Ferretto

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È dei primi anni Cinquanta questo ritratto a olio che mio nonno Gino Ghedina dipinse di Ferretto, un frequentatore dell’osteria sopra la quale era l’appartamento in cui vivevamo in quel tempo, a Venezia. Lo ricordo bene, Ferretto, sempre alle soglie dell’ubriachezza, ma un po’ più in qua, sempre benevolo e gentile verso di me e di mio fratello Paolo. Mentre il suo amico, con cui era sempre insieme, e di cui non ricordo il nome, ci faceva paura. Ferretto era piccolo e magro, e il suo amico grande e grosso, un omaccione con una voce profonda e roca. Quando ci vedeva, l’omaccione ci diceva sempre «ve cusìno in farsóra» (vi cucino in padella). Lui intendeva scherzare, ma noi eravamo piuttosto intimiditi. Ai primi di luglio, la mia famiglia partiva per la montagna, due mesi di villeggiatura. Non abbiamo avuto un’auto per tutti gli anni Cinquanta. Mia madre preparava un cestone che veniva spedito in anticipo, e poi si prendeva il treno, la littorina che dondolava molto, procurandomi la nausea, coi sedili ricoperti di un velluto che mi dava molto fastidio al tatto. I bagagli a mano, numerosi e pesanti, ce li portava Ferretto alla stazione di S. Lucia.

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