L’esito relativistico del razionalismo ha tuttavia radici ben salde nell’antico. Scrive Theodor W. Adorno: “Ogni psicologia, a cominciare da quella di Protagora, esaltando l’uomo con l’affermazione che egli è misura di tutte le cose, ha fatto di lui, nello stesso tempo, l’oggetto, il materiale dell’analisi, e, una volta collocatolo tra le cose, lo ha assegnato alla loro nullità [c. mio]. La negazione della verità oggettiva attraverso il ricorso al soggetto include la negazione di quest’ultimo: non resta più nessuna misura per la misura di tutte le cose, che cade in balia della contingenza e si trasforma in falsità”. [Minima moralia, Einaudi, Torino 1979, pp. 64-65]
Il frequente ricorso, da parte di molti letterati novecenteschi, alla psicoanalisi segna l’eclissi di ogni capacità di afferrare la verità sostanziale. Quella scienza infatti “revoca la personalità come menzogna vitale, come la razionalizzazione suprema, che tiene insieme le innumerevoli razionalizzazioni mercé le quali l’individuo opera la rinuncia ai propri impulsi e si adatta al principio di realtà. Ma nello stesso tempo, in questa stessa dimostrazione, essa conferma all’uomo il suo non essere”. [Ibidem]