Se, come pensano i seguaci di René Girard, tutto ciò che è specificamente umano ha origine nel sacrificio, anche la scuola non può non affondare le proprie radici in quella pratica, da cui l’Occidente di oggi pensa di essersi liberato solo perché ne ha distolto lo sguardo (al punto che dai mass-media non sono mai trasmesse le immagini dell’uccisione di animali, neanche dei polli che mangiamo: le trasmissioni televisive che trattano dell’allevamento di galline e maiali saltano in tronco il momento fatale dell’uccisione, su cui Alfred Döblin scrisse alcune pagine mirabili ). Vedere qui.
Trovo conferma dell’idea a pag. 56 de Il sacrificio, di C. Grottanelli (Laterza, Bari 1999, p.56).
Si possono raggiungere dati analoghi … prendendo le mosse da uno scolio a Pindaro secondo il quale al poeta, arrivato nel santuario di Delfi famoso per la voracità dei suoi sacrificatori, fu rivolta la domanda: «Che cosa porti da sacrificare?»: ed egli rispose: «Un peana». In tale testo è interessante sottolineare non tanto la congruenza tra parola poetica e vittima sacrificale, pur evidente nel passo, quanto la corrispondenza profonda fra lo smembramento e la ripartizione sacrificali da un lato, e la poetica e la metrica dall’altro. Se il tema può individuarsi in modo convincente per il mondo greco antico, una verifica comparativa e data dalla nozione indiana del Virāj (il metro poetico di tre piedi di dieci sillabe ciascuno, cui viene attribuita, nei Brahmana, la proprietà di essere e creare nutrimento), e più in generale dalla dottrina secondo cui i metri poetici sono intesi come esseri viventi, animali, vittime sacrificali e quindi alimenti. L’uso di formule di quattro versi, o di quattro piedi, in questi testi indiani può essere messo in relazione con il principio dell’omologia tra il verso e l’essere vivente. Tali formule sono omologate ai quadrupedi, e in particolare ai quadrupedi domestici, esseri sacrificali per eccellenza. Pur non accettando una prospettiva «indoeuropeistica», mi sembra opportuno citare qui 1’interpretazione irlandese, esposta da W. Sayers, dei metri poetici come controparte e misura delle membra e delle componenti del corpo umano. Questa teoria appare a sua volta legata alla lettura delle articolazioni grammaticali del discorso come strettamente affini a quelle del corpo umano da un lato, e del corpo della vittima sacrificale dall’altro.
L’idea di un residuo di sacrificalità come ineludibile componente di ogni processo conoscitivo, di ogni azione didattica, potrebbe qui trovare fondamento.