Un libro di grande spessore, ricco nei riferimenti teologici e filosofici, rigoroso nell’argomentazione e nell’apparato critico, è questo di Massimo Borghesi Critica della teologia politica (Marietti 2013). Il campo vi è occupato in buona parte dallo scontro tra la visione di Carl Schmitt e quella di Erik Peterson, dei quali Borghesi analizza acutamente le tesi e i loro sviluppi in altri autori, sullo sfondo dei grandi mutamenti in atto nel mondo e nella Chiesa nel corso di due millenni e dell’ultimo secolo. La questione in gioco è fondamentale, e si annoda alla vicenda della grande Chiesa in Occidente nel suo legame con la politica e lo Stato: per Borghesi, col Vaticano II e anche grazie a pensatori come Ratzinger, decisamente schierato con Peterson nell’affermare che «il cristianesimo si oppone all’identificazione tra “regno di Dio” e programma politico» (p.88), « … è la riattualizzazione della tradizione ecclesiale dei primi secoli che consente la valorizzazione della lezione moderna. Il Vaticano II, nel suo riconoscimento del diritto alla libertà religiosa, chiude una tradizione dei rapporti Chiesa-mondo, quella post-teodosiana che si prolunga nel Medioevo e in parte della modernità. Al contempo ne riapre un’altra, quella della sua tradizione più antica e più autentica, propria dell’età precostantiniana» (p.60). Il pericolo che il cristiano corre da sempre è quello della gnosi e del manicheismo, dal quale salva, ancora una volta, Agostino. Così, vi è un mortale rischio di teo-manicheismo (p. 185), manifesto in Schmitt, ma presente anche in molta teologia del Novecento (Borghesi si confronta con Metz, Moltmann, ecc.), da cui può salvare solo chi lo ha conosciuto bene nella sua capacità seduttiva, e lo ha superato. Borghesi ha ben presente l’impossibilità di far coincidere fede e religione (pp. 276-277), pena gravi fraintendimenti anche del senso dei grandi sommovimenti storici degli ultimi decenni, e nello stesso tempo si interroga criticamente, sulla scorta di pensatori come Habermas e Böckenförde, sulla questione della possibilità che le virtù politiche richieste dalla democrazia necessitino dell’apporto di una dimensione religiosa, senza la quale la democrazia stessa potrebbe afflosciarsi (p 312). Mi chiedo se ci siano in giro politici abbastanza colti da essere in grado di leggere e meditare questo eccellente libro.
