Non si trova molta saggezza leggendo i Seven Pillars of Wisdom di T.E. Lawrence (1926), edito in Italia da Bompiani nel 1949 e riedito per la ventesima volta nel 2000 nella traduzione (discutibile) di E. Linder, ma sarebbe certo meglio leggere il libro di Lawrence d’Arabia nell’originale, perché se la mente dell’autore non è metafisicamente limpida e filosofeggia penosamente (ma è una pena autentica), la sua scrittura è spesso smagliante. Il traduttore traduce ostrich (struzzo) con ostrica, con la gustosa conseguenza che cinque capi arabi vengono “portando in dono uova d’ostriche arabe abbondanti nel loro deserto”. (p.199) Non so se questo errore si tramandi da venti edizioni. Non si trova vera saggezza, in questo libro, ma molta avventura, un problema d’identità culturale, un’ossessione per la purezza, un’estetica della guerra che si traduce in ammirazione per il valore anche del nemico, merce rara questa negli ultimi tempi.
Su ogni campo ed in ogni valle truppe turche fuggivano incespicando verso nord, incalzate dai nostri uomini che, resi più arditi dal calare della notte, serravano il nemico. Ogni villaggio raggiunto dalla battaglia faceva la propria parte. Il vento nero e gelido echeggiava selvaggiamente di colpi di fucile, grida, scariche turche, e galoppate improvvise quando qualche drappello delle due parti si scontrava furiosamente.
Il nemico aveva tentato al tramonto di fare sosta e d’accamparsi, ma Khalid li aveva costretti a riprendere la fuga. Alcuni si misero in marcia, altri restarono. Parecchi si addormentarono esausti lungo la strada. Privi ormai di ogni ordine e collegamento, vagavano sotto le raffiche in gruppi sperduti, pronti a sparare ed a correte a ogni incontro con noi o fra di loro. Gli Arabi erano altrettanto disseminati, e quasi altrettanto malsicuri.
Facevano eccezione i distaccamenti tedeschi, e qui per la prima volta mi sentii orgoglioso del nemico che aveva ucciso i miei fratelli. [è in corso la Grande Guerra] Erano lontani duemila miglia dalle loro case, senza speranza né guida, in condizioni abbastanza disperate da fiaccare gli spiriti più coraggiosi. Eppure le loro compagnie restavano unite in buon ordine, muovendosi fra la confusione di Arabi e Turchi come navi corazzate, gli uomini fermi in volto e silenziosi. Attaccati, si fermavano, prendevano posizione e facevano fuoco a comando. Non mostravano fretta né esitazione. Non gridavano. Furono magnifici. (p. 766-777)
Mio padre Erich Linder ha tradotto il libro (dall’inglese in italiano) quando aveva poco più di vent’anni. Erich Linder era di lingua madre tedesca e per essere stata una traduzione da una lingua straniera (l’inglese) in un’altra lingua straniera penso abbia già fatto miracoli.
Con tutto ciò sarebbe cortese segnalare la pagina in cui ostrich è stato tradotto con ostrica, in modo che con un’eventuale ristampa l’editore possa ovviare all’errore.
Infatti è scritto: a p. 199 si legge “ostriche”, che è il plurale di ostrica. In ogni caso, è evidente che se Erich Linder ha tradotto da una lingua straniera ad un’altra straniera ha fatto miracoli. Solo che non dovevano essergli richiesti. Secondo me il traduttore per tradurre davvero bene deve farlo da una lingua straniera alla sua materna.
Beh,ritengo che il traduttore dovrebbe tradurre solo quando è perfettamente(o quasi) fluente nella lingua da tradurre.
La traduzione fu fatta da mio padre quando non aveva ancora imparato bene la lingua, e la fece sostanzialmente per guadagnarsi di che vivere.
In tutti questi anni, l’editore avrebbe potuto farla rivedere .. penso che pochi italiani parlino bene l’italiano e l’inglese come li parlava mio padre alla fine della sua vita
Confermo, pochi italiani e italiane parlano un corretto italiano
Gentile sig. Linder, onore a suo padre! Mi pare evidente come lui non abbia alcuna colpa. In realtà, sarebbe sempre opportuno che le vecchie traduzioni fossero riviste attentamente. Ma da quando i correttori di bozze sono stati sostituiti dai computer si vedono orrori di ogni tipo anche in romanzi nuovi di autori italiani…
L’ha ribloggato su Brotture.