Questi sono i nomi

WierQuesto è il primo romanzo da me letto in cui un aspetto fondamentale della storia sia direttamente ispirato alla teoria girardiana dell’origine del sacro, ovvero alla divinizzazione della vittima successiva al suo linciaggio. In Questi sono i nomi (De Bezige Bij, 2012, trad. it. di C. Cozzi e C. Di Palermo, Iperborea 2014) Tommy Wieringa costruisce un intreccio di due storie, una collettiva ed una personale, che alla fine si intrecciano e generano qualcosa di nuovo. La storia collettiva—e corale—è quella di un gruppo di profughi che cercano di raggiungere una terra promessa, un qualche paese sviluppato, e si ritrovano sperduti nella steppa, in un deserto privo di qualsiasi traccia di umani, i cui unici segni sono ruderi abbandonati, e procedono in una marcia disperata per giorni e giorni, perdendo gradualmente ogni traccia di ciò che generalmente si attribuisce all’uomo civile, e infine semplicemente all’essere umano. La seconda storia, individuale, è quella di Pontus Beg, capo della polizia nella città di Michailopoli, dove trionfa la corruzione successiva al crollo dell’URSS, dalla quale lui stesso è almeno in parte contaminato. Romanzo robusto e sottile sulla sottile linea che divide l’umano dal disumano, Questi sono i nomi (dei figli di Israele, il riferimento alla Bibbia è chiarissimo) è anche un romanzo duro, che a tratti evoca il McCarthy de La strada. Infine il personale di Beg e il collettivo dei profughi troverà una unicità di significato nel religioso: ma in modo estremamente problematico. Beg scopre gradualmente la propria identità: che sua madre era ebrea, e quindi lo è anche lui. E c’è un parallelismo tra la marcia nella steppa di quei profughi e i giorni nel deserto dei figli di Israele. Anche i profughi trovano una guida, cui attribuiscono un potere salvifico, ma questa guida è la testa, staccata dal busto e portata in una borsa, di uno dei profughi, un africano, diverso per colore della pelle e cultura, cui gli altri membri del gruppo attribuiscono poteri malefici, e che perciò linciano, realizzando con questo una unità perfetta tra loro, che si tramuta in gratitudine per la vittima, che appare dunque rivestita dei caratteri del sacro. Che è duplice, e ambivalente, come insegna Girard. Ed è evidente che qui si tratta di un idolo, costruito da mani umane mediante l’atto più semplice: una uccisione. Non si tratta qui però di una malaccorta e superficiale traduzione narrativa di una teoria: Wieringa  sviluppa una narrazione magistrale, condotta con un linguaggio secco ed efficacissimo, dimostrando davvero un grande talento.

Il cuore dell’uomo

Il cuore dell'uomo

Ultimo di questa trilogia islandese, Il cuore dell’uomo ( 2011, trad. it. di Silvia Cosimini, Iperborea 2014) segue Paradiso e inferno e La tristezza degli angeli. Jón Kalman Stefánsson porta qui a compimento l’educazione sentimentale e la formazione generale del suo protagonista, il ragazzo innominato, in una Islanda di fine Ottocento che si presta al ruolo di metafora della precarietà della condizione umana. Il giovane attraversa una serie di iniziazioni, nello schema simbolico morte-rinascita, ripreso a vari livelli – compreso quello amoroso – e con diversa approssimazione alla morte vera e definitiva. Testo fortemente unitario, pur se frazionato in tre parti, questa trilogia della precarietà e della resistenza in faccia al nulla è tramata dalla voce del gruppo dei morti, che narrano. Ma se narrano non sono nel nulla, sono nello spazio dell’ombra in cui ancora sono. E la loro preoccupazione principale è quella della condizione di morto, in cui la morte scaglia il vivente, nei modi più diversi, e alle età più diverse: vecchi e bambini e uomini e donne maturi possono tutti scendere nello Sheol. Poiché «la morte calpesta i nostri desideri, le nostre preghiere, la nostra disperazione e le nostre forze, lo fa quando le pare e piace» (p. 418), ponendo la questione seria della dignità dell’umano. Di fronte al destino di un vecchio marinaio che ha perso la vista e il gusto della vita fino a scegliere di sprofondare in mare ci si può chiedere: «dov’è adesso la dignità, allora non esiste proprio, né in vita né in morte?» (p.425) Inevitabilmente, Stefánsson qui sfiora il nichilismo, nella constatazione amarissima che «alla fine diventiamo solo silenzio». (p. 429) Ma il finale dialettico e aperto, che realizza un’intensificazione e una concentrazione assolute del tema della solidarietà fra gli umani che percorre l’intera trilogia, non vede nell’annichilimento la parola decisiva, «perché dove comincia la vita e si ferma la morte, se non in un bacio?» (p. 445)

Luce d’estate ed è subito notte

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Dice già tutto Luce d’estate ed è subito notte, il titolo di questo romanzo di Jón Kalman Stefánsson (2005, tradotto dalla brava e instancabile Silvia Cosimini per Iperborea, 2013). Dice che la vita è una breve luce, cui segue subito la notte, echeggiando Catullo e Quasimodo. Lo dice nei modi di un leggiadro nichilismo nordeuropeo postmillenniale, dipingendo la vita di un paesetto di quattrocento anime, che fornisce un’umanità variegata ed esemplare, sospesa tra la concretezza della vita quotidiana e il sogno di altre vite, di altre possibilità. Il capitolo-racconto finale, Che senso avrebbe il mondo senza di lei, è una bellissima storia di uno strano amore, che percepiamo destinato ad una realizzazione positiva e alla felicità, su cui nelle ultime righe incide il caso, con un imprevedibile accidente mortale. Storia bellissima, magistralmente narrata, che nel lettore crea una imprevista voragine. Il senso della vita si gioca tutto nella soggettività di una relazione o di una passione erotica o intellettuale, il resto è buio, secondo Stefánsson.

Il viaggio di Lewi

Un romanzo di grande valore è Il viaggio di Lewi di Per Olov Enquist (Lewis resa, 2001, tra. it. di K. De Marco, Iperborea 2004). Si tratta di un romanzo storico-documentario, in cui ai protagonisti principali, Lewi Pethrus e Sven Lidman, le due colonne del movimento pentecostale svedese, si affianca un personaggio decisivo ma inventato, Efraim, al cui Lebenslauf, il manoscritto in cui la coscienza del fedele affida la sua vita, lo scrittore attinge per la sua sapientissima narrazione.
Il viaggio di Lewi  è un’opera poderosa, di 561 pagine, che richiede lettori colti e dallo spirito sensibile. Enquist dimostra una straordinaria capacità di penetrazione in un mondo che evidentemente non è il suo, quello di un movimento di risveglio protestante anticonformista e basato su di una lettura che potremmo definire fondamentalista dei Vangeli e della Bibbia. L’intento dello scrittore è conoscitivo: egli vuole comprendere i motivi profondi che hanno portato alla trasformazione della Svezia tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. Si tratta di una trasformazione di proporzioni abissali: quello che era uno dei paesi più poveri diviene uno dei più ricchi e più equilibrati nella spartizione delle risorse, il modello del welfare nordico, in cui le differenze sociali sono attenuate al massimo. Come è stato possibile questo cambiamento? Pochi lo sanno. Secondo Enquist è stato reso possibile dalla confluenza tra radici cristiane e socialismo. E all’interno del Cristianesimo svedese i movimenti di risveglio cristiano che si sono succeduti, in conflitto con la Chiesa di Stato luterana, hanno svolto un ruolo determinante.Il romanzo è anche la storia di un’amicizia tra due personalità diversissime, Lewi e Lidman, che sfocia in un conflitto insanabile. Ed è anche una finestra su alcuni aspetti del Cristianesimo che non riguardano solo l’ambito luterano. Ad esempio la questione femminile. Nel Movimento le donne sono l’ottanta per cento, ma tutti i posti di governo sono degli uomini, come nella Chiesa cattolica. E le donne sono la chiave del movimento stesso. Sono in genere donne povere, sfruttate o reiette, che trovano compensazione delle sofferenze e senso della vita in un abbandono totale al Cristo. E sono donne cui si impongono un modo di vestire castigatissimo, la rinuncia a trucco e gioielli, i capelli portati nella crocchia pentecostale. Repressione della sensualità femminile come nella Chiesa delle origini.Il problema di conciliare la signoria di Dio sulla storia umana con la marea di sofferenze e di mali che vi domina è stata per lo più risolta dalla tradizione ebraico-cristiana nei termini dell’affermazione di un’azione punitiva di Dio contro gli umani tragressori della legge morale. Così anche nel pentecostalismo di Lewi.

Un popolo, aveva detto, e in quello stesso anno avrebbe ampliato il suo discorso programmatico nel libro Oggi gioco – domani lacrime, un popolo che evita il lavoro sano e appagante per gettarsi tra le braccia di piaceri e divertimenti non è degno di vivere e andrà incontro a un’inevitabile distruzione. La generazione odierna è scesa tanto in basso che anche il matrimonio viene considerato un mezzo per ottenere piaceri e divertimenti e viene brutalmente utilizzato a questo scopo. Di recente il maresciallo Pétain – dopo la sconfitta militare della Francia – ha tenuto una delle più autorevoli prediche di Risveglio dell’Europa dell’ultimo secolo. Ha parlato della sete di piacere. Dei contraccettivi. Del crimine rappresentato dalla decadenza morale; del minare la morale di un popolo, e con ciò la sua capacità di sopravvivenza. Questo non è il tempo dei giochi, della spensieratezza, dei piaceri e dei divertimenti. È il tempo della responsabilità, dello spirito di sacrificio, della disposizione all’obbedienza. Un cristiano non va a teatro o al cinema, non va a ballare, non vive una vita dissoluta. La gente chiede: come mai il mondo è afflitto da questa guerra sanguinosa, in cui vengono spazzati via milioni di persone? E io rispondo: è un salasso necessario perché il mondo non venga completamente infettato. Quando il marciume minaccia di prendere il sopravvento, simili catastrofi si abbattono sul mondo. E’ un deflusso che riporta l’equilibrio, una purificazione che allontana la rovina totale della specie. Dio fa quello che fa ogni agricoltore accorto: ripulisce i suoi campi dalla gramigna. Fa pulizia. (pp. 484 – 485)

Non è difficile vedere in queste parole l’eterno ritorno della proiezione del risentimento umano nella figura di un Dio punitore e massacratore. A Dio si fa fare ciò che noi, nel nostro intimo cuore, vorremmo fare: sterminare chi in qualche modo ci si contrappone. Espellere, purificare.L’altro volto di questo Cristianesimo entusiastico e apocalittico, il volto che Enquist sente vicino, è rappresentato dal pietoso Efraim, che si preoccupa delle vittime e degli umiliati e sconfitti.

… a volte Efraim, che scriveva di queste vittime e si interessava a loro, pensava di vedere il movimento come un grande corteo di persone che cantano, felici, salvate ed estatiche, in marcia lungo la riva del mare verso una luce lontana, guidato dai propri capi, che erano forti, carismatici e di successo, e non si lasciavano distruggere. Ma sperava che di tanto in tanto le persone del corteo sentissero il rumore fioco, quasi impercettibile, delle conchiglie che schiacciavano sotto i loro piedi, il rumore quasi inaudibile di chi veniva calpestato, e che allora pensassero alla condizione dei calpestati. Non per giudicarli, o per stabilire se quelli che calpestavano avessero torto o ragione, ma semplicemente perché erano stati esseri umani, no, perché erano ancora esseri umani. E perché Gesù Cristo era amore, ed era questo il senso del corteo; la marcia gioiosa lungo la riva verso la luce, che dopo tutto era l’amore, l’amore e íl perdono di Dio, e questo valeva sia per i felici che per i calpestati, sì, anche per loro, per quelli che erano stati distrutti ed erano scomparsi dalla storia e sopravvivevano solo come un debole, quasi impercettibile scricchiolio sotto i piedi di chi marciava. (p. 364)

Ritratti e un vecchio sogno

C’è qualcosa di inquietante nel romanzo di Kader Abdolah Ritratti e un vecchio sogno (Portretten en een oude droom, 2003, trad. it. di E. Svaluto Moreolo, Iperborea 2007). Anzi, le cose che mi inquietano sono due. Anzitutto la solita modernistica e postmodernistica difficoltà imposta al lettore: i personaggi non sono in alcun modo presentati, ma fiondati in rapida successione in un bailamme di note che li rendono difficilmente distinguibili l’uno dall’altro: un gruppo di Iraniani uomini e donne che si ritrovano nel Sudafrica post-apartheid, in un viaggio che vorrebbe essere un intreccio di esili e di convivenze difficili; e bianchi e neri sudafricani, col problema della salvezza della cultura afrikaans, eccetera. Un progetto ambiziosissimo di uno scrittore persiano-olandese. Troppa carne al fuoco, a mio giudizio. Ma quel che inquieta maggiormente è il fatto che nel gruppo dei viaggiatori alcuni siano morti. Sono proprio dei morti, che normalmente stanno al cimitero. E non si capisce come siano in viaggio, e si comportino in tutto e per tutto come dei vivi, e non sapremmo che sono morti se non ce lo dicesse il narratore. Ora, è vero che siamo nell’era del crollo delle differenze, ma sappiamo che una loro cancellazione assoluta è del tutto impossibile, pena la caduta del senso stesso della narrazione. E la differenza fondamentale, che è alla radice stessa del narrare, è quella tra i vivi e i morti. È ben vero che nelle storie che gli umani si raccontano i morti possono parlare, e talvolta persino agire, ma sempre come morti, essendo ben chiaro il loro status radicalmente differente. Un morto, ad esempio, può apparire come fantasma passando attraverso le pareti, perché appartiene ad un altro regno. Ma un morto non mangia e non beve. E qui i morti mangiano e bevono e vanno in giro. Caduto questo vero e proprio tabù narrativo, si aprono le porte del caos, e si tende all’insensatezza. È quello che inficia il romanzo di Abdolah, narratore tecnicamente dotato ma qui troppo audace. Si veda questo breve passo esemplare:

Eravamo preoccupati soprattutto per Soraya. Soffriva di dolori allo stomaco. Era dalla notte in cui la guardia l’aveva colpita con un pugno allo stomaco e lei era caduta a terra morta che soffriva di quei dolori. Ogni tanto di notte, quando c’era silenzio al cimitero, la sentivamo singhiozzare dal male. L’ho già spiegato prima, ma voglio dirlo un’altra volta: Soraya è sepolta nello stesso cimitero dove siamo sepolti Malek e io. Per essere precisi, tredici tombe più avanti, in alto a destra rispetto a me. A volte vedo un pezzetto dei suoi piedi, a volte no.

Il canto dell’essere e dell’apparire

 Ne Il canto dell’essere e dell’apparire (Een lied van schjin en wezen, 1981, trad. it. di F. Ferrari, Iperborea, Milano 1991, 5ª ed. 2000) Cees Nooteboom svolge il tema del rapporto tra la scrittura narrativa e la realtà che vi è rappresentata (che spesso si chiama vita, e sono due termini vaghi, sovrapposti, definire i quali è ardua impresa). Metaletteratura, ma aggraziata direi, e lieve, e breve nella misura delle novanta pagine. La storia è doppia: v’è da un lato una coppia di scrittori, senza nome, uno dei quali concepisce una storia ambientata un secolo prima in un paese a lui del tutto sconosciuto, la Bulgaria, e destinata a concludersi a Roma.
Perché in Bulgaria, perché un secolo prima? Lo scrittore non sa spiegarselo, i personaggi gli sono inspiegabilmente apparsi, e sembrano vivere una vita indipendente, e nello stesso tempo sono senza dubbio sue creature. Sono due militari bulgari, un colonnello e un medico, e la moglie di questi, pazza e affascinante. La storia sembra essere quella di un banale triangolo ottocentesco. Eppure, al di là dei giochi di scrittura e delle sottigliezze para-filosofiche (la realtà del mondo dei personaggi narrati appare più reale di quella del mondo dello scrittore), il testo mi sembra comunicare la verità più profonda di ogni rappresentazione (né credo che Nooteboom ne sia del tutto consapevole): il fatto che ogni rappresentazione contiene sempre, anche se non sempre evidenti, due fattori: il desiderio e la rivalità. Infatti qui si intrecciano due rapporti rivalitari, quello posto nel passato della rappresentazione, tra il colonnello e il dottore, e quello nel presente, tra lo scrittore che pensa la storia dei bulgari e lo scrittore numero due, un disincantato autore commerciale di successo che vende grandi quantità di libri, sicuro che nessuno li ricorderà. Nel triangolo amoroso il medico desidera la moglie del dottore, che a sua volta ha bisogno del desiderio del colonnello per desiderare sua moglie, e anche per gustare le bellezze di Roma, che gli debbono essere mediate dalla presenza di un individuo più rozzo, da istruire, a cui aprire gli occhi, con cui istituire un rapporto maestro-allievo, che è sempre un rapporto di rivalità. E vi è triangolo anche nel caso degli scrittori, perché essi sono in relazione al pubblico dei lettori, e in conflitto per il successo. Infatti, è quando il secondo scrittore telefona al primo per proporgli un premio letterario che il primo getta nel fuoco i fogli in cui aveva scritto il racconto (il movente della rinuncia alla storia, del gesto sacrificale è chiaramente il rapporto mimetico con l’altro speculare).
Riflettendo su questo libro sottile (in tutti i sensi) mi è venuto in mente un passo di un saggio di John Brenkman Sull’innovazione. Romanzo, modernità, nichilismo, contenuto nel III volume della grande opera Einaudi sul romanzo: «Spesso i romanzieri affrontano l’angoscia e la saggezza dell’incertezza con strumenti più duttili e versatili dei filosofi. Il dibattito filosofico sul postmoderno è stato ossessionato dal desiderio di abbracciare pericoli e doni della modernità con un solo sguardo concettuale. Ma l’epoca moderna ha prodotto l’Illuminismo, la democrazia e la responsabilità collettiva verso il futuro, e anche il razzismo, la schiavitù, il colonialismo e l’Olocausto. La tentazione di attribuire tutte le catastrofi moderne all’antimodernità è meno sconsiderata ma non più persuasiva della visione che ne fa la conseguenza inevitabile dell’Illuminismo. Entrambe le posizioni cercano un’ancora filosofica per un mondo privo di essenza costitutiva, come se il baratro non fosse senza fondo, e come se la politica e l’arte non fossero, tra tutte le pratiche umane, le più ricche di doni e pericoli». (p. 63)