Mysterium iniquitatis

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Conobbi Sergio Quinzio nel 1985, a Venezia, dove allora vivevo, in occasione di una conferenza nella quale parlò del suo ultimo libro La croce e il nulla. Lo conobbi personalmente, perché dopo la conferenza Quinzio cenò in casa di amici, e ricordo bene la conversazione – cui partecipò Mario Cantilena, che con lo scrittore aveva avuto un rapporto epistolare – per le calli, mentre lo accompagnavamo all’albergo. Mi fece una profonda impressione, quella di una fede cristiana terribilmente urgente, assolutamente drammatica, impossibile. La ritrovo in questo Mysterium iniquitatis (Adelphi, Milano 1995), il suo testamento spirituale, che leggo soltanto ora. Quinzio si professava un semplice credente, diceva di non essere un teologo o un filosofo. Pure, il suo modo di trattare la Scrittura e la Tradizione mostra conoscenza profonda, penetrazione dei problemi. Per lui, il problema è uno solo: il non adempimento della promessa cristiana, il crescente allontanamento del mondo da Dio, della Chiesa dalla sua missione. Questa era ed è anzitutto l’annuncio della resurrezione dei morti, che non c’è stata, che deve essere attesa, ma non può. Tanto che la Chiesa programma un Terzo Millennio, ecc., poiché non avverte affatto come imminente la venuta finale della giustizia di Dio. Essa ha rinunciato ad essere apocalittica, cioè ha fallito, perché cristiano e apocalittico sono una cosa sola. Per Quinzio, una Chiesa che non viva entro un’escatologia conseguente non è veramente cristiana, e se non è veramente cristiana, è anticristica. Alle pagine 76-77 leggiamo:

Tutto spinge ad applicare alla figura di Giacomo quello che Paolo dice dell’anticristo, il quale siede nel tempio di Dio additando se stesso come Dio (“ostendens se tamquam sit Deus”, dice il testo latino con maggiore aderenza all’originale greco). La sua oggettiva apostasia dalla vera fede, e quindi la sua religiosa empietà, consisteva agli occhi di Paolo, come s’è detto, nel fatto di affermare la necessaria continuità dell’ordine sacro. Dopo la venuta del Messia ciò equivaleva a negare il carattere ultimo e decisivo della sua venuta. Il permanere, o il rinnovarsi, dell’ordine sacro sancisce ancora una volta la separazione tra sacro e profano, tra Dio e uomo, in definitiva dunque l’inefficacia salvifica dell’incarnazione e della croce. La cosiddetta “eresia giudaizzante” consisteva in questo, non solo per Paolo ma per l’Apocalisse (cfr. Ap 2, 9).

Ma se la Chiesa ha rinnovato l’ordine sacro costituendosi come ambito del non profano, ed entrando in dialettica anzitutto interna fin dalle origini con l’opposizione tra Paolo (superamento del sacro) e Giacomo (restaurazione del sacro in forma nuova), e poi esterna col Moderno che essa stessa nella sua componente demitizzante ha generato, in che cosa l’apostasia anticristica del Cristianesimo si differenzia dalla caduta sacrificale di cui parla René Girard? In nulla, poiché qualsiasi ordine sacro si fonda sul sacrificio, nasce dal sacrificio e ad esso continuamente ritorna. Il suo rapporto con la violenza è ambivalente. La Chiesa nei suoi duemila anni di storia è ritornata al sacrificale in continuazione, ma anche vi si è opposta, perché Cristo e anticristo sono nel suo seno, in conflitto perenne. L’Occidente moderno ha voluto vedere nella Chiesa il sacro, e non ha visto invece che in essa è anche la critica più profonda del sacro, la sua radicale dissoluzione. Non ha colto l’antinomia che è nella Chiesa stessa, e che prima era nella Bibbia. Così la contemporaneità amorale e anomista dell’Occidente a sua volta pare antisacrale, mentre cova in sé il sacro nelle sue forme più violente, e lo manifesta in tutti i modi. Poiché il sacro è polimorfo, ma produce sempre da un lato culti ed idoli, dall’altra sacrifici e vittime. Il Novecento, secolo dei massacri, ha portato al parossismo la tendenza umana all’iniquità, con un mare di violenze e di sofferenze inaudito. Quinzio, toccato dall’esperienza della sofferenza umana fin nelle midolla, sa che essa supera la misura del male eticamente inteso, e che l’iniquità che si esprime nel Misterium iniquitatis non è razionalizzabile. È appunto un mysterium di cui i preti, dediti all’umano troppo umano, non amano parlare, che i teologi annacquano nell’erudizione. Un mysterium di fronte al quale Quinzio ha cristianamente vissuto.

3 pensieri su “Mysterium iniquitatis

  1. Si tratta di argomenti estremamente affascinanti – almeno fino a che uno rimane in grado distanziarsene a sufficienza. Vorrei però chiederti una cosa: riesci davvero a concepire una dimensione “spirituale” autonoma da quella materiale? Oppure, in altre parole, un’intelligenza “cosciente” che possa prescindere dagli eoni di sanguinosa “ricerca&sviluppo”, per usare i termini di Dennett, che sono stati necessari per costruire questa nostra (povera e transitoria)? Se potesse esistere una coscienza soggettiva fatta soltanto di “spirito”, allora la sua controparte materiale ne costituirebbe un appiccicoso doppione totalmente assurdo (questa mia è chiaramente una considerazione “estetica”). Una volta rimossa questa dimensione, anche la patetica domanda sul “mysterium iniquitatis” sembrerebbe andare a dissolversi, almeno in linea di principio.
    Ciao

  2. Potrei concepire una dimensione dello spirito come radicalmente separato solo seguendo una forma di pensiero astratta e platonica, che per alcuni versi mi piace, ma non è la mia. E, in effetti, i dualismi di tipo gnostico fanno fatica a spiegare l’origine della pluralità e della materia dalla perfezione dell’Uno… Quinzio risponderebbe che secondo la tradizione biblica non esiste una dimensione spirituale separata. L’uomo è “carne”, ovvero ciò che chiamiamo spirituale e ciò che chiamiamo corporeo costituiscono un’unità profonda. Il problema del male non ne viene affatto cancellato: il male rimane. Come del resto in Leopardi: posso dubitare dell’esistenza di tutto, ma non di quella del male. E l’ultimo secolo l’ha provato al di là di ogni dubbio.

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