Taccuino di prigionia (21)

Przemysl – Pikolice 1944. [ricordi della fanciullezza a Zero Branco] L’aula della Sig. Furlanetto era poco luminosa e molto umida. Al primo piano, dietro il Municipio; bisognava salire da una scala in legno esterna. Nel piccolo cortile crescevano le ortiche e Paolo, il bidello, teneva le galline sotto quella tettoia, in una stia. Ma la tettoia era magazzino di legna da ardere e dei banchi da scuola tutti rotti. C’erano là sotto anche le damigiane dell’inchiostro e ramazze sporche di catrame. Ricordo in quel piccolo cortile la botte carrellata per innaffiare le strade. Quante cose doveva fare Paolo! Era bidello, custode, stradino. Doveva badare a tutte le aule che erano seminate una qua, una laggiù, un’altra a 500 m. e poi aveva anche tutti i locali del Municipio. Povero Paolo! Noi lo facevamo ammattire. Lui ci faceva correre minaccioso, con la frusta in mano. Era la frusta che adoperava per la Checca.
Checca tirava la botte per le strade di Zero e mangiava l’erba che cresceva lungo i cigli delle strade comunali. Era polverosa quell’erba e tanto dura, ma Checca la mangiava volentieri dopo aver sfacchinato durante le ore più calde su e giù per le vie della piazza. Paolo riempiva la botte con un barattolo grosso grosso fissato all’estremità di una stanga. Pescava l’acqua nello Zero, là, vicino al ponte della scuola. E per ore e ore doveva fare quella bisogna. Sempre così: riempiva la botte, l’andava a svuotare, ritornava, riempiva ancora fino all’orlo, e continuava fino a sera.
Io lo sentivo quando attaccava la Checca. E se stavo ascoltando la geografia che la maestra spiegava, non stavo più attento allora. Paolo parlava alla Checca come fosse una persona. E si consolava con lei ad alta voce se qualcosa quel giorno avesse turbato la sua pace.

La maestra leggeva e spiegava le Alpi Giulie, Le Alpi Graie e le Alpi Retiche alla sonnacchiosa scolaresca ed io vagavo lontano, lontano. Pensavo se poteva essere vero quello che Paolo mi aveva detto. Non mi pareva possibile che gli animali parlassero tra loro, e nemmeno che la Checca comprendesse le parole di Paolo. E poi, se è possibile che gli animali si parlino, i cavalli parleranno in un modo, i somarelli in un altro, i colombi in un altro ancora. E volevo quasi domandarlo a Gigi Longo. Ma non potevo perché la maestra mi vedeva.
Gigi Longo sapeva molte cose. Lui era più vecchio di noi, disegnava tante belle cose, perfino maschere come Arlecchino, Colombina e Fracanapa. Come era bravo! Lui fece anche i cammelli in legno quando a Natale la Sig. Maestra ci fece fare il Presepio.
E poi Gigi disegnava tutti gli album che mandavamo alla IV elementare femminile di Ancona. Era proprio bravo! E conosceva tutti i piccoli segreti e le porcheriole di cui noi eravamo avidi di sapere. Ci parlava pure di misteriose cose che facevano i grandi, e ci aveva insegnato come fossero tutte invenzioni la Befana e S. Martino e la formica. Non è vero che la Befana vien dai monti a notte fonda, che S. Martino viene a cavallo, che la formica porta il premio a chi perde i denti. Tutte storie, tutte bugie per far star buoni i bambini.
E ci sembrava schiuso un nuovo orizzonte e già ci pareva di non essere più bimbi.

Quella sera eravamo rimasti in aula io Gigi e Bruno Deo. Avevamo appena terminato di “pitturare” l’aula con quegli arabeschi in azzurro quando entrò la maestra col paralume bianco ricamato in azzurro come le pareti. L’aiutammo. Lei salì sul banco di centro. Ci arrivava a stento in punta di piedi a toccare la lampada. Aveva le gonne corte. Noi tenevamo il banco. Ricordo il profumo che aveva la maestra. Si notava soltanto quando era molto vicina. Il paralume cadde. Lo raccolsi io. Lei si chinò per prenderlo dalle mie mani. Aveva la blusetta scollata. Fu un attimo. Intravidi due seni, bianchi, tondi, sodi. Forse diventai rosso come un gambero nel timore che lei se ne fosse accorta del mio sguardo furtivo. Quella visione mi tormentò anche e specialmente negli anni che seguirono. Non avevo visto che quel seno, e ne parlavo con arie da ragazzo precoce ai miei coetanei dopo averne richiesto la massima segretezza.

Gigi, poi, ci aveva rivelato una sua scoperta. È stato un gran colpo quella volta perché noi avevamo fin a quel momento un concetto superiore della Sig. Maestra e la vedevamo quasi come un essere senza macchia e differente di gran lunga da tutte le altre donne. Gigi ci disse: ragazzi, venite qua, sentite. La Sig. Maestra fa l’amore con Bibe Balzaro. Non vedete quante volte Bibe viene in aula, e quante volte lei scende? Quando lei scende va in ufficio di Bibe e fanno all’amore. State attenti ogni volta che la mestra ritorna in aula: se è stata a fare l’amore è tutta rossa e un poco spettinata.
Da quel giorno ci scambiavamo occhiate intelligenti e strizzatine d’occhio e qualche sorrisetto d’intesa quando la maestra usciva e entrava.
Che maliziosi e che canaglie!

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