Il prigioniero

LermontovNon è un romanzo, e nemmeno una biografia romanzata quella di Michail Lermontov, scritta da Roberto Michilli ne Il prigioniero (Edizioni Galaad 2015). È un’attenta ricostruzione della vita di un grande poeta russo morto in duello nel 1841 a soli 26 anni, animata e sospinta da un lungo amore, da una fortissima passione, che diventa quella che potremmo definire una narrazione documentata, nella quale anche il lettore non particolarmente portato allo studio dei documenti, e ignaro della lingua russa, può essere afferrato dalla forza degli eventi e delle situazioni, per come vengono narrate. Insieme a Quaranta poesie, Il prigioniero forma una sorta di dittico, i due libri sono complementari. E quest’ultimo libro di Michilli appare per più versi un’impresa titanica (sono in tutto 797 pagine), nella quale sono inseriti molti brani di corrispondenza, di diari, ecc., che disegnano un grande quadro della società russa tra gli anni Venti e gli anni Quaranta dell’Ottocento, delle sue tensioni e dei personaggi che la animano. Si tratta di una società bloccata, in cui i grandi spiriti come Lermontov non hanno letteralmente aria da respirare, in cui ogni novità è sospetta e vivere da uomini liberi è impossibile, in cui un anticonformista diventa inevitabilmente un prigioniero, anche se non è in carcere. Nel caso di Lermontov, anzitutto un prigioniero di sé stesso, della insanabile frattura interiore tra l’odio per la vita dell’aristocrazia russa e l’impossibilità di concepire una propria vita al di fuori di quella stessa aristocrazia.
Naturalmente, molti sono i brani poetici che scandiscono i tempi del testo, seguendo lo svolgersi della vita di Lermontov. E molti sono i nessi intertestuali, i rimandi ad altri poeti della letteratura russa ed europea. Sono stato colpito dagli otto versi che Gavríla Románovič Deržàvin scrisse pochi giorni prima di morire, nel 1816, su una lastra di ardesia:

Il fiume dei tempi nel suo scorrere
porta via tutte le umane cure
e annega nell’abisso dell’oblio
popoli potentati e sovrani.
E se pure qualcosa resta
grazie ai suoni della lira e della tromba,
sarà divorato dal cratere dell’eternità
e non fuggirà il comune destino.
(p. 634)

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