Emys orbicularis, la tartaruga palustre, un tempo molto diffusa nelle zone umide, nelle paludi e nei fossi dell’Italia del Nord. Da non confondersi con quelle tartarughine esotiche, terrapin dalle orecchie rosse, che negli ultimi anni sono state abbondantemente acquistate da molti per essere tenute negli acquari, e spesso poi liberate negli stagni, nei laghetti, ecc.
Negli anni Cinquanta, a Venezia, a Rialto o presso il Ponte dell’Accademia, un vecchio con un grande mastello di ferro pieno di tartarughe palustri le vendeva per pochi soldi. La gente le comprava per i bambini. Ma pochi sapevano che si trattava di tartarughe palustri carnivore, e i più cercavano di alimentarle con pane e latte e frutta e insalata, e le tenevano all’asciutto, come tartarughe terrestri. Finivano per morire quasi tutte, disidratate e affamate. Andò così per la prima che ebbi. Ma poi, nel 1962, grazie all’enciclopedia sugli animali Natura viva, compresi tutto: ne comprai due, e le tenni in un catino di plastica con poche dita d’acqua, in cui si trovavano benissimo (così mi pareva). Le alimentavo con larve e lombrichi che andavo a raccogliere in giardino per loro, e con qualche pesciolino, di quelli che pescavo nel canale sotto casa mia. Vederle mangiare era bellissimo. Ma infine la loro condizione di prigioniere mi sembrò indegna del loro valore e della loro vitalità, e le liberai in campagna, lungo un fiume. Spero che abbiano avuto lunga vita felice.
Ma ripenso a quel vecchio che vendeva tartarughe. Doveva essere un ex pescatore, o un lupo di fiume. Certo era molto male in arnese, coi vestiti logori, e la barba di una settimana, e gli occhi rossi per l’alcol. Era un povero, insomma, un vero povero, di quelli che allora erano abbastanza numerosi a Venezia, e si distinguevano per la miseria dei vestiti. E anche per le case. Ricordo delle vecchiette in abitazioni scure, in stanze al piano terra in cui non entrava mai il sole, e invece entrava l’acqua alta, d’autunno. Tutte avevano i capelli bianchi e i vestiti scuri. Ne ricordo una fra tutte, dentro la cui finestra sbirciavo sempre, tornando dalla scuola elementare, scolaro di quinta bravissimo in aritmetica, e che mi salutava, non so perché. Un giorno mi offrì un gattino, dicendomi che non aveva da dargli da mangiare, e lo portai a casa pieno di entusiasmo, e della speranza che me lo facessero tenere. Ma avevamo già avuto per un anno un altro animale, un cagnolino irrequieto che ne combinava di tutti i colori, che ci aveva fatto penare ed era morto di cimurro, e mia madre fu irremovibile. Non voleva saperne di animali liberi per la casa, e non amava i gatti. Costretto a riportare la bestiola alla vecchina, mi sentivo stringere il cuore. Disse che non importava, che non dovevo preoccuparmi, aveva una voce dolcissima e le passai il gattino attraverso la grata della finestra. La ricordo ancora andare verso l’angolo più buio della stanza, curva e vestita di nero.

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