Un romanzo pieno di energia vitale, e perciò di violenza, questo di Chigozie Obioma, I pescatori (The Fishermen, 2015, trad. it. di B. Masini, Bompiani 2016). Storia di una famiglia che vive ad Akure, in Nigeria, una famiglia di etnia Igbo in una città a maggioranza Yoruba, che chiude in sé i ricordi della terribile guerra di secessione del Biafra (dimenticata dal mondo, in tutti i sensi). È una famiglia benestante, per gli standard africani: padre bancario, madre piccola commerciante, con sei figli. Ikenna e Boja i due maggiori, poi gli intermedi Obembe e Ben (la voce narrante), infine i piccoli David e Nkem. Una famiglia che potrebbe essere felice, che coltiva grandi sogni per i figli, sulla quale si abbatterà quella che è sempre, nella realtà e nei racconti, la maggior sventura: l’odio insanabile e micidiale tra i due figli più grandi. Avviene che la maledizione da parte di un povero malato di mente, Abulu, un folle che vive emarginato e temuto, un uomo-non-uomo, e per questo agito da potenze sacre e terribili, scateni una serie di reazioni e contro-reazioni nefaste, anzitutto a livello psichico, in Ikenna e Boja. I due fratelli finiscono per odiarsi, fino alla distruzione di entrambi, con una successiva inesorabile catena di eventi: Obembe trascina il fratello Ben nella vendetta, il folle che ha fatto morire i due fratelli con la sua maledizione dovrà essere ucciso. La storia è narrata con una non comune potenza espressiva, il sacro, lo straniante e il fatale sono scanditi entro una fisicità sempre carnalmente presente, in tutti i suoi aspetti, anche i più repellenti. L’equilibrio con cui questo avviene mostra in Obioma un narratore di razza. Dal mio particolare punto di vista, emergono qui due elementi fondamentali: la contiguità tra il sacro e la violenza, da un lato, e dall’altro la realtà dell’ odio per quel che si conosce. Come tutte le guerre civili, le più feroci, quella del Biafra è stata tra popoli che si conoscevano benissimo. Gli infiniti esempi di odii fraterni nel mito, nelle leggende e nelle storie di ogni genere non bastano a far uscire i miopi spiriti contemporanei dalla banalità, ripetuta all’infinito, del si odia quel che non si conosce. Ogni grande scrittore ha sempre dimostrato la verità che non si vuol comprendere.
