Atlante con figure

atlanteconfigure-325x487Ho letto questo libro nei giorni in cui veniva svuotato di tutto l’appartamento in cui mio padre visse mezzo secolo, dal 1960 alla sua morte nel 2010, e io dal 1960 al 1978. L’ho letto quindi con una mirabile coincidenza di spirito ed emozione. Sono nato nel 1950, Roberto Michilli è nato nel 1949, dunque abbiamo in comune un’infanzia negli anni Cinquanta. Io a Venezia, lui a Campli (Teramo), due luoghi diversissimi: e tuttavia le nostre sono due infanzie che presentano molte affinità, molti elementi di vicinanza, molti di più rispetto a quelli di lontananza ed estraneità. Questo è stato il mio primo pensiero mentre leggevo le prime pagine di Atlante con figure (Galaad Edizioni 2016), un libro straordinariamente suggestivo, in cui Michilli attraverso una serie di quadri e quadretti, di descrizioni e racconti, di evocazioni e nominazioni, ci offre la sua infanzia e la sua prima giovinezza. Le biografie mi sono sempre piaciute, anche se so benissimo quanto possano essere ingannevoli, anzitutto per chi le scrive, e anzitutto per la loro inevitabile tendenza apologetica. Qui però non siamo davanti ad una biografia tradizionale, e lo scrittore (e poeta) non dimostra il minimo interesse alla difesa-esaltazione del sé: Michilli è spinto a scrivere dei suoi anni di bambino e ragazzo da un insopprimibile bisogno di salvare, nell’unico modo possibile, un mondo che lo scorrere del tempo, e le immani modificazioni socio-culturali che si sono succedute in brevi decenni con un ritmo sempre più incalzante, hanno stravolto e demolito. Quel mondo perduto rimane nella memoria di chi lo ha vissuto, vive ancora una sua vita crepuscolare nella sua memoria, e come realtà vivente sparirà con lui. E qua e là in Atlante con figure Michilli ci fa capire che, insieme a quel mondo, è tramontata anche la sua felicità.
Nella sua bella prefazione, intitolata Lo sgomento e l’eternità: ritratto dello scrittore da bambino, Tiziano Scarpa mette in luce alcuni elementi fondamentali per una piena comprensione del libro. E tuttavia, se concordo con lui nella sottolineatura della rilevanza e del ruolo dell’imperfetto, tempo verbale cardine di questo mondo di Michilli, non userei la parola sgomento. Certo, il cuore ti si stringe nel rivedere l’interno della casa in cui sei stato bambino, dove non entri da mezzo secolo, o nel rivedere donne che un tempo furono bellissime ragazze, ti si stringe, ma io non lo chiamerei sgomento, ma piuttosto una forma più acuta di malinconia. E il potere di questo libro è quello di riportare il lettore alla sua stessa infanzia, al di là di ogni differenza, e io credo che valga anche per il lettore che non abbia vissuto come me i suoi primi anni di vita nei lontani Cinquanta. Perché, se mi fosse chiesto se vi sia e quale sia l’argomento di questo libro, al di là del livello biografico, io risponderei che sì, posso vedere un tema di fondo, un tema decisivo: quel che rende una vita felice. Sembra che difficilmente una vita felice possa scaturire da un’infanzia infelice: ma cosa ti rende felice l’infanzia? Michilli ci fa capire che i due elementi primi della costruzione di un’infanzia felice, che non sono nella disponibilità del soggetto ma gli sono dati o negati, sono l’affetto dei genitori, la loro cura premurosa, e il senso di sicurezza e protezione che ne deriva, e poi l’appartenenza ad un gruppo di amici, di coetanei con cui vivere giochi e avventure. Ritengo probabile che questi due elementi, a dispetto della maggior povertà economica di quei tempi, fossero molto più diffusi in quei lontani anni Cinquanta.
C’è qui, infine, in questo libro spoglio di retorica e lontano dal sentimentalismo, una vibrante poetica delle piccole cose. Anche un oggetto minimo e  insignificante si può caricare di una straordinaria potenza evocativa e consolatrice. Come  il gattino di latta bianco e marrone, che dal profondo dell’infanzia ritorna ad essere un compagno, per dare tranquillità e sonno alle difficili notti dello scrittore.

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