ἐγένετο Ἰωάννης ὁ βαπτίζων ἐν τῇ ἐρήμῳ καὶ κηρύσσων βάπτισμα μετανοίας εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν.
Si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Nella catechesi che mi fu impartita nei miei primi anni avevano un peso determinante l’idea di peccato e la figura del Demonio, con la connessa idea-incubo della dannazione infernale. Ricordo i raccapriccianti racconti della mia catechista, una signora abbastanza anziana, che avevano il fine di distogliere noi bambini dal peccato col terrore delle sue conseguenze. Il terrore della dannazione eterna nell’Inferno o di anni senza numero nel Purgatorio. Erano quasi sempre racconti di apparizioni del Diavolo, o di anime del Purgatorio che invocavano preghiere e suffragi per poter essere liberate dai tormenti. Talvolta rimanendo invisibili, ma facendo strani rumori nel cuor della notte, sinistri scricchiolii, colpi e sbattere di porte e finestre. Ne derivarono miei incubi notturni, brutti sogni che mi ridestavano nel cuor della notte, spingendomi a rifugiarmi nel lettone dei miei genitori. Il peccato era concepito essenzialmente come disobbedienza, disobbedienza al padre, al Padre celeste come a quello terrestre nelle sue varie incarnazioni: papà, parroco, maestro, vigile, direttore, ecc. Io fui un bambino molto obbediente, mai ribelle. Tuttavia, avvertivo una certa distanza tra la figura del giudice divino implacabile e pronto a punire e quella del mio padre terreno benevolo, e che si prendeva sempre cura di me e di mio fratello, obbedire al quale mi sembrava sensato. Ricordo ancora una delle prime domande che posi alla catechista, che già avevano in sé il seme di una dimensione critica: «In Paradiso come fanno le anime a parlare fra di loro se non hanno la bocca?».
Il cristianesimo cattolico in cui sono stato allevato aveva ancora una forte matrice tridentina e antiprotestante. Mia madre era molto pia, ma a casa nostra non c’era una Bibbia. Un giorno, nel 1958, mio padre ne portò a casa una, e mia madre vide che era un’edizione protestante e gli fece una scenata: quella Bibbia in casa nostra non doveva starci, e infatti sparì dopo pochi giorni. Questo fatto mi impressionò fortemente, e rimase per alcuni anni un grande mistero. Del resto, tutto nella mia religione di allora era misterioso, e un’aura sacra avvolgeva tutto quello che avveniva dentro la chiesa di San Giacomo dall’Orio, dalla cui porta quella di casa mia distava meno di cento metri. La cosa per me più misteriosa era questa: le persone che conoscevo erano tutte di religione cattolica, ma mi sembravano molto meno buone di quello che avrebbero dovuto essere per l’azione in loro dei sacramenti che avevano ricevuto. Mi sembravano esattamente come tutte le altre, non più buone degli americani dei telefilm, che non erano cattolici. Vedevo già allora, in forma confusa, quello che vedo oggi chiaramente: i sacramenti senza la metanoia di cui parla Marco sono riti magici, pratiche superstiziose, consuetudini antiche che lasciano i cuori esattamente come sono.
Il mio problema principale, dopo la prima comunione, divenne quello della confessione settimanale, che aveva luogo il pomeriggio del sabato: non sapevo di quali colpe accusarmi, e dovevo usare tutto il mio acume per ricordare lievi mancanze, peccati veniali che comunque mi sarebbero costati giorni, settimane e mesi di Purgatorio. Intorno ai dieci anni mi accorsi di una realtà importante: la maggior parte delle persone si diceva cattolica, ma nello stesso tempo prendeva la religione non troppo sul serio, e conduceva la propria vita esattamente come l’avrebbe condotta se quella appartenenza religiosa non fosse esistita affatto.
Tema davvero intrigante. Ricordo che da (molto) piccolo, esposto, più che al catechismo, a degli eccitanti racconti folcloristici, del diavolo avevo una fifa autentica, incomparabilmente ricapitolata dal film “l’esorcista” che vidi a 14 anni e mi fece davvero gelare il sangue. Al contempo però non ebbi mai davvero paura di finire all’inferno: mi pareva che i peccati che potevo compiere come bambino non avrebbero mai ragionevolmente conseguire una simile pena, soprattutto considerando che parteggiavo pur sempre per Dio! Facevamo pur anche i chierichetti! Insomma un tifo dal sapore calcistico mi sembrava opera ben sufficiente per una salvezza, per lo meno purgatoriale (alla faccia di Martin Lutero!)
Tutto sommato penso che questa sia ancora la mia configurazione profonda :-)
Io invece il chierichetto non lo feci mai. Il parroco mi richiese ai miei per questo compito, ma i miei accamparono scuse. Risultò poi che temevano che io maturassi l’idea di entrare in seminario e farmi prete. Una eventualità temuta da molte famiglie cattolicissime per i loro figli, e che non mi passò mai per l’anticamera del cervello.
:-) e neppure ad alcun chierichetto che io abbia mai conosciuto: si trattava di una piccola società scapestrata con proprie regole e gerarchie chissà da quando tramandate (c’era un “cjapitan dai mocui” – cioé capitano dei chierichetti, di solito il più anziano e “bullo”, delle regole di attribuzione automatica dei compiti: il primo che arrivava “ampolle”, il secondo “fazzoletto”, il terzo “calice”) nella quale l’irascibile “monsignor” (non avaro di ceffoni vendicativi assestati a freddo, quando il guaio combinato sembrava essere stato ormai dimenticato) non poteva mettere becco. Un gioco in costume divertente, zeppo di risate represse a stento sotto le occhiate piene d’ira dei “grandi”, e sostanzialmente alieno da ogni vera religiosità. Riguardo alle confessioni, si erano stereotipizzate un campionario verosimile (disubbidienze e bestemmie) prima di venire finalmente abbandonate. Ho l’impressione che in Veneto la religione si prendesse molto più sul serio che in Friuli.
L’ha ribloggato su Brotture.