Dialogo sul senso e sullo scopo del filosofare

                                di Eros Barone

     Il dialogo tra Caio e Mevio (un classico esempio del ‘confilosofare peripatetico’)   scaturisce da una passeggiata attraverso il centro della città ligure, che porta i due amici davanti alla sede di un prestigioso liceo classico,  la cui severa mole littoria occupa uno dei vertici, quello di ponente, di Piazza della Vittoria. Il palazzo della questura, situato nel vertice di levante, delimita la rigorosa geometria di una piazza vasta, solitaria e silenziosa: una piazza, si potrebbe dire, che è non meno dechirichiana per la sua atmosfera di quanto sia piacentiniana per la sua architettura. In mezzo, ortogonali ai due squadrati e imponenti edifici, si elevano due scalinate convergenti che, creando un effetto altamente scenografico, incorniciano quattro grandi aiuole sovrapposte. Sul tappeto verde raso di queste aiuole spiccano fiori bianchi e rossi che, disposti con raffinata arte topiaria, formano, a partire dal basso, le immagini di un’ancora e delle tre caravelle di Cristoforo Colombo.

 Mevio: non credi, mio caro Caio, che a chi pone la domanda su che cosa sia la filosofia si dovrebbe rispondere che la domanda va posta correttamente in questi termini: che cosa fa la filosofia?

Caio: in effetti, ottimo Mevio, tali termini a me paiono quelli più appropriati alla natura e al metodo che caratterizzano questa forma del sapere dopo la svolta linguistica avvenuta nel Novecento con il neopositivismo, con la filosofia analitica e con l’ermeneutica.

Mevio: permettimi allora, sempre a questo proposito, di raccontarti un episodio realmente avvenuto che assume il valore di un apologo e illumina il significato della filosofia intesa come attività di chiarificazione concettuale del nostro linguaggio e come costruzione di produttivi esperimenti mentali.

Caio: condivido la tesi secondo cui la filosofia è una pratica e, dunque, ascolto ben volentieri un aneddoto che illustri tale tesi.

Mevio: si tratta di un episodio che è narrato da Isaiah Berlin in un libro di memorie autobiografiche intitolato «Impressioni personali», ove sono ritratte alcune importanti figure del mondo politico e culturale novecentesco, e descrive una conversazione svòltasi durante una passeggiata fra l’autore e il filosofo inglese John Austin. Berlin avanzò questa ipotesi: «Supponiamo che un bambino esprima il desiderio di incontrare Napoleone così com’era alla battaglia di Austerlitz, e che io gli dica: “Non è possibile”, e che lui mi chieda: “Perché no?”, e che io gli spieghi: “Perché la cosa è avvenuta nel passato, e tu non puoi essere vivo adesso e anche in un tempo così lontano conservando la stessa età”, e che il bambino insista: “Perché no?”; e che io dica: “Perché non ha senso, nel nostro linguaggio, dire che si può essere in due luoghi nello stesso momento o che si può ‘tornare indietro’ nel tempo”; e che questo bambino, molto precoce, obietti: “Se è soltanto una questione di parole, non possiamo semplicemente cambiare il nostro uso del linguaggio? Non basterebbe questo per farmi vedere Napoleone alla battaglia di Austerlitz e anche, naturalmente, per farmi restare come sono, qui e adesso?”».

Caio:  ho sempre pensato che tra i bambini e la filosofia esista un legame profondo costituito dalla capacità di leggere la realtà con uno sguardo autentico, privo di preconcetti e di filtri, e senza disgiungerla dalla possibilità…

Mevio:…«“Ebbene -, domandò infine Berlin a Austin -, che cosa si  deve rispondere a questo bambino? Si può chiudere la questione dicendogli che ha confuso il modo materiale e il modo formale, per così dire?”. Austin rispose: “Non parli così. Dica al bambino di tornare indietro nel passato. Gli dica che non c’è nessuna legge in contrario. Che provi. Provi, e veda che cosa succede”».

Caio: grande Austin! La sua risposta rivela una comprensione perfetta della natura della filosofia, concepita e praticata come esercizio di una razionalità critica che non si ferma alla semplice e banale registrazione dello ‘stato di fatto’, ma, servendosi di ipotesi controfattuali, confronta la realtà empirica con i modelli della realtà e giunge per questa via (la via dell’analisi del linguaggio e dell’esperimento mentale) a scoprire nuove dimensioni, prima insospettate, della realtà e della razionalità.

Mevio: dici bene, Caio. Non a caso, Austin è stato anche un fine studioso del pensiero di Leibniz, ‘il filosofo della possibilità’.

Caio: permettimi ora, diletto Mevio, di provare, come il bambino evocato da Berlin, ad estendere questa stessa tesi, che abbiamo convenuto di stilizzare nella domanda  “che cosa fa la filosofia?”, dal campo della teoria della conoscenza al campo della teoria morale. Per legittimare questa estensione mi baserò su un’esperienza personale che ha però, a mio sommesso avviso, un valore non meramente personale.

Mevio: d’altra parte, carissimo amico, che altro è l’esempio, che sia ricavato da un aneddoto come il mio o desunto da un’esperienza come la tua, se non una efficace mediazione tra l’individuale e l’universale?

Caio: ti ringrazio per la cauzione metodologica che mi fornisci. Ascolta: alla fine degli anni Settanta del secolo scorso prestai il servizio militare a Roma. Nella caserma a cui ero stato destinato i caporali istruttori, nei primi giorni, urlavano in faccia alle reclute e le trattavano in maniera brutale. Lo scopo era quello di farci capire nel più breve tempo possibile che gli ordini non vanno discussi: una tecnica che può contare su millenni di esperienza. L’addestramento ebbe successo, poiché l’essere umano è, come gli antropologi sanno molto bene, un animale altamente plastico. Una sera, il caporale istruttore prese a calci i nostri scarponi anfibi allineati ai piedi del letto e li buttò in un mucchio al centro della camerata. Poi ci ordinò di recuperare immediatamente il nostro paio e noi, senza pensarci, ci buttammo nel mucchio per trovare i nostri anfibi.

Mevio: mi viene da dire di getto che, pur essendo noto che il principio della vita militare è quello di rendere difficile il facile attraverso l’inutile, la prova in apparenza insensata a cui foste sottoposti e a cui deste meccanicamente il vostro consenso era, in realtà, molto utile per abituarvi a una disciplina cieca, pronta e assoluta.

Caio: proprio così. Senza pensarci, ci buttammo nel mucchio per trovare i nostri anfibi. Solo un nostro commilitone, un elettricista di Sassari dall’espressione malinconica, domandò alle nostre spalle: “Ma che, siete impazziti?”. Parlava con calma: “Che state facendo, ragazzi…” Era come deluso: “Non vi rendete conto…” Improvvisamente mi resi conto anch’io e provai un senso di avvilimento, come se avessi partecipato al fallimento della specie umana. Stavo facendo la cosa peggiore, la cosa spiritualmente peggiore che abbia mai fatto nella mia vita.

Mevio: in sostanza, avevi dimostrato a te stesso quanto fosse stato agevole renderti completamente, pavlovianamente sottomesso, anima e corpo…

Caio: sì, e fu una scoperta sconvolgente. Mi ritrassi dal gruppo e mi rimisi in piedi accanto al ragazzo di Sassari. Il caporale istruttore si infuriò con me e con lui e così quella sera le pulizie toccarono a noi. Alcuni mesi dopo venni a sapere che quel giovane sardo era stato giudicato inadatto alla vita  militare e rimandato a casa. Quando ripenso a quel momento capisco che è solo quel momento che conta: non l’educazione morale dei venticinque anni che hanno preceduto quel momento né il racconto che sto facendo ora, trent’anni dopo.

Mevio: ciò che conta, in effetti, è la presenza di spirito che si fa valere in quei pochi secondi in cui vieni messo alla prova, quando tutti gli altri agiscono senza pensarci.

Caio: il giovane elettricista sassarese, di questo sono assolutamente convinto, è il più grande filosofo che io abbia mai conosciuto. La più grande speranza nella specie umana che io possa documentare: non con la teoria, ma con i fatti. È lui l’eroe che mi ha salvato dall’abisso dell’umiliazione, che mi ha tratto fuori dalla cosa peggiore che abbia mai fatto nella mia vita.

    Caio, a questo punto, interrompe il discorso, china la testa pensoso e tace per alcuni interminabili secondi; poi la rialza con una sorta di scatto della volontà e, guardando negli occhi Mevio, gli rivolge a bruciapelo la seguente domanda: «E tu? Qual è la cosa peggiore che hai fatto nella tua vita?».

 Mevio: ecco una domanda che, lo confesso, trovo quanto mai imbarazzante, soprattutto dopo aver ascoltato questa tua testimonianza… D’altronde, se pensassi che l’intento della domanda che mi rivolgi fosse banalmente inquisitorio o, peggio, colpevolizzante, la lascerei cadere. Penso, invece, che debba essere tenuta ben presente perché è uno stimolo intellettualmente e moralmente prezioso, perché mi interpella in prima persona e mi sollecita a unire, come le labbra e i denti, la teoria e la pratica. Alla fin fine, infatti, che altro è la pratica se non l’etica della teoria? Provo pertanto a darti, senza pretendere che siano conclusive, due risposte. La prima la ricavo da una massima di Shakespeare che coniuga per l’appunto, anche se in forma implicita, la teoria con la pratica e con l’etica: “Essere pronti è tutto”. La seconda è un aforisma di Seneca, che mi è molto caro e che credo si possa citare come degna chiusa di questo nostro dodicesimo dialogo: “Philosophia non dicere, sed facere docet” (la filosofia insegna ad agire, non a dire).

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