i cristiani.
Srotola il piccolo papiro e lo porge a Ipazia. Ecco la lettera, leggila per favore. Per quanto ne so io, potrebbe essere vero il contrario, che siano i cristiani a voler sterminare gli ebrei. Ma io non sono nella condizione di poter semplicemente stracciare questa lettera.
Non vedo perché tu non possa farlo, dice Ipazia mentre termina di leggerla. E solleva la testa guardandolo negli occhi.
Perché, risponde il prefetto, se infine accadesse qualcosa, ti immagini le missive che sarebbero inviate a Costantinopoli? Tutte contro di me.
Lascia che partano. Se tu sei intimamente sicuro, nella consapevolezza di essere innocente, nessuna accusa ti turberà.
Consapevolezza di essere innocente? Non sono Socrate, sono Oreste. Perderò la prefettura.
Correrai un pericolo altrettanto grave se prenderai sul serio la lettera. Qualunque cosa accadrà, sarai accusato di favorire gli ebrei.
In quest’accusa potrebbe esserci qualcosa di vero, dice Oreste. Non oso pensare che risorse avrebbero le province senza il loro gentile contributo. Se i cristiani mi volessero prestare i loro denari, invece che impiegarli nella costruzione di ospedali e ricoveri per i miserabili, allora per me potrebbero bruciare il quartiere degli ebrei anche domani. Ma per come stanno le cose…
Per come stanno le cose, il prefetto non deve prendere in considerazione questa lettera. Lo vieta il tono in cui è scritta. Ne va dell’onore del prefetto, che è l’onore dell’impero. Tu tratterai con un uomo che parla della plebe di Alessandria chiamandola «il gregge che il Re dei re ha affidato al mio governo e alla mia cura»? Chi governa la città, il prefetto o un vescovo sedizioso?
In verità, signora, ho smesso di chiedermelo, mormora Oreste.
Ma lui no. Lui si pone di fronte a te come uno che esercita un’autorità assoluta su due terzi della popolazione. E lascia chiaramente intendere che questa autorità gli deriva da una fonte più alta di quella da cui tu attingi la tua. La conseguenza è evidente. Se la sua fonte è più alta della tua, ovviamente controlla la tua, e lui ha il diritto di controllare te, e tu dipenderai da lui.
Ma io devo dire qualcosa, o verrò lapidato per strada. Voi filosofi, sebbene siate cittadini del mondo dello spirito, tanto più alto del nostro, non dovreste dimenticare che noi, poveri abitatori del mondo materiale, abbiamo ossa che possono essere frantumate.
Allora rispondigli, faccia a faccia, che dato che l’informativa che ti manda è privata e non lo riguarda come vescovo, ma riguarda te come magistrato, la potrai prendere in considerazione quando te la manderà presso il tribunale, come privato, secondo il diritto romano.
Un’idea geniale! Sei anche la regina della diplomazia, non solo della filosofia. Farò come tu dici. Come vorrei che fossi tu a fianco dell’imperatore, al posto di Pulcheria! Ma allora Alessandria sarebbe nel buio…
Ricordati che sei un cristiano, dice Ipazia sorridendo.
Il prefetto Oreste si congeda cerimoniosamente e se ne va, e attraversa la sala esterna, già affollata. Sono gli allievi aristocratici di Ipazia, in attesa della filosofa.
Mentre sale sul cocchio, il prefetto pensa a come replicare a Cirillo. Sogghigna. Gli viene in mente l’unico passo della Scrittura che lo abbia pienamente convinto: «A ogni giorno basta il suo affanno». E si chiede se è sincero quando si professa cristiano.
