Due mondi

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Dentro l’immensa galassia spettrale dell’autismo esistono due mondi ben distinti, lontani uno dall’altro e separati da innumerevoli altri pianeti e pianetini. Il primo è il pianeta Pride, quello abitato dal popolo degli autistici ad alto-altissimo funzionamento, fra i quali si distingue una particolare setta, quella degli Asperger. Gli abitanti del pianeta Pride hanno sviluppato una tecnologia avanzata, e tengono continui contatti telematici con i mondi dominati dalla potentissima  popolazione dei Neurotipici, con i quali a volte commerciano, volendo però mantenersi sempre distinti, orgogliosi come sono della loro neuro-differenza. Il secondo mondo è Depression, abitato dalla reietto popolo degli autistici a basso e bassissimo funzionamento, molti dei quali non conoscono l’uso della parola e non sono in grado di capire discorsi e intenzioni ed espressioni di nessun essere vivente: per sopravvivere, essendo inetti a procurarsi cibo e vestiario e a provvedere ai bisogni minimi, costoro hanno sviluppato la capacità di vincolare a sé i genitori (sempre neurotipici) fino alla loro morte. Il pianeta Depression è dunque abitato da una popolazione mista, che gli studiosi non sono ancora riusciti a classificare. L’unica cosa su cui tutti concordano è che la sopravvivenza degli abitanti del pianeta Depression ha del miracoloso. Un’altra cosa interessante è questa: gli abitanti del pianeta Pride, nonostante la loro intelligenza, non riescono assolutamente a comprendere quelli del pianeta Depression, e tendono a pensare che siano esattamente come loro.

Questa sciocchezzuola mi è stata ispirata dalla lettura di questo bell’articolo comparso sulla rivista online Spectrum, intitolato The controversy over autism’s most common therapy . Dove esiste una forte auto-advocacy da parte delle persone con autismo ad altissimo funzionamento e Asperger che sono nella galassia spettrale, come avviene negli USA, là c’è anche molto dibattito, spesso lacerante, anche sulle metodologie di abilitazione come ABA.

In A Different Key

diffkeyQuesta è una storia dell’autismo molto americana, nel senso che quasi tutto ciò di cui si parla avviene negli Stati Uniti (e in Inghilterra), ma è ben vero che le sorti generali dell’autismo si sono decise in un solo Paese, e senza quello che è avvenuto in questi decenni negli USA tutte le famiglie con autismo al loro interno, italiane comprese, sarebbero nella notte e nella nebbia. Questo è anche un libro di 552  pagine (che con le note e gli indici diventano 670), che si legge d’un fiato, perché è scritto benissimo, con la chiarezza e la capacità narrativa del miglior giornalismo e della migliore storiografia anglosassoni. In A Different KeyThe Story of Autism è un libro che dovrebbero leggere tutti quelli che in qualche modo sono interessati alla problematica dell’autismo, anche in Italia. E tuttavia la diffusa incapacità, anche da parte di psicologi e psichiatri italiani, di leggere libri scritti in inglese farà sì che anche l’opera di John Donvan e Caren Zucker, come altre importanti pubblicazioni divulgative, in assenza di un’improbabile traduzione in italiano, passerà quasi inosservata da noi. Ed è un peccato, perché questo libro offre uno sfondo storico, sociologico e scientifico indispensabile per poter parlare di autismo sapendo di che cosa si stia parlando.
L’aspetto per me più interessante, perché direttamente connesso alla mia visione critica dello Spettro, riguarda la prevalenza dell’autismo. Non tutti sanno che la pietra di paragone per tutti i discorsi sull’aumento dei casi di autismo, sulle percentuali di affetti della sindrome sul totale della popolazione, ecc., è costituita da uno studio pionieristico pubblicato in Inghilterra nel 1966 da un giovane ricercatore, Victor Lotter, uno studio che giungeva a definire la proporzione che sarebbe stata evocata in seguito infinite volte: 4,5 bambini ogni 10.000. Era in assoluto il primo tasso di prevalenza. Il problema è che la ricerca di Lotter, iniziata nei primi anni Sessanta, sulla base della definizione di autismo di allora, è stata usata nei decenni che seguirono come solida pietra di paragone della prevalenza, come fosse una verità oggettiva.  Come scrivono Donvan e Zucker, “Definizioni sfocate hanno condotto a domande senza risposta su questo problema: studi differenti svolti in tempi diversi stanno trattando dello stesso tipo di persone? ” (p. 286). Lo scontro di questi ultimi anni tra i difensori della neurodiversità da un lato, che invocano il rispetto e l’accettazione della persona autistica per quello che è, e denunciano come violenza ogni tentativo di modificarla, e dall’altro i genitori e le associazioni che vogliono abilitare, cioè cambiare, i propri figli, e se possibile strapparli all’autismo, sono la conferma della estrema problematicità e indeterminatezza che la sindrome si porta con sé dal tempo in cui Kanner la denominò.

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Inclusivismo come ideologia

photo-pro-schIl mondo della disabilità in Italia ha bisogno di determinazione, idee chiare, realismo. Molto meno di visceralità, luoghi comuni e ideologia. Eppure, e non è strano, prevalgono di gran lunga i secondi. Così, siamo passati in pochi decenni dal segregazionismo all’inclusivismo totalitario. Leggo con irritazione, ma non con stupore, quindi, l’articolo di Chiara Bonanno comparso su Superando del 16 febbraio, intitolato “Strutture protette”: i convincimenti e le leggende. E qui lo sottopongo ad un’analisi critica, al fine di far emergere quelli che a mio giudizio sono nodi irrisolti e scogli pericolosi (non privi di Sirene).

Scrive Chiara Bonanno: In Italia c’è ancora tanta gente convinta che alcune forme di disabilità debbano essere trattate in appositi ambienti altamente strutturati e con personale professionalmente preparato.

Certamente, e per fortuna. Quegli ambienti però non è facile trovarli. Io da sempre sostengo che le persone con autismo a basso funzionamento, tanto per non parlare genericamente, debbono essere trattate in appositi ambienti altamente strutturati e da personale esperto, formato sull’autismo e in grado di utilizzare le tecniche cognitivo-comportamentali che la scienza ha validato.

Scrive ancora Chiara Bonanno: Questo convincimento parte da due concetti, molto antiquati: il primo “ufficiale” e il secondo “ufficioso”.
Il concetto ufficiale riguarda il convincimento che chi è affetto da una disabilità grave sia in forte disagio tra persone “normali” e quindi è un bene che possa vivere in un ambiente educativo e tra persone a lui simili.

Questo concetto ufficiale è esposto male e travisato. Intanto, non esiste come ufficiale, nemmeno tra virgolette. Secondariamente, non è questione, per quel che riguarda l’autismo grave, di un disagio in ambiente normale. È questione di una serie di problematiche, molto varie e complesse, anche sensoriali, che affliggono gli autistici. Ad esempio, chi in Italia, Paese così orgoglioso della sua inclusione scolastica, si pone mai il problema della sofferenza degli allievi autistici sotto le luci al neon di cui tutte le aule sono dotate, luci che causano disturbi visivi a moltissimi di loro? Dirò di più: ci sono anche centri per l’autismo in cui l’illuminazione è al neon, mentre è un dato scientifico acquisito che per buona parte dei soggetti autistici essa è fastidiosissima. L’autismo non consente a chi ne è affetto di essere come gli altri in tutto e per tutto, ritenere che un autistico possa e debba fare tutto quello che fanno i suoi compagni neurotipici, ad esempio andare in luoghi caotici e rumorosi come una discoteca, significa non accettare la differenza, violentare la natura della persona, sotto il manto ideologico dell’uguaglianza ad ogni costo. Con l’autismo il costo di questa ideologia è pesantissimo.

Prosegue Chiara Bonanno:  Andiamo ad analizzare questo assunto. Alcune forme di disabilità intellettiva hanno, in effetti, differenti modalità di relazione con le persone e con le cose. Modalità spesso bizzarre e che appaiono, anche a uno sguardo molto smaliziato, sicuramente strane.
Frequentemente – soprattutto in contesti dove non si attivano precocemente dei percorsi educativi individualizzati (e sottolineo individualizzati, ovvero conformati perfettamente alla persona con disabilità) – queste stranezze si stabilizzano, fino a diventare stereotipate e apparentemente ingestibili. Quindi, per meglio “gestirle”, si raggruppano persone “strane” insieme ad altre persone “strane”, inserendole in ambienti chiusi e con regole particolarmente rigide per “rieducarli”.

Se è ben vero che l’autismo deve essere affrontato con un trattamento precoce e intensivo (e questo già di per sé pone una differenza rispetto agli altri bambini, nevvero?), bisogna tener presente che molti casi registreranno miglioramenti solo molto limitati, pur con tutti i trattamenti del mondo. Io stesso ne ho fatto esperienza con mio figlio Guido. Il problema è anche quello del ritardo mentale associato all’autismo, che tanto più è grave tanto più limita i progressi. Mio figlio, che è del tutto averbale, avrà bisogno per tutta la sua vita di ambienti protetti e strutturati. Quello di rieducazione, poi, è un termine del tutto fuori luogo, un termine da struttura carceraria. Nel mondo della disabilità mentale e dell’autismo si parla di educazione speciale, caso mai, ma soprattutto di abilitazione. Ma l’abilitazione può avere successo parziale, limitato, o nessun successo.

Si chiede quindi Chiara Bonanno: Ma rieducarli a cosa? Al poter tornare a vivere in mezzo alla gente “normale”? Sappiamo molto bene tutti che questo non avverrà mai, che queste persone “strane” non torneranno mai più tra le persone “normali”. Nessuna di queste persone istituzionalizzate ha avuto un progetto a breve termine che culminasse con il ritorno a casa. Tanto più lo si prevede nella futura Legge sul cosiddetto “Dopo di Noi”, approvata alla Camera e in discussione in Senato. Quindi la “rieducazione” di questi luoghi è una menzogna.

Posto che rieducazione non è la parola giusta, se il fine è il ritorno tra la gente normale, occorre riconoscere che le persone con autismo grave e gravissimo non saranno mai in grado di vivere una vita simile a quella degli altri. Ad esempio, mio figlio Guido avrà sempre bisogno di essere vigilato attentamente, perché la sua iperattività unita all’autismo e al ritardo mentale lo rende potenzialmente pericoloso a sé e agli altri, totalmente privo del senso del pericolo, ecc. Lui, per vivere una vita non disumana, ha assoluta necessità di essere trattato in modo differente dagli altri. È questa la cosiddetta discriminazione positiva, quella che fa fatica ad entrare nella mente dei responsabili della sanità, dell’educazione e dei servizi sociali. Ma, come è evidente, anche nella mente di molti genitori e di molti di coloro che lavorano per i disabili. Quella discriminazione positiva per cui, ad esempio, negli ospedali un autistico non dovrebbe essere trattato come gli altri, perché ha problemi sensoriali che gli altri non hanno, non è in grado di aspettare il suo turno, o è infastidito da particolari dell’ambiente per noi insignificanti, perché è socialmente cieco, non comprende il significato dei gesti e i segni in contesti mutevoli, soggetti a modificazioni continue.

Prosegue Chiara Bonanno: Qualcuno obietterà che tra i propri “simili” queste persone hanno meno disagio. Ma sul serio c’è gente che crede che una grave forma di disabilità possa essere simile a un’altra grave forma di disabilità? Nemmeno i gemelli monozigoti, quando prendono la medesima malattia, stanno male alla stessa maniera, e questo perché scientificamente non esiste una persona uguale all’altra.

Che nessuna persona sia uguale ad un’altra prima che una nozione scientifica (peraltro persona non è termine scientifico, propriamente) è esperienza e senso comune. Ma qui si fa una grande confusione, e il discorso va fuori strada. Cerchiamo di stabilizzare i concetti. È del tutto ovvio che tra le gravi forme di disabilità esistano differenze abissali. Un non vedente sperimenta una grave forma di disabilità, e nella sua vita incontra molte difficoltà, ma può vivere, con una serie di ausili e accorgimenti, una vita pienamente soddisfacente, autonoma, ricca di relazioni e socialità. Un autistico grave come Guido non sarà mai autonomo, e non si renderà nemmeno conto della natura dei suoi problemi a causa della sua disabilità mentale, della sua incapacità di maneggiare i concetti, anche quelli più semplici. Anzitutto, la differenza si pone tra le disabilità fisiche e quelle psichiche. E nell’ambito di queste ultime ci sarà, tanto per dirne una, una bella differenza tra una persona down altamente socializzata, che fa sport di squadra, ecc., e uno come Guido, che ha dovuto smettere di frequentare piscina e basket per la sua totale incapacità di adattarsi alle richieste dell’ambiente, la sua tendenza a scappare mettendosi in pericolo, la mancanza di strutture sportive adatte a persone come lui, ecc. (E parliamo di un ragazzo diagnosticato correttamente all’età di 2 anni e mezzo, e sottoposto a educazione cognitivo-comportamentale da subito, e ben integrato nel percorso scolastico dall’asilo alle superiori.) Ma all’interno di una data forma di disabilità, se le singole persone presentano tra loro differenze anche molto significative, vi sono delle caratteristiche comuni. Altrimenti una disabilità sarebbe uguale ad un’altra, e dunque un down e un autistico sarebbero la stessa cosa, notte in cui tutte le vacche sono nere, il che evidentemente non è.

 E aggiunge ancora Chiara Bonanno: Quindi, quando parliamo di “similitudine”, facciamo lo stesso ragionamento di chi pensa che gli orientali si somiglino tutti perché hanno tutti gli occhi a mandorla. Ci fermiamo, cioè, a qualche caratteristica molto apparente e la generalizziamo a tutto l’Oriente. Poi, però, basta vivere per qualche mese in Oriente, per scoprire che ogni Orientale è diverso, che con alcuni si può arrivare ad avere un feeling che nemmeno con il proprio fratello o migliore amico… con altri meno, altri proprio non li si sopporta! Insomma, che in realtà, in fin dei conti, gli Orientali sono uomini, donne e bambini come noi. Uguali a noi.

Qui il ragionamento continua sulla stessa linea, manifestando tutta la sua fallacia. Un conto, infatti è concludere che ogni orientale (ma anche gli Indiani sono orientali, e non hanno gli occhi a mandorla, quindi anche fisicamente gli orientali sono diversi tra loro) è diverso dall’altro, che il singolo individuo è quello che è, un individuo, in Cina come da noi. Ma negare la differenza tra cultura e modo di vivere italiano e afghano o cinese significa anzitutto negare la realtà, secondariamente offendere quelle civiltà e quelle persone. Un cinese, infatti, e un indiano, sono formati dalla società in cui vivono, dalla lingua che parlano, dalle usanze, in altri termini dalla loro cultura. Siamo tutti umani, ma nell’ambito della comune umanità una donna è diversa da un uomo, una donna cinese da una donna indiana o europea. Non si può dire a un cinese: tu sei un essere umano e basta, non sei un cinese. Sarebbe esercitare una violenza. Le differenze non vanno negate, ma accolte come tali, rispettate e valorizzate. Così gli autistici ad altissimo funzionamento che rivendicano il loro diritto ad essere autistici, a vedersi riconosciuti come tali, neurodiversi, hanno a modo loro ragione. E quelli averbali, che non possono rivendicare nulla, debbono però essere da noi accolti e rispettati nella loro differenza. Non si deve cercare di renderli uguali in tutto a noi: se a loro non è possibile adattarsi all’ambiente più di tanto, noi dobbiamo fornire loro ambienti accoglienti, adatti a loro, in cui possano vivere bene secondo le loro caratteristiche. Perché gli autistici non sono uguali a noi, e trattarli come se lo fossero significa far loro del male.

Conclusione della Bonanno: E siamo arrivati al motivo “ufficioso” per cui preferiamo chiudere persone con certe disabilità in “strutture protette”. Perché viverci insieme comporta un adattamento di tutti che non si ha voglia di compiere. E quindi, siamo noi che ci proteggiamo dalla loro “strana presenza”, che mette in discussione – fino ad arrivare a rivoluzionarla – quell’esistenza e quella quotidianità alla quale siamo abituati. Ciò che in psicologia viene indicata come comfort zone e che, ironia della sorte, blocca l’evoluzione di chiunque.

E qui si giunge, infine, all’inevitabile colpevolizzazione, cui ogni discorso di questo tipo (nulla di speciale per i nostri figli, sono uguali agli altri, devono essere integrati e basta) necessariamente conduce. Chi ha figli autistici gravi come il mio Guido adatta se stesso e la sua vita per anni, per decenni, alle caratteristiche e ai bisogni del figlio. Gli dedica un amore e un impegno immensi. Sapendo però bene che la condizione mentale del figlio lo renderà dipendente dalla cura degli altri per l’intero arco della vita. E che gli ambienti della vita sociale comune, a cominciare dalla scuola, possono adattarsi solo molto parzialmente ai suoi modi di essere e agire. Facendo quotidianamente l’esperienza del fatto che proprio la mancanza di strutture sportive e ricreative pensate per gli autistici gravi come lui alla fine lo escludono dallo sport, da ogni divertimento, da ogni forma di socializzazione. Il problema ultimo è poi questo: chi si curerà di lui quando i genitori non ci saranno più? Magari esistessero strutture per quelli come lui, con personale preparato, con un sapere dell’autismo grave e delle sue necessità, un sapere che forse oggi troviamo solo in Cascina Rossago e in qualche altra esperienza del genere. Meno ideologia, più scienza e più realismo: questa è la mia richiesta. Ma non è il Paese giusto.

Mediautistici

chiara_ori_crop_MASTER__0x0-593x443Sappiamo che l’Internet ha dato un contributo importante, a livello globale, alla consapevolezza dell’autismo. Qualcuno ha anche detto che l’autismo come oggi è raccontato è una creazione del Web. Sicuramente le famiglie degli autistici, e anche una parte delle persone nello Spettro, quelle ad altissimo funzionamento e asperger, hanno trovato nella Rete strumenti di comunicazione, e di azione e influenza, importantissimi. Ma anche cinema e televisione oggi sono forti attori nel campo dell’autismo, e la sfera mediatica nel suo insieme non può essere trascurata da chi si occupi di autismo come fatto sociale.
La sfera mediatica è la sfera della presenza-agli-altri, della visibilità. Questa sfera, in cui la televisione continua a svolgere un ruolo privilegiato, esplicita e porta all’estremo la tendenza generalmente umana ad abbandonare la periferia del gruppo sociale, e della società di massa odierna, per occupare il Centro, dove si è resi visibili agli infiniti membri della periferia, e dove mediante la visibilità si esercitano i poteri, reali o illusori che siano. Non ci si deve dunque meravigliare se anche nel mondo dell’autismo si manifestano fenomeni analoghi a quelli che si possono osservare in ogni altro campo: fenomeni di ricerca della visibilità, tentativi di acquisire una posizione tale da poter esercitare una influenza. E in questo l’immagine è fondamentale, e sull’immagine si gioca molto.
Come meravigliarsi, dunque, se i padri e le madri delle persone con autismo che ne hanno la possibilità e i mezzi fanno di tutto per acquisire visibilità nel sistema mediatico? È in corso, che lo vogliamo o no, che ci piaccia o meno, una vera e propria lotta darwiniana: in un mondo di scarsità di risorse, e quelle per l’autismo non sono certo destinate ad aumentare, sopravvivranno i più abili e forti, i più adatti, quelli che riescono a interagire meglio con l’ambiente, che nel nostro caso è plasmato dai media. Alcuni genitori lo sanno benissimo, e si stanno buttando nella mischia: occorre richiamare l’attenzione sul proprio figlio, possibilmente facendolo diventare un eroe mediatico, cioè un eroe-vittima. Ed ecco l’autistico di bell’aspetto, addirittura sexy, usato in campagne pubblicitarie, ed ecco l’autistica a basso funzionamento candidata alle elezioni comunali. Ecco, ad un livello inferiore, la moltitudine di mamme e papà che scrivono libri sulla storia del figlio, libri per lo più autopubblicati e che nessuno leggerà.
Leopardi notava come il dolore di una persona di bell’aspetto ci colpisca assai più di quello di un individuo brutto, anche se le sventure di quest’ultimo sono più gravi: questo elemento della psicologia umana è ben tenuto presente nel marketing dell’autismo. Cercansi autistici di bell’aspetto, chioma fluente e sorriso ammiccante. Questo marketing finora è stato solo economico. Ora sembra che possa diventare anche politico. Si tratta sempre di utilizzazione dei figli come strumenti: la libertà essenziale di questi non è messa in discussione, non è considerata, come la loro dignità umana, non sembra fare problema. Come se sempre il fine giustificasse i mezzi. E così l’Italia è come sempre un Paese ipocrita e diviso: da un lato un gran numero di disabili chiusi in strutture lager, senza reale controllo, affidate a personale-aguzzino. Dall’altra riflettori accesi su pochi autistici piacenti, danarosi e figli di genitori che ci sanno fare. Propongo un concorso per il mediautistico dell’anno.

 

 

Autismo e pessimismo (1)

autism-maloneys-zooLe polemiche come sfogo non mi interessano, non godo a farle, e se talvolta polemizzo è con le idee, non con le persone. Mi interessa, piuttosto, comprendere le altrui argomentazioni e far capire le mie. Per questo, entro solo marginalmente nella discussione tra Gianluca Nicoletti e la dirigenza dell’ANGSA, e solo per mettere in luce quelli che secondo me sono alcuni nodi della questione autismo, che quella discussione pone in luce. In particolare, vedo questi nodi nella risposta di Liana Baroni a Nicoletti, che si può leggere qui.
Il pessimismo. Qui bisogna distinguere con cura, perché la nozione di pessimismo è molto legata alla soggettività, e il suo concetto è sdrucciolevole. Un conto è il pessimismo di coloro che pensavano e pensano che con gli autistici gravi non ci sia nulla da fare, che siano immodificabili in tutto e per tutto, dunque non occorre far nulla. Questo pessimismo non è il mio. Il mio è quello di chi sa bene che il lavoro con le persone con autismo deve essere all life long, non deve avere mai fine, e che un autistico grave può apprendere cose importanti per la sua vita anche a quarant’anni, ma sa, anche, che per quell’obiettivo occorrono cultura e risorse materiali e umane che non ci sono, e che non si vedono all’orizzonte.
Molto spesso gli ottimisti sono quei genitori che per motivi geografici e familiari, anche legati alla condizione sociale, si sono trovati in una situazione che ha consentito loro di collocare il proprio figlio in una rete di servizi adeguata. Che, bisogna ripeterlo senza mai stancarsi, esiste solo in pochi luoghi. Bisognerà poi vedere se il loro può essere un ottimismo che si estenda legittimamente su tutta la vita del figlio, o solo sul periodo in cui è bambino. Spesso vengono accusati di pessimismo, di contro, quelli che denunciano situazioni insopportabili, condizioni esistenziali disperate e senza via di uscita. Nel mondo dell’autismo sono molti, e il loro atteggiamento ha spesso ragioni solidissime e ben giustificate. Vengono anche accusati di pessimismo coloro che per i loro figli prospettano un futuro difficilissimo e forse indegno di un essere umano. E io sono tra questi. Non hanno alcuna ragione per questo loro pessimismo? Il futuro per gli autistici gravi, in termini di residenze, risorse, personale e cultura adeguata deve essere forse visto come roseo? Parlo ora della mia esperienza, ma simili alla mia sono sicuramente quelle di molti genitori. Guido fra qualche mese compirà 18 anni: va ancora a scuola, la mattina, e con risultati positivi. Ma tutto dipende da circostanze casuali: essere capitato con una brava insegnante di sostegno, con un’assistente preparata, e aver avuto assegnato dal preside, per le sue necessità corporali (ovvero l’evacuazione, che in bagno deve assolutamente essere assistita) un eccellente membro del personale ausiliario. Ma se costui non ci fosse? Allora Guido avrebbe serie difficoltà a frequentare regolarmente la scuola, perché lui, banalmente, ogni mattina deve fare la cacca, e talvolta se la fa pure addosso. Ed è un uomo ormai, di 1.80, forzutissimo, e in bagno a scuola vuole che si occupi di lui un uomo. Tanto per dire di una difficoltà che non è certo la più grave. Ma: Guido da bambino e per anni è andato in piscina. Da qualche anno non ci può più andare, perché è diventato incontenibile: si diverte a saltare come un salmone da una corsia all’altra, esce dall’acqua e si mette a correre intorno alla vasca, tenta la fuga. Si diverte come un matto a correre verso l’infinito (ed è per questo che in passeggiata dobbiamo tenerlo assicurato ad un cavo). Si dirà che è per il fatto che in quella piscina mancavano personale preparato nella gestione di soggetti autistici. Errore! Due anni fa, al centro estivo per autistici dell’ULSS 9 di Treviso, anche il personale formato, e anche molto esperto, e gli psicologi del Centro autismo non è stato in grado di controllarlo in piscina, e così Guido ha dovuto rinunciare a quell’attività. Rinuncia anche, per motivi analoghi, alle attività di basket integrato cui il ragazzo aveva partecipato per diversi anni. Dunque, per anni Guido ha avuto una settimana piena: alla mattina scuola, al pomeriggio piscina, basket, e le attività educativo-terapeutiche presso il Centro Autismo. Ora non ha più nulla, solo la scuola. La sua settimana si è progressivamente svuotata. E quando, tra due anni, la scuola non ci sarà più? Ci sono forse percorsi personalizzati in preparazione, seriamente e realmente in preparazione, per quelli come mio figlio? Dall’ULSS tutto tace, le famiglie sono lasciate sole. Del loro grado di stress chi si cura? Finché tengono… poi vedremo. E uno dovrebbe essere ottimista perché in qualche zona dell’Emilia Romagna si sono fatti progressi. Ma sì, all’opinione pubblica mostriamo pure casi positivi, di buone prassi. Ma ricordiamoci, però, che soprattutto per gli autistici in età post-scolare, le buone prassi sono rarissime, e che la stragrande maggioranza delle famiglie con autistici gravi mena una vita dura, molto dura, e non vedere alcuno sbocco ad una situazione pesantissima non genera, ovviamente, alcuna forma di ottimismo.

Guardare avanti

vaccine-historyNel Settecento giunse un momento, anzitutto in Inghilterra, in cui la vita media dei nobili, già più lunga di quella dei contadini, fece un salto in avanti incredibile: la differenza divenne di 25 anni, un quarto di secolo. Merito dei progressi della medicina, e delle pratiche igieniche e sanitarie nuove, tra le quali risalta la vaccinazione antivaiolosa, di cui fruirono i più abbienti. Le distanze tra le classi sociali crebbero. Mi fanno ridere (amaramente) quelli che prevedono per i prossimi decenni una vita media lunghissima indiscriminata per l’intera popolazione, in grado di mettere in crisi il welfare degli Stati. Welfare che già in questi anni da noi è in crisi. Dove l’economia va male, alla fine anche la vita si fa più corta. Dove le differenze sociali aumentano, anche se la ricchezza generale di una nazione cresce, si allarga anche la distanza tra i ceti: anzitutto nel numero di anni che si passano in questo mondo.
E quelli che per i loro figli gravemente disabili sperano un futuro degno di un essere umano? Illusi, se non sono ricchi e in grado di pensarci con le proprie forze. Già ora mancano risorse per l’oggi e piani e investimenti per il futuro, e nessuno è in grado di dire nemmeno quanti autistici gravi adulti vivano in Italia in questo momento. E io, che sono poco propenso al sogno e al vaneggiamento, prevedo per la folta schiera dei disabili gravi, tra i quali è mio figlio Guido, per quelli che non possono vivere senza un’assistenza continua e ravvicinata 24 ore su 24, una vita adulta difficile, difficilissima, forse indegna di un essere umano.

Sui professionisti dell’autismo

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Per lavorare seriamente e produttivamente con le persone con autismo, e sulle persone con autismo, ai professionisti occorrono qualità che spesso a molti di loro mancano, e talvolta purtroppo mancano quasi tutte. È questo infatti un lavoro molto impegnativo, che può essere anche estremamente complesso e difficile, e che ti mette a confronto con modi di essere, di agire, e di pensare che possono essere anche molto, molto lontani da quelli comuni. Con i quali tu però non devi perdere il contatto, perché per i primi decenni della sua vita l’autistico è inserito in un contesto familiare. Ad un professionista nell’autismo è richiesto un forte e costante impegno intellettuale, egli dovrebbe ogni giorno ripetere come un mantra «scio me nihil scire», so di non sapere nulla. Gli autistici sono inizialmente bambini, ovviamente, e su questa fase della vita si concentrano oggi quasi tutti i progetti, gli interventi, e quasi esclusivamente la ricerca: e su questa fase dell’età vive e guadagna quasi tutto il professionismo attuale. Come in ogni settore lavorativo, tuttavia, anche qui la naturale spinta a cui il professionista è sottoposto è quella di adagiarsi nella routine, nell’applicazione meccanica dei propri schemi operativi a situazioni umane che sono non solo variegate, ma variabili nel corso del tempo, ad adottare una sorta di dogmatismo che infine, sottraendosi al pensiero critico, trasforma la scienza in ideologia. E questo balza agli occhi con particolare evidenza nell’ambito delle pratiche cognitivo-comportamentali come l’ABA. Le quali, intendiamoci, spesso sono l’unico strumento affidabile di cui si dispone, ma richiederebbero da parte di chi le mette in opera una grande flessibilità e capacità di adattamento al soggetto con cui si lavora. Si tratta infatti di un soggetto umano, che può essere anche molto poco dotato dal punto di vista intellettivo, ma cresce anche lui, e ad un certo momento non è più un bambino, e va trattato e compreso come adolescente e adulto. E che inoltre ha una mente con un suo funzionamento particolare, che andrebbe compreso nella sua individualità e non riportato a schemi semplificati e riduttivi. E che infine, come tutti gli umani e a dispetto del significato originale del termine autismo, è umano in quanto immerso in un tessuto di relazioni, al di fuori delle quali non è neppure pensabile come esistente. Dall’adolescenza in poi gli interventi di ogni natura scemano rapidamente, e l’interesse dei professionisti scema anch’esso. Ed essi non sono neppure molti: quanti sono in una singola provincia italiana i veri esperti di autismo a cui una famiglia possa rivolgersi con la sicurezza che il suo caso riceverà attenzione e troverà soluzioni per i molti, e spesso gravissimi, problemi che la affliggono? Generalmente, in una singola provincia abbiamo pochissimi professionisti di valore, talvolta uno solo. E costoro ovviamente seguono una infinità di casi. Si tratta di una situazione che nei prossimi anni, nonostante le piccole iniziative che sorgono qua e là a macchia di leopardo sul territorio, diventerà insostenibile. Quando arriverà il momento in cui per tutte le famiglie la maggiore età del figlio o della figlia con autismo non rappresenterà la soglia di un buco nero?

Opinioni e responsabilità

gufoGianfranco Vitale è padre di un giovane uomo con autismo, molto impegnato sui vari fronti di questa disabilità.  Sul suo libro Mio figlio è autistico ho scritto una nota molto favorevole. Stimo Vitale per i suoi libri, e qualche tempo fa lo ho anche invitato a Treviso per un dibattito sull’autismo adulto.   Di conseguenza, quando decise di aprire in Facebook una pagina di informazione sull’autismo, mi sono rallegrato. Mi sono quindi dato da fare per invitare gli amici di FB miei e quelli di Autismo Treviso a prendere in considerazione la pagina Autismo: persone, bisogni, diritti, apponendovi anzitutto il famoso mi piace.   Sono stati centinaia quelli che hanno risposto al mio invito. Ora però ne sono pentito. Perché in quella pagina Vitale mette di tutto, senza alcun filtro, senza alcuna presentazione critica. Tutto quello che circola nel variegato mondo dell’autismo, che è un oceano in cui navigano alcune belle navi ma anche molti vascelli fantasma, navi di pirati e vecchie carrette e rugginosi cargo. Occorre distinguere, più che mai oggi, occorre distinguere e giudicare, per evitare che le molte famiglie che ricevono una diagnosi di spettro autistico per il loro figlio o figlia, che si precipitano nell’ internet alla ricerca di aiuti e cure, cadano nelle mani dei venditori interessati di fumo e illusioni. Costoro sono abilissimi nell’utilizzare qualche dato scientifico acclarato e sicuro per sostenere con esso delle costruzioni concettuali del tutto arbitarie, fantasiose e fuorvianti. Sono bravi a dire “una ricerca ha dimostrato che…” senza citarne i dati esatti, la sua eventuale conferma, i giudizi dei peers, la validazione scientifica internazionale. Sono abilissimi nel confezionare esche attraenti e nel preparare lenze e ami. Le conseguenze per molte famiglie sono gravissime, anche a livello finanziario. Per questo, coloro che tra i genitori di soggetti autistici hanno la cultura e l’intelligenza che li mettono in grado di comprendere quali proposte siano attendibili e quali no, quali trattamenti siano validati dalla comunità internazionale e quali no, quali interpretazioni dell’autismo abbiano un solido fondamento e quali no, hanno il dovere morale di assumersi la responsabilità di fornire indicazioni e criteri. All’obiezione: chi sei tu per decidere se Verzella o Montinari siano più o meno attendibili di Theo Peeters o Fred Volkmar? rispondo che esistono differenti orizzonti di plausibilità a seconda della cultura in cui uno è inserito. Chi crede nella realtà dei dischi volanti o delle scie chimiche sarà facilmente portato a credere che l’autismo sia causato dai vaccini o si possa guarire con la chelazione. All’interno di una cultura a base scientifica, qual è quella occidentale moderna, l’opinione che la terra sia piatta è bensì pur sempre un’opinione, ma non ha affatto la stessa dignità di quella per cui la terra non è piatta. Se io fossi un astronomo dilettante e aprissi una pagina di astronomia su FB, dovrei ammettere senza commenti o avvertenze tutte le opinioni, anche le più bislacche? Certo, se si parte dal presupposto che a priori un’opinione valga un’altra, e non vi sia alcun criterio superiore per discernere il probabile dall’improbabile, il vero dal falso, allora è lecito anche fare una pagina Facebook sul cancro in cui si pubblica di tutto: dalla nuova tecnica di indagine ai mirabolanti risultati della cura a base di bicarbonato: senza filtro o commento, perché sarà il lettore a decidere, dirà anche lui la sua opinione, perché tutti siamo uguali. No, caro Vitale, non siamo affatto tutti uguali: vediamo bene le differenze abissali che intercorrono tra i nostri figli e figlie autistici, e vediamo altrettanto bene quanto diversi siano i genitori. E come molti di loro siano facilmente accalappiabili da figuri più o meno loschi, e da organizzazioni prive di una qualsiasi etica. Nella sua risposta ad un commento critico di Autismo Treviso su Facebook, intitolata erroneamente Risposta ad Angsa Treviso onlus, Vitale scrive:    “Mai, dico MAI, ho fatto precedere un articolo scientifico da un mio giudizio, che avrebbe potuto pilotare arbitrariamente l’opinione di chi legge. E’ tale e tanta la stima e il riguardo che nutro per l’intelligenza delle persone da non poter lontanamente pensare di tranciare pareri, e peggio ancora giudizi, a scapito della libera riflessione che ognuno deve poter condurre, e della libera discussione che può e deve seguire”. Io non nutro questa stima per l’intelligenza delle persone, che mi pare un atteggiamento di retorica compiacenza. Se le persone fossero tutte realmente intelligenti e in grado di scegliere autonomamente in modo critico e documentato tra le proposte di trattamento dell’autismo, i ciarlatani non avrebbero il successo che hanno. Vi sono dunque persone intelligenti, ma anche moltissime sprovvedute, incolte, suggestionabili. Non dimentichiamo che in Italia l’analfabetismo funzionale è al 47 per cento: un tasso altissimo, il più alto fra i Paesi sviluppati. E l’analfabetismo funzionale è l’incapacità delle persone di comprendere il senso dei testi che leggono! Per non parlare della cultura scientifica, che in Italia è al livello più basso anche nella classe politica! Il dare spazio a tutti, come valore che Vitale mette in campo, è una pura e semplice assurdità. Un conto sarebbe infatti dare spazio a tutte le opinioni seriamente argomentate e a tutte le proposte scientificamente validate, un altro il dare spazio ad ogni opinione, ad ogni tendenza. Anche a quella di chi dice che suo figlio è guarito dall’autismo bevendo ogni giorno un litro di succo di pera. No, mi dispiace, caro Vitale, mi dispiace davvero, ma la tua è una democrazia posticcia, un gravissimo errore concettuale. Non si può mettere indiscriminatamente tutti sullo stesso piano: ne esce una notte in cui tutte le vacche sono grigie. E, come disse Don Milani, “non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali”. Dunque, aiutare a discernere il grano dal loglio coloro che non ne sono autonomamente in grado è una responsabilità, ed è profondamente etico. Di contro, uguagliare nella sostanza ogni proposta, ogni interpretazione, ogni voce, ogni fantasia, senza esporsi e senza prendere una posizione visibile e identificabile, non è né coraggioso né utile. Riportare poi par pari in una pagina tutto quello che circola in rete, senza criterio, è anche molto facile, ma totalmente improduttivo: il mondo dell’autismo è molto diviso, e ben lo si vede negli USA, dove il movimento delle famiglie è iniziato ben prima che da noi. Pensare che si possa unificare, essendo gli approcci spesso incompatibili e addirittura inconfrontabili, poiché vi circolano vere e proprie fedi, come quella biomedica, appare quanto meno ingenuo.

Neurotribù?

1405621727248094610Ed ecco qui dall’America, presentato da  Kate Knibbs, un nuovo libro sull’autismo,  Neuro Tribes di Steve Silberman. Molto politicamente corretto, molto progressivo, sostenitore della linea del “bisogna aiutarli, non normalizzarli”. Perché l’autismo non è che una variante della mente umana, “ed è, tra le altre cose, la ragione per cui Steve Jobs aveva quella capacità di concentrazione, ed è la cosa che aveva Bill Gates e che gli ha fatto fare tutti quei soldi”. Ora, se l’autismo fosse solo questo non sarebbe un handicap, ma un grande vantaggio in una società tecnologizzata e competitiva. Ma siamo alle solite, spesso ci si attacca ad alcuni casi di autistici di successo (molti dei quali non mi convincono molto in quanto autistici) per invocare un cambiamento generale di paradigma. Lo fa anche Silberman. Bene, io vedo questo obiettivo come molto lontano, e non cesserò di dire che lo Spettro che è stato creato potrà essere benefico alle persone che dai loro tratti autistici, dalla loro spruzzata di Asperger, trarranno motivo di autocomprensione, di spiegazione del proprio carattere e modo di essere, dei propri comportamenti, ma non sarà di alcun aiuto  a quelli che vengono chiamati autistici a basso funzionamento, persone che non sapranno mai che Bill Gates è autistico, perché non sapranno mai chi è Bill Gates, e ai quali, tanto per dirne una, quella capacità di concentrazione di Jobs l’autismo non l’ha data, mentre gli ha dato una estrema difficoltà di attenzione. Rivelando che il cosa dell’autismo è sfuggente. Ma è significativo che l’articolista chiami l’autismo “la cosa”, perché in questo modo pone il problema del che cosa. Che cosa mai è l’autismo? Sembra che sulla sua realtà, per varie ragioni, che secondo me sono essenzialmente socio-culturali, mentre ne sappiamo sempre di più, contemporaneamente anche ne sappiamo sempre meno.