Benedetto XVI si è trovato stretto nella contraddizione tra la necessità di difendere la credenza tradizionale, soprattutto tra le masse popolari, e il doveroso rigetto di una religione ridotta a mitologia, cui è ignota l’esperienza dello spirito. (p.14)
In realtà, della scomparsa dello spirito è responsabile soprattutto la Chiesa, che ha imboccato la strada di una fede come credenza esteriore, storica, sociale, scartando quella dell’interiorità, del distacco, del vuoto, senza la quale non vi è spirito. (p.30)
Si è fatto di Gesù un Dio per inserirlo in un mito cosmico di caduta e di redenzione, quando il suo messaggio è stato preso in senso messianico, ovvero relativo all’instaurazione di un regno di Dio nella storia, alla salvezza di un popolo o di singole persone, una salvezza intesa come conservazione di vita. Così si è finiti nella superstizione, perché la cosiddetta « storia della salvezza» è una mera invenzione, dato che il vangelo insegna solo il distacco, il regno di Dio dentro di noi, la pace del cuore e quella vita assolutamente nuova che è la vita dello spirito. (p.80)
…si deve parlare della Divinità di Cristo, non in quanto uomo storicamente determinato nel tempo e nello spazio, ma in quanto Logos, in quanto spirito. Allora la «divinità» di Cristo vale identicamente per ogni uomo, e l’incarnazione del Logos, l’umanità di Dio, significa appunto la divinità dell’uomo: la natura umana viene riconosciuta divina, e assurda la distinzione naturale-soprannaturale, creata per difendere la gestione di quel preteso «soprannaturale», che sta in effetti a disposizione nostra, in quanto lo conosciamo e gestiamo solo noi – puro strumento di potere. (pp. 80-81)
Il vero Cristo, infatti, è lo spirito, presente in tutti gli uomini buoni e giusti, di ogni tempo e di ogni religione, o anche senza religione. (p.83)
«Salvezza» non significa affatto una qualche prosecuzione di questa esistenza fisica in un tempo senza fine, bensì il trovarsi in patria, in pace, nella luce, qui e ora – nel presente, che è l’unico tempo vero. (pp. 89-90)
La fine del giudicare, la fine del pensiero malvagio del male, è di per se stessa la fine del dualismo biblico e di ogni religione nel senso usuale del termine: questo è l’insegnamento di Cristo. (p.141)
Appare chiaro come, al contrario, il giudizio, il pensiero del male, sia nutrito dalla Bibbia ebraica, non tanto per le pagine di violenza che contiene, quanto perché costruita tutta sull’ego e quindi sul principio del male che lo segue come un’ombra. Essa ha sparso l’incomprensione, l’odio ovunque è arrivata, e così anche i cristiani hanno spesso dimenticato l’insegnamento evangelico e sono rimasti vittima del pensiero del male – dunque dell’irrazionalità. (p.145)
La domanda di Giobbe – perché Dio manda i mali? – ha perciò senso solo in un contesto idolatrico come quello biblico, dove Dio è l’Altro che serve all’uomo-altro, entrembi connotati necessariamente nell’ordine della potenza. Di fronte a questo Altro Potente, e solo di fronte ad esso, ha senso chiedersi perché mi «manda» questo o quello – e in questo «mandare» è già tutta contenuta la risposta. Ma perché si deve pensare che qualcuno «mandi»? (p. 146)
La Bibbia ebraica non è il canale attraverso cui arriva la verità, ma la matrice prima di quella finzione che chiude la porta alla verità. (p.150)
Gesù dice: «In verità, prima che Abramo fosse, io sono. Questo ego sum, al presente, indipendentemente da ogni passato e futuro, non si riferisce a una egoità determinata, ma a quell’universale, impersonale Io che compare proprio quando l’egoità determinata scompare: quando si è, evangelicamente, rinunciato a se stessi, abbandonando il proprio volere, l’«io» e il «mio». (p.155)
Così l’apocalittica si mostra frutto del desiderio di vendetta; la resurrezione dai morti frutto dell’avidità per la vita terrena e, comunque, più in generale, gli aldilà appaiono compensazioni per una vita incompiuta, infelice – cosa comprensibile, assolutamente umana, se non fosse per le menzogne cui conduce. Di fronte alle speranze dell’aldilà, alle attese di Gerusalemmi celesti e simili, giova ricordare il terribile detto evangelico: «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». (pp.156-157)
La vita eterna è qui: non speranza, non attesa, non desiderio. Non si desidera ciò che si sa reale, scriveva giustamente Simone Weil. E perciò non si danno descrizioni di vite eterne diverse dalla nostra vita: la vita eterna non è una vita speciale, con fatti eccezionali, ma la vita quotidiana, presente. Non sono diversi i contenuti, ma diversa è la forma, ovvero lo sguardo con cui guardiamo la vita stessa e i suoi fatti: li guardiamo con distacco, sub specie aeternitatis, in quella sospensione del tempo, in quella estasi del quotidiano, ove tutte le cose, immerse nella luce dell’eterno, sono infinitamente belle, senza perché, come la rosa dei versi silesiani. (p.163)
Orrida appare l’idea della resurrezione dei corpi e di una «vita eterna» con la prosecuzione dello psichismo, e non per disprezzo del corpo o insoddisfazione dello psichico, ma perché questi miti nascono dal timore della morte, ossia da una vita falsa e quindi, come diceva Wittgenstein, cattiva. (p.164)
La teologia cristiana risponde [all’evidente iato tra Nuovo e Antico Testamento] parlando di un unico «piano salvifico» di Dio, che si sviluppa dai profeti biblici fino a Cristo, di una «pedagogia divina» che conduce dalla durezza del messaggio vetero- alla dolcezza di quello neotestamentario. Il cristianesimo ha infatti acquisito l’idea di un «Nuovo Testamento» che succede a una Antica Alleanza, e questa idea è diventata tanto familiare che molti non si rendono conto come essa non sia affatto ovvia, ma, al contrario, sia un parto di una fantasia teologica, sorta in un preciso momento, con scopi altrettanto precisi. (p.173)
Si può perciò dire che la Chiesa di oggi porti in certo modo a compimento il processo iniziato alla sua origine – un processo di costituzione di una religione molto simile a quella ebraica, in cui viene ribadita l’alterità di Dio e così si annulla la novità assoluta del vangelo. (p.177)
Noi siamo soli, con la nostra ragione, di fronte al mistero, e anche di fronte a un Gesù Cristo che onestà vuole non sia piegato dentro teologie-mitologie. Questa consapevolezza emerge chiara dal bellissimo discorso che hai tenuto a Ratisbona il 12 settembre 2006, nel quale hai tessuto l’elogio del Logos, della razionalità. Un discorso che non è stato capito, non è stato recepito dai teologi, dai vescovi, che pure ne erano i principali destinatari, perché in esso hanno intravisto, confusamente ma correttamente, la fine del biblicismo, la fine della religione come superstizione, e con ciò la fine stessa del loro ruolo – anzi, del loro essere.
Credo di comprendere il tuo dramma di studioso e uomo onesto, nell’esserti trovato a capo di una Chiesa che rifiuta il Logos e sempre più vuole fondarsi su miti, come le varie chiese valentiniane, ofite, naassene, carpocraziane ecc., delle quali i più non conoscono nemmeno il nome. Abbandonata, o messa in secondo piano, con una funzione solo strumentale, la razionalità, il cristianesimo è oggi nella stessa condizione di quello che aveva chiamato paganesimo – anzi, si potrebbe dire che pagani, in senso etimologico di abitanti non delle città ma dei villaggi, ovvero, nel nostro caso, delle periferie del mondo, sono i cristiani stessi, sparuta minoranza nelle città dell’Occidente. Costituiscono in effetti una religione che si fonda su miti, più o meno belli, ma sicuramente falsi, proprio come quelli delle divinità olimpie, o di Eracle, o di Odisseo, o di Prometeo. Su questi racconti una teologia che è pura retorica lavora senza fine, e così pasce i fedeli, tenendoli in una sorta di minorità intellettuale, in un mondo artificioso, falso. (pp. 183-184)
L’ha ribloggato su L'arme, gli amori.
Misticismo, quello di Vannini, anticristiano e anticristico.