Una delle obiezioni contro ciò che oggi si dice omofobia è quella della grandezza di molti omosessuali del passato. Si citano personaggi come Cesare o Alessandro, e si passa a Leonardo, Michelangelo ecc. A dire: non è malattia o perversione l’omosessualità, è solo un altro modo di vivere il sesso. È un argomento debole: di per sé la condizione di malato, infatti, non si oppone alla grandezza, basti pensare a Leopardi o a Nietzsche… Quindi non è argomento a non considerare Michelangelo un malato o un pervertito. Rimarrebbe un grande. Credo che una discussione razionale sull’omosessualità sia oggi molto difficile, soprattutto quando entra in gioco la questione della natura, che è un portato non della cultura ebraica ma di quella greca (ad esempio, Platone nelle Leggi condanna l’omosessualità sulla base di un concetto di natura), che come tutti sanno si è mediata nel Cristianesimo producendo l’Occidente. Che l’omosessualità sia da interpretarsi in un contesto di storia della cultura è reso evidente dai caratteri di quella antica. Tra i personaggi che vengono solitamente citati, infatti, Socrate, Alessandro e Cesare ebbero mogli e amanti donne, e generarono figli, e concepivano l’omosessualità essenzialmente come pederastia, come tutti i Greci. Mi pare significativo che quel termine oggi sia scomparso dall’uso. È elemento assodato e pacifico che la cultura greco-romana considerava la penetrazione patita da un uomo adulto come massimamente disonorevole. Qui occorrerebbe esaminare tutta l’ideologia del “patire-passione” e dell’”agire-azione”, con l’assoluta valorizzazione del secondo polo, che porta ad esempio Plutarco a condannare l’amore omosessuale di fronte a quello eterosessuale perché nel primo manca la reciprocità nel momento del piacere, uno agisce e l’altro patisce, mentre nel secondo per natura l’uomo e la donna possono godere insieme.
Leggiamo nell’Amatorius: «Se è vero, infatti, che l’unione contro natura di due maschi non distrugge né diminuisce l’intesa amorosa, a maggior ragione dobbiamo pensare che l’amore tra uomini e donne, conforme alla natura, conduca a vera amicizia attraverso la grazia della reciprocità. (…) Il rapporto tra maschi è diverso: se il giovane non è consenziente, esso è frutto di violenza e di sopraffazione; se invece acconsente, per il suo carattere debole ed effeminato, a farsi ‘montare e inseminare come fanno i quadrupedi’ secondo le parole di Platone, concede le sue grazie in forma contraria alla natura, in un modo sgraziato, indecente e privo di piacere per lui.» È chiaro come questa visione antica dell’omosessualità sia oggi impraticabile. Mi è difficile discutere con chi sostenga che questioni come quelle poste dalla gestione della sessualità in tutte le società umane «dovrebbero essere le più naturali del mondo». Sono invece questioni culturali e storiche.
L’organizzazione della sessualità umana non è naturale, non può esserlo. Altrimenti essa sarebbe strutturata nello stesso modo in tutti i tempi e paesi. Se inseguissimo coerentemente la natura dovremmo pensare che la sessualità umana dovrebbe modellarsi su quella dei primati. O che il più forte dovrebbe fecondare lui solo le femmine, per il bene della specie, ecc. ecc. Qui non ci sono le cose naturali, per fortuna. E perché mai dovrebbe essere naturale il rapporto di coppia, più o meno durevole, e non la poligamia, o altro? E il discorso non varrebbe solo per la sessualità. Potrei dire che la lotta e la guerra sono le cose più naturali del mondo, ecc. La felicità, poi, non è dietro l’angolo. Se lo fosse, tutti i più grandi uomini non avrebbero capito nulla, compresi i fondatori di religioni. L’esperienza di millenni ci dice che gli umani sono mortali e infelici. Affermazioni come quelle che circolano quando si discute di sessualità mi ricordano un famoso «scopate e sarete felici» su cui non ho commenti.
Infine, dove c’è povertà, lontano dall’Occidente impelagato in oziose discussioni, i problemi dei rapporti tra i sessi sono risolti anche in modo assai semplice: lapidazione di adultere e omosessuali, repressione, infibulazione… O no?

Se posso, un argomento naturale a sfavore dell’omosessualità è il riconoscere che la natura dell’uomo è l’essere razionale. Posto questo rilievo, se non cade, quanto meno sfuma la dicotomia natura-cultura. L’esercizio della ragione, natura umana, senz’altro motore di cultura ma ciò nondimeno specificità naturale dell’uomo, porta a riconoscere la perversione dell’atto omosessuale, intrinsecamente chiuso alla generatività, così come alla reciprocità. Se queste, come altre, sono scansioni razionali ciò non implica abbiano solo valore culturale, anzi, sono il portato più specifico della natura umana.
Del resto l’idea stessa di natura non è, in quanto idea, naturale simpliciter, ma appunto ciò non toglie che sia naturale in sè.
Certo la temperie culturale attuale non è, e non vuol essere, luogo adeguato per questo genere di rilievi, avendo rinunciato al legame pensiero-essere; ma questo è appunto un problema di cultura (perversa), non di natura.
Buon triduo pasuqale.
Giampaolo Ghilardi
Grazie del contributo, che condivido in parte. Quella che a me sembra oggi estremamente problematica è l’idea di natura. La problematicità è in parte legata all’uso del termine che copre un ventaglio ampio di significati. Per me, ad esempio, la natura umana è culturale, nel senso che la natura dell’uomo è esattamente ciò che lo separa dalla natura animale, cioè il suo vivere nella cultura, nello scambio di segni. Ma forse sarebbe meglio dire “essenza” dell’uomo, ad evitare confusione con la pura physis. Ma se mi si dice che “per natura” l’uomo è monogamo, non sono d’accordo. Lo sarà per cultura, o per comando divino, o per obbligazione morale. Il punto per me è sempre uno: se si oscura la differenza tra l’umano e l’animale tutto si confonde, e ogni abominio diviene possibile.
Convengo senz’altro quanto alla polisemia, a volte rasente l’equivocità, del concetto di natura, dunque capisco l’esigenza di spazzare il campo dai possibili fraintendimenti. Detto questo, però, starei attento a non buttare con l’acqua sporca il bambino. Ritengo che, se si abdica completamente all’utilizzo del concetto di natura, ci si trovi poi di fronte a difficoltà insormontabili allorchè ci si volesse, come auspicabile che sia, cimentare nella fondazione di alcunchè: dalla morale alle scienze descrittive.
Nei miei termini la natura razionale dell’uomo lo porta di necessità all’elaborazione culturale, che ne segna, quindi, di pari necessità la differenza con l’essere animale, ma insisterei col riconoscere la naturalità di questo processo, per una ragione ben precisa, di cui vengo a dire.
La dimensione culturale, di per sè, o meglio, per come oggi è intesa, viene ricondotta sotto il segno del possibile, non potendo così di principio essere garante e fondatrice di alcun sistema, men che meno quello morale. Diversamente la natura, pur quale concetto elaborato per via razionale, ha in sè il crisma del necessario, del non arbitrario, e per questo risulta idonea ad un discorso fondativo.
Un discorso che si volesse veritativo non può fondarsi sul solo aspetto culturale, richiede una riflessione sulla natura o essenza strutturale dell’uomo in quanto tale, donde risultare normativo e persuasivo per l’interlocutore.
S. Tommaso distingueva, se ben ricordo, la natura ut natura dalla natura ut ratio, specificando che nell’uomo la natura essenziale fosse quella ut ratio. Del tutto d’accordo, quindi, nel rimarcare la differenza specifica tra l’uomo e l’animale, solo la porrei, secondo la tradizione classica, nella natura razionale di questo, più che nella cultura, che ne è piuttosto il prodotto derivato, a volte non conforme alla natura razionale. Non posso dimenticare il mantra di Grillini: natura è cultura, inteso proprio a legittimare qualsiasi “variazione” sul tema.
Ciao
Giampaolo
Penso che la razionalità non sia più concetto sufficiente a fondare la distinzione dell’umano dall’animale (e anche che il concetto classico di ragione non sia più adeguato). Non sono del resto né un tomista né un neotomista. Penso che, minimalmente, la differenza stia nella capacità umana di rappresentazione. Quella della rappresentazione è una sfera più ampia di quella della ragione, e vi rientra anche ciò che è irrazionale, in quanto appunto viene rappresentato. Ben comprendo la tradizionale posizione cattolica per cui esiste una “conformità alla natura razionale”. Il problema è che ogni volta che si tenta di applicare alle occorrenze della vita quella “conformità” ne emerge il carattere storico e convenzionale. In altri termini, si pone la questione dell’autorità che stabilisce che cosa sia conforme e che cosa difforme dalla “natura razionale”.
Non insisto, non è il luogo adatto, nè sarebbe corretto. Solo mi piacerebbe sapere come la rappresentazione possa costituire un argine ai possibili abomini, che per lo più vedo legittimati dal ricorso alle diverse culture.
Con l’occasione auguri di buona Pasqua.
Giampaolo
Infatti la rappresentazione è ciò che distingue l’uomo dall’animale, non ciò che salva dall’abominio, che è solo dell’uomo. Mi rendo conto che il discorso andrebbe ampiamente articolato. Aggiungo solo che a mio avviso il relativismo culturale non è potenzialmente più aperto all’abominio di quanto lo sia l’assolutismo monoculturale. Bin Laden non è un prodotto del relativismo culturale, per intenderci. (E io non sono un relativista nel senso corrente, peraltro).
Buona Pasqua anche a te
Credo che la sessualità non abbia nulla a che vedere con le circostanze psichiche di cui, Lei Fabio ha tracciato le linee sommarie. La storia dell’omofobia occidentale aimé è passata per un purismo di spiritualità di origine dualistica, quando cioè l’indifferenza al piacere erotico è divenuta un valore senza cui non sarebbe possibile il dialogo con l’assoluto. Anche i dati storici confermano queste mie considerazioni – grazie a Dio – e persino Freud in qualche conferenza sostenne che come ipotesi l’uomo (e la donna) potrebbero essere eterosessuali solo per la procreazione, ma non per identità psichica, il che la dice lunga circa la storia dell’omofobia. Chiunque progetti un percorso di solidale unione, a qualsiasi sesso appartenga, ha il sacrosanto diritto di vivere secondo quei principii che sente suoi. Chiunque progetti percorsi di solidrarietà sociale, a qualsiasi identità sessuale appartenga, ha il diritto pieno di viverla e di esser accolto e mai compatito. E’ la falsa compassione ipocrita da “dame della carità” a distruggere alcuni aspetti del vivere sociale.
Grazie d’avermi letto.
Il diritto che ogni individuo ha di vivere secondo coscienza, senza ledere i diritti altrui, è sacrosanto, ma non implica quello di essere accolto sempre e comunque. Devo rispettare l’individuo in quanto essere umano, posso forse capire le sue scelte, ma non posso comprenderlo e accoglierlo se nella mia libertà di giudizio considero le sue scelte abominevoli.
Gentile Achi,
Lei ha scritto: …comprenderlo e accoglierlo se nella mia libertà di giudizio considero le sue scelte abominevoli.
Io Le affermo che è l’accoglienza che frantuma, per prima, l’intolleranza e il suo abuso.
Esiste un testo fondamentale su questo, che da uomo e da professore, ma soprattutto da libero pensatore amo. E’ il “Trattato…” di Voltaire. Leopardi nello Zibaldone, e prima di lui l’afferma il lucido intellettuale di Fontiveros che “non è bene trapassare il prossimo col proprio sapere”.
Grazie caro ACHI d’avermi letto.
Grazie caro FABIO d’avermi accolto.
L’ha ribloggato su Brotture.