E dove potrebbero andare queste due creaure, i due figli disabili di Jean-Louis Fournier, uno dei quali sa dire solo “brum-brum”, mentre l’unica frase dell’altro, ripetuta infinite volte, è appunto “dove andiamo papà?” ? Nella sua eleganza, sobrietà e ironia che a tratti pare cinica ma è solo espressione d’un amore disperato, questo libretto (Rizzoli 2009) è durissimo. E credo che solo chi vive l’esperienza di un figlio con grave disabilità mentale possa confrontarsi per davvero con queste pagine. Se la morte di un figlio è atroce, la vita di un figlio condannato a non approdare ad una piena umanità è insostenibile. Di fronte alla cruda realtà di due bambini “col cervello foderato di paglia”, totalmente incapaci di condividere con gli altri emozioni, giochi, sentimenti, molti genitori potrebbero rifugiarsi nell’illusione. Sì, molti lo fanno, lo so bene io che frequento da anni l’ambiente delle famiglie con figli autistici: si cerca di pensare che “dentro” quella persona, il cui cervello funziona malissimo, ci siano chissà quali mondi di pensiero e sentimento che non riescono a manifestarsi all’esterno… Fournier non si fa alcuno sconto, guarda nell’abisso, e trova tuttavia una strategia per sopravvivere: il sorriso, ironico ma non distaccato, pieno d’amore ma non sciocco.
Mathieu e Thomas sono doppiamente disabili: fisicamente e mentalmente. Mathieu muore a 15 anni, Thomas a trenta è costretto in una sedia a rotelle, e ogni suo residuo legame col mondo si è ormai spento. In brevi frammenti, le 149 pagine del libro tracciano un percorso esistenziale il cui senso è solo una radicale e vana interrogazione. A tratti, a suo modo Fournier sfiora una giobbica contesa con Dio. Fin dall’inizio, quando scrive parole in cui mi rispecchio tutti i giorni: “Non sono stato un buon padre. Spesso non riuscivo a sopportarvi, non era facile amarvi. Con voi ci voleva la pazienza di un santo, e io non sono un santo” (p.8).
Dopo una breve vita di pene, nemmeno illuminata da ciò che può dar luce ad un essere umano, Mathieu muore a 15 anni. E scrive Fournier: “Non bisogna credere che la morte di un bambino handicappato sia meno straziante. È straziante quanto la morte di un bambino normale.
È terribile la morte di chi non è mai stato felice, di chi ha fatto una veloce puntata qui sulla Terra solo per soffrire” (p. 88).
Alla fine è la stessa identità del padre a risultare sovvertita. “Quando uno ha dei figli che giocano con l’orsacchiotto e con le costruzioni per tutta la vita, in un certo senso resta sempre giovane. Non sa più tanto bene chi è. (…) Mi ostino a scrivere e dire sciocchezze. La strada che ho preso non porta in nessun luogo, la mia vita finisce in un vicolo cieco” (pp. 148 – 149). Difficile comprendere la potenza di destabilizzazione che può sviluppare l’handicap mentale dei figli senza averlo provato direttamente. Questo libro può forse in parte illuminarla. Certo non la può esorcizzare, e il riso amaro dell’umorista Fournier è solo un palliativo.
Terribile! Non ho letto il libro e fortunatamente non conosco “dal vivo” i problemi di un figlio con handicap, ma ho figli e mi immedesimo in ciò che scrive l’autore, tramite i tuoi brevi ma incisivi commenti. E’ disumano assistere un figlio che non sarà mai “normale”. Il pensiero del dopo e del domani è addirittura fuori da ogni immaginazione umana. Quando mi capita di osservare dei ragazzi con handicap, specialmente mentali, ringrazio Dio per avermi risparmiato un dolore così grande. Non ci sono parole adatte a consolare un genitore della perdita di un figlio, in quel caso forse l’unica consolazione è che non soffrirà più.