Inizio di un’amicizia

col Gallas

La mia amicizia con Alberto Gallas iniziò così

Per tutto il corso della nostra lunga amicizia, iniziata nel maggio 1968 e mai interrotta, Gallas ed io ci siamo sempre chiamati per cognome. Anche in questo ricordo, dunque, lo chiamerò come sempre, Gallas.

La nostra reciproca conoscenza risale all’anno scolastico 1961-62, quando frequentammo la prima media nella sezione i della scuola media Francesco Morosini di Venezia, una sezione in cui si studiava la lingua inglese (era una scelta delle famiglie non ancora comune, a quei tempi). La nostra era una sede staccata della scuola, in campo San Maurizio, in un antico palazzo che fronteggiava un altro palazzo, quello in cui aveva sede l’Azione Cattolica veneziana, con la FUCI, di cui entrambi saremmo diventati membri. Il Gallas di quegli anni lo ricordo in giacca e cravatta, come in seguito lo avrei visto molto raramente. Nel 1974, quando ci laureammo in filosofia a Padova nello stesso giorno, mi chiese in prestito la cravatta che indossavo, perché lui era arrivato senza. Ma alle medie il regolamento imponeva a tutti gli studenti della Morosini giacca e cravatta, e così il Gallas di allora appare alla memoria vestito in modo assai più formale di quello degli anni successivi. La mia conoscenza di Gallas, tuttavia,  inizia con un’assenza, anzi una serie di lunghissime assenze. Lui soffriva di asma, e per lunghi periodi doveva restarsene a casa. Così, a quel cognome, che per la prima volta sentii pronunciare la mattina del 1 ottobre 1961, quando ci fu l’appello generale per tutte le classi della sezione staccata, trovandolo anche un po’ strano, per lungo tempo corrispose nella mia mente un’evanescenza, una instabilità, cioè esattamente il contrario di quello che si manifestò poi, nella solidità dell’amicizia come della presenza reale di Gallas nella mia vita. Durante i tre anni delle medie, non fu tra i miei amici, e nemmeno tra i compagni con cui avevo rapporti. Anche perché lui veniva da lontano, da una zona di Venezia che non frequentavo e conoscevo male, un sestiere marginale, Castello. Per di più, era esonerato dalle lezioni di educazione fisica, che costituivano un momento forte di socializzazione tra noi ragazzi, anche perché nel palazzo antico in cui facevamo lezione, in cui ogni aula era riscaldata da una stufa a legna di terracotta, non c’era la palestra, e noi dovevamo ogni volta andare in quella del liceo Marco Polo, attraversando il Canal Grande  sul ponte dell’Accademia, parlando e scherzando tra noi. Lui non c’era.

Nel giugno del 1964 la mia classe doveva sostenere la prova di italiano dell’esame di terza media nella sede principale della scuola, che era in un altro vecchio palazzo, lontano, in cui ero stato una sola volta. Salii sul vaporetto dal pontile della Salute, vicino a casa mia, e mi imbattei in Gallas, accompagnato dalla sorella. Veniva dal suo pontile, quello dei Giardini, e il suo viaggio era dunque più lungo del mio. Molte erano le fermate che ci separavano da quella di San Stae, nostro punto d’arrivo, e così per la prima volta chiacchierammo a lungo. Non parlammo di scuola, ma delle nostre prossime vacanze. Così scoprii che Gallas amava moltissimo la montagna, come me, con la differenza io prediligevo i boschi, e lui le rocce e le cime. Scoprii anche che era fortemente legato al paese di Castel Tesino, nel Trentino, in cui la sua famiglia prendeva ogni anno in affitto un appartamento per due mesi. Mi parlò di Cima d’Asta, e delle lunghe camminate in salita, delle ascensioni, del rifugio Ottone Brentari, e di tutto quello che lui faceva in quei due mesi. Erano luoghi che non conoscevo, perché noi andavamo in vacanza altrove, ma anche per me come per Gallas quei due mesi nella natura montana erano una specie di paradiso. Appresi anche che Gallas odiava il mare, che aveva la pelle bianca e si scottava, e che non sapeva nuotare. (Anni dopo avrei tentato di insegnargli a tenersi almeno a galla, con esito nullo. Non avrebbe mai imparato, sostenendo anzi di avere un peso specifico superiore a quello degli altri umani, per cui affondava come un piombo.) Dopo quel viaggio in vaporetto, non ebbi più contatti con Gallas.  Ci iscrivemmo entrambi al liceo Marco Polo, io però nella sezione ginnasiale A, maschile, lui nella sezione C, mista. Esisteva anche una sezione B, femminile, e nella formazione delle prime liceo rimanevano infine solo le sezioni A e B, che diventavano miste mentre la C spariva. C’era una forte selezione. Dunque, mi ritrovai con Gallas nella classe IA del liceo. Ma ancora non diventammo amici.

Avvenne in quattro tappe. La prima nel maggio 1968, nel clima rovente di allora. Nella mia classe i cattolici dichiarati erano pochi, Gallas faceva parte di un raggruppamento studentesco che si ritrovava a San Maurizio nella sede della FUCI, e si chiamava GSM (Gruppi Studenti Medi). Si trattava di una sorta di pre-FUCI, gli assistenti ecclesiastici erano gli stessi. Gallas mi invitò ad entrare nel gruppo, e io lo feci. Questo suo invito fu assolutamente decisivo per l’orientamento della mia esistenza, anche se lui non poteva allora rendersene conto. Come molti ragazzi della mia età, la religione che mi era stata insegnata non mi soddisfaceva assolutamente, e avevo bisogno di qualcosa di adulto e ricco di pensiero. I GSM e poi la FUCI mi avrebbero dato quello di cui allora avevo bisogno. Io non amavo lo spirito del gregge, e vidi allora in Gallas un’altra persona che non amava lo spirito del gregge. Fu questa la prima base della nostra amicizia.

La seconda tappa fu nel giugno del 1968. In quel mese i GSM organizzarono una gita in montagna. Gallas propose di andare dalle sue parti a Castel Tesino, per raggiungere quel rifugio Ottone Brentari di cui mi aveva parlato quella volta in vaporetto, e pernottare lì. Da Venezia fino in Valsugana col treno (la mitica littorina ondeggiante), poi in autobus fino a Castel Tesino, quaranta ragazzi e due preti. Poi a piedi fino al rifugio. La giornata era orribile, in Valsugana pioveva a dirotto. Si decise di votare se proseguire o meno. Gallas perorò la causa della non rinuncia, e trovò consenso nella maggioranza. Andammo avanti, raggiungemmo il paese e iniziammo la salita per il sentiero. Mentre salivamo, alla pioggia subentrò la grandine. Come un sergente degli alpini, Gallas prese la guida del gruppo, procedendo risolutamente. Dopo la grandine venne la neve. Il gruppo si sgranò. Gallas e altri due o tre erano avanti, io cercai di raggiungerli, e mi separai dal grosso. Mi ritrovai solo, e ad un certo punto la neve coprì il sentiero. Calò la nebbia, e mi sentii perduto. Il caso volle che avessi anche appena letto un racconto di Jack London che narra di un uomo perduto nella tormenta che fallisce nell’accendere il fuoco coi suoi tre fiammiferi e muore assiderato. Io non avevo neppure quelli. Mi misi a correre a casaccio, come un forsennato, e dopo un quarto d’ora mi trovai di fronte il rifugio. Gallas mi venne incontro e mi disse “Tutto bene, caro Brotto?”. “Sono vivo, caro Gallas”. Da quella volta ci chiamammo sempre reciprocamente “caro Brotto” e “caro Gallas”.

La terza tappa fu la più triste. A novembre morì mia madre. Dopo qualche giorno, Gallas mi invitò un pomeriggio a casa sua. Entrambi amavamo la musica lirica. Allora per gli studenti c’era la possibilità di assistere gratuitamente alle prove generali al teatro La Fenice, e Gallas lo faceva regolarmente. Partecipava abitualmente anche ad un concorso riservato agli studenti che assistevano a quelle prove: si trattava di scrivere un testo sull’opera che veniva rappresentata. Il testo migliore veniva premiato con una edizione integrale in LP, e Gallas l’aveva vinta alcune volte. Aveva quindi una bella edizione del Don Carlos, con Boris Christoff, che ascoltammo, e che mi prestò perché potessi riascoltarmela a casa. Mentre ascoltavamo Verdi, parlammo della realizzazione di una rivistina ciclostilata per i GSM, qualcosa di religioso-politico-cuturale. Si sarebbe chiamata, su suggerimento di un nostro compagno, El Scorpion, avrebbe avuto come immagine di copertina uno scorpione, e avrebbe avuto come bersaglio l’ipocrisia sessantottesca dominante. Ma questa è un’altra, lunghissima storia.

La quarta tappa ha a che fare con l’elemento eroico della personalità di Gallas. In quello stesso autunno 1968, Renato Fameli, un nostro compagno di classe che abitava al Lido, ci propose di iscriverci alla società canottieri Diadora, che lui frequentava da tempo, vicina a casa sua, ma lontana da quella di Gallas e lontanissima dalla mia. Ci andammo diverse volte anche nell’anno seguente, e uscivamo in Laguna con un agile “due con”, di cui il poderoso Fameli costituiva la maggior forza propulsiva, mentre Gallas ed io ci alternavamo nei ruoli di secondo vogatore e timoniere. Lo scambio di posto avveniva nel corso dell’uscita, e per effettuarlo ci alzavamo in piedi. Ogni volta la stretta imbarcazione oscillava minacciosamente, e noi rischiavamo di finire in acqua. Io ero poco propenso allo scambio in corso d’opera, ma Gallas pur non sapendo nuotare lo esigeva. Un giorno della primavera del 1969 Gallas ed io arrivammo alla Diadora (occorreva percorrere un tratto in vaporetto e un altro in autobus) e Fameli non c’era. E non c’era nemmeno un canotto adatto a noi due, tranne una stranissima cosa, una sorta di indefinibile incrocio tra un canotto da gara e una canoa indiana, con le estremità rialzate, un posto da vogatore e uno da timoniere, una inaudita “uno con”. Nondimeno, ci imbarcammo in quella cosa. Con l’intenzione, ovviamente, di scambiarci i ruoli durante l’uscita. Ma dove andare? Di solito decideva Fameli, il più esperto di navigazione. Quel giorno dal vaporetto avevamo visto che nel porticciolo dell’isola di San Giorgio, che fronteggia San Marco dall’altro lato del Bacino, era ancorata la nave scuola Giorgio Cini, il veliero sul quale i marinaretti dell’omonimo istituto apprendevano le arti della navigazione. Gallas propose di entrare nel Bacino di San Marco, sempre affollato di ogni sorta di imbarcazioni, e di “forzare” il porticciolo, andando a toccare le murate della vecchia nave. Quando la nostra piccola e lenta barchetta entrò in Bacino incontrò un moto ondoso cui non era avvezza. Dal canto mio, io ero molto preoccupato di ciò che poteva accadere se ci fossimo rovesciati. Sapevo certo nuotare, ma non credevo di essere in grado di salvare una persona con un peso specifico superiore alla norma! Gallas invece non ci pensava assolutamente. Mi resi conto allora che lui, che odiava e sempre avrebbe odiato ogni retorica, aveva un lato di incoscienza eroica. Poseidone ci guardò con favore, e la nostra impresa riuscì: la nostra barchetta con un solo rematore entrò nel porticciolo, e noi toccammo con le nostre mani i vecchi fianchi della Giorgio Cini, e ci allontanammo rientrando incolumi alla base. E l’impresa pose il sigillo alla nostra amicizia, che così sigillata doveva durare.

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2 pensieri su “Inizio di un’amicizia

  1. Lo dice uno che abitava a pochi metri da Gallas, in ramo Schiavona (lui in via Garibaldi, dove suo padre aveva un negozietto di passamanerie). Lo scritto di Fabio è molto bello e per me molto coinvolgente. Conobbi Alberto nella primavera del 1966, quando con don Angelo Favero, cappellano della nostra parrocchia di S. Francesco di Paola, andai con un gruppo di aspiranti, per non so qual motivo, alla basilica di San Marco. In quell’occasione il sacerdote ci presentò questo ragazzo che sulle prime mi parve strano, diverso dagli altri. Lo ritrovai nell’autunno successivo, quando mi iscrissi al “Marco Polo” (lui era già in prima liceo), e questa sua “stranezza” (si vedeva che aveva interessi diversi dai nostri, oggi forse si chiamerebbe Nerd) continuò a darmi ai nervi, finché un giorno addirittura, alla comune discesa dal vaporetto ai Giardini, ci accapigliammo. Quello però fu anche l’episodio della svolta: frequentando a mia volta i GSM, di cui Alberto era presidente, imparai a conoscerlo meglio e ad apprezzarne le doti intellettuali, tanto che di quella rissa mi vergognai e gliene chiesi scusa. Sono stato “successore” di Fabio alla direzione dello “Scorpion” (1970-71), ma devo riconoscere che la bellezza grafica e i contenuti di quell’annata 1968-69 sono rimasti inimitati. Gli episodi della tormenta e della Diadora sono veramente gustosi. L’amicizia con Alberto è durata fino agli anni Novanta: nel 1988, commissario d’esame a Milano, andai a trovarlo nella sua casa di ringhiera (una soffitta, in realtà, ovviamente piena di libri) e vi tornai, con la mia allora fidanzata e ora moglie, nell’ottobre 1995. Eravamo ormai su posizioni molto distanti (non apro qui la parentesi del mio giudizio sull’esperienza GSM-FUCI, assai diverso da quello di Fabio) ma, e questo è ciò che più ricordo, con lui si poteva parlare francamente senza litigare e senza arrabbiarsi: era una persona mite. Mi ha molto addolorato la sua morte così precoce e sono contento che oggi sia generalmente riconosciuto come il massimo conoscitore di Bonhoeffer.
    Un solo dubbio: ma Fameli non era nell’altra sezione del liceo?

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