Dialogo sul senso delle catastrofi

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di Eros Barone

Questa volta, il dialogo fra i due impagabili amici si svolge di pomeriggio, mentre il sole gioca a nascondino con le nuvole, in un parco pubblico ricco di prati ondulati e di alberi nostrali ed esotici da cui salgono e scendono graziosi scoiattoli che sembrano voler approfittare a fini lùdici della pausa che si è venuta a creare nel clima rigido della stagione. Il parco si trova all’inizio della riviera di Levante, è delimitato a settentrione da ripide colline punteggiate di olivi e a mezzogiorno dal mare, la cui superficie, che si intravede al di là delle siepi di pitosforo, fra i rami dei pini marittimi, ha un colore grigio scintillante e appare increspata dal lieve vento di una giornata invernale meno fredda di quelle che l’hanno preceduta.

Caio: buondì, caro Mevio. Ti vedo seduto sulla panchina, ben protetto dal cappotto, dalla sciarpa e dal basco, intento a leggere lo scritto di un autore a noi particolarmente caro. Si tratta, se non leggo male il nome riportato sulla copertina del libro, di Voltaire?
Mevio: sì, mio caro Caio, è il “Poema sul disastro di Lisbona”, che Voltaire, come saprai, scrisse mentre soggiornava a ‘Les Delices’, una villa presso Ginevra, pochi giorni dopo la catastrofe naturale che colpì, il primo novembre del 1755, la capitale del Portogallo. A questo proposito, occorre dare atto a Radio Maria di avere rotto il silenzio della cultura religiosa su un tema scabroso come quello del male che si materializza nelle catastrofi naturali, affermando, come ha fatto un suo conduttore nel corso di una recente trasmissione radiofonica, che il terremoto che sta squassando l’Italia centrale è “la punizione di Dio per la legge sulle unioni civili”. Sennonché, in un’ottica più ampia e non solo teologico-punitiva, il problema che resta irrisolto (forse perché è irrisolvibile o forse perché non è un problema) è quello del senso di queste catastrofi. Può allora essere illuminante, in una materia così oscura, richiamare un precedente storico-culturale molto significativo, ossia la discussione che si sviluppò in Europa in seguito al terremoto di Lisbona del 1755.
Caio: hai ragione. Infatti, è mancato finora un dibattito sul senso di queste catastrofi, così come sul rapporto tra l’uomo e la natura e, per chi crede, sul rapporto tra Dio e il male. Nulla di nemmeno lontanamente paragonabile alla reazione profonda che suscitò nell’opinione pubblica europea il terremoto di Lisbona del 1755. Eppure, se è vero che l’impressione fu molto forte perché ad essere distrutto dall’azione congiunta del terremoto e del maremoto fu uno dei più grandi centri commerciali dell’Europa, una città che, come sùbito affermarono i devoti, meritava di essere punita da Dio perché era corrotta e peccaminosa e nuotava nell’oro brasiliano, è ancor più vero che risulta ben difficile giustificare con l’ottica della nèmesi divina il sisma che il 22 gennaio di questo anno ha distrutto la capitale di Haiti, uno dei paesi più poveri del mondo.
Mevio: in realtà, il poema di Voltaire è il primo grande atto di accusa contro l’ottimismo metafisico e teologico, che lo scrittore francese vedeva incarnato da Leibniz e dalla sua tesi secondo cui il nostro è il migliore dei mondi possibili: non un mondo perfetto, ma il più vicino alla perfezione; non un mondo privo di male, ma un mondo in cui la presenza del male è riscattata e giustificata dall’armonia del tutto. Quindi, era un problema di teodicea, ossia di come si possa giustificare l’operato divino di fronte alla presenza incontestabile del male. Infatti, come aveva già argomentato Epicuro, non si sfugge al trilemma: se Dio non può togliere il male dal mondo, non è onnipotente; se non vuole, non è benevolo; se non può né vuole, non è neppure Dio. Ma se è onnipotente e benevolo, come si deve pensare che sia Dio, perché esiste il male?
Caio: alla luce di queste difficoltà logiche, Epicuro, che tu hai giustamente citato, concludeva negando l’intervento degli dèi nelle vicende naturali e umane: è una posizione definibile come ateismo pratico. Altri pensatori concludono che forse Dio non è onnipotente; altri inferiscono invece che non è onnisciente o addirittura che non è infinitamente buono; altri ancora negano l’esistenza di Dio. Ciò naturalmente non significa che non si possa tener ferma la credenza nell’esistenza di un Dio onnisciente, infinitamente buono e onnipotente. Soltanto che per una tale posizione la ragione, da sola, non basta: occorre la fede.
Mevio: il tuo ragionamento è inoppugnabile. Lo stesso Voltaire, che non ha una risposta a queste domande, sente il dovere di opporsi a tutti coloro che pretendono di dare un senso a ciò che non ne ha. La ragione gli suggerisce un pessimismo scettico, che non esclude però l’unico ottimismo possibile, quello della speranza. Senti questo passo del poema: “‘Un giorno tutto sarà bene’, ecco la nostra speranza; / ‘tutto è bene oggi’, ecco l’illusione”.
Caio: a questo punto, ottimo Mevio, l’impostazione data al problema da Voltaire rischia di condurre, per eccesso di pessimismo, ad una sorta di inerzia, dal momento che la speranza sembra coincidere con la fede e, come suggerisce il ‘principe degli illuministi’, ne condivide il carattere, ad un tempo, illusorio e consolatorio. D’altra parte, se ben ricordo le lezioni di catechismo ricevute durante la mia fanciullezza, la religione cattolica pone la speranza, insieme con la fede e con la carità, nel nòvero delle virtù teologali.
Mevio: l’unica alternativa all’inerzia socialmente conservatrice cui conduce il pessimismo scettico di stampo volterriano, caro il mio Caio, è la rivalutazione della speranza, quale emerge dalla risposta che Rousseau diede dopo aver ricevuto, assieme a Diderot e d’Alembert, una copia del poema: risposta che fu ovviamente sconcertante per l’autore di tale poema. La “Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona” conteneva infatti un attacco durissimo: il pessimismo, osservava Rousseau senza mezzi termini, se lo può permettere chi, ricco e tranquillo, disquisisce di tale tema nei salotti (come Voltaire), ma per i poveri e gli infelici l’idea che esista un mondo guidato dalla provvidenza è l’unica consolazione.
Caio: nella posizione di Rousseau mi sembra, tuttavia, più apprezzabile l’attacco al pessimismo dei ‘beati possidentes’ che non l’apologia della divina provvidenza…
Mevio: d’accordo. È però interessante il modo in cui Rousseau imposta la questione, quando afferma che il problema non è Dio, ma l’uomo. La tesi che sostiene lo scrittore ginevrino è che la maggior parte dei mali naturali da cui siamo afflitti sono prodotti da noi stessi. Se ci pensi bene, Voltaire è ancora legato alla tematica classica della teodicea, mentre Rousseau esprime un punto di vista nuovo. Un punto di vista che, promuovendo la progressiva laicizzazione della speranza, ha condotto l’umanità a prendere coscienza del rapporto fra la natura e la società, realizzando e applicando, con l’aiuto della scienza e della tecnologia moderne, quei sistemi di prevenzione che permettono di controllare gli eventi naturali e di ridurne al minimo le conseguenze potenzialmente micidiali per l’uomo. La nostra laica e razionale speranza ha oggi questo nome: controllo sociale sull’uso della scienza e della tecnica per prevenire e minimizzare le conseguenze delle catastrofi naturali sulla vita di tutti gli uomini. All’origine di questa diversa ottica vi sono, per ragioni che possono essere considerate dialetticamente complementari, sia la tesi pessimistica di Voltaire, che colpisce l’ottimismo metafisico e teologico, sia la tesi umanistica e sociale di Rousseau, che colpisce il lato nichilistico e aristocratico di quel pessimismo.
Caio: possiamo allora, stimatissimo Mevio, trarre dalla nostra discussione odierna la seguente conclusione: che il terremoto di Lisbona è stato un vero spartiacque nella nascita dell’età moderna, perché fu l’ultima volta in cui la provvidenza divina e la teodicea furono poste al centro di un dibattito pubblico in cui si impegnarono le menti più notevoli del tempo, ma fu anche l’ultima appassionata protesta contro l’ingiustizia divina. Un’ingiustizia che viene, fra l’altro, esplicitamente rivendicata in quel versetto del vangelo che recita così: «A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Le durissime prove a cui sono sottoposte le regioni dell’Italia centrale e, in particolare, l’Abruzzo non sono forse una perfetta esemplificazione del contenuto di questo passo evangelico?
Mevio: in effetti, mio caro Caio, quel versetto, comunque lo si interpreti, è paradossale. Sennonché, riprendendo le tue conclusioni, possiamo ricavarne questo importante corollario: la questione della giustizia (o dell’ingiustizia) divina è divenuta intellettualmente irrilevante nella tradizione culturale che si è storicamente affermata, anche se, di fronte all’analfabetismo etico di massa e al silenzio teologico, che dòminano l’Occidente, meriterebbe forse di essere ripresa da coloro che hanno la responsabilità della educazione religiosa dei credenti e riproposta nel dialogo con i diversamente credenti e con i non credenti. È comunque indubitabile che dalla metà del Settecento in poi la responsabilità delle nostre sofferenze è stata cercata esclusivamente negli uomini e nel modo in cui essi, da un lato, organizzano la loro vita sociale e, dall’altro, gestiscono quello che il filosofo di Trèviri chiamava “il ricambio organico con la natura”.

Dialogo sulla dicotomia tra destra e sinistra nel tempo presente

 

 di Eros Barone

 Parte prima

Caio: carissimo Mevio, oggi, nel riprendere i nostri conversari sullo stato presente del nostro paese e sulle prospettive di quel ‘movimento reale’ che ci sta molto a cuore per la buona ragione che ‘abolisce lo stato di cose presente’, ti propongo, a distanza di due anni dalla catastrofe politico-elettorale della sinistra comunista e all’indomani della manifestazione nazionale della Fiom-Cgil per i diritti, la democrazia, la legalità, il lavoro e il contratto, un motto meritamente celebre, che forse può essere assunto come epigrafe del momento attuale: “È quando il gioco si fa duro che i duri cominciano a giocare”. Continua a leggere

Dialogo sul senso e sullo scopo del filosofare

                                di Eros Barone

     Il dialogo tra Caio e Mevio (un classico esempio del ‘confilosofare peripatetico’)   scaturisce da una passeggiata attraverso il centro della città ligure, che porta i due amici davanti alla sede di un prestigioso liceo classico,  la cui severa mole littoria occupa uno dei vertici, quello di ponente, di Piazza della Vittoria. Il palazzo della questura, situato nel vertice di levante, delimita la rigorosa geometria di una piazza vasta, solitaria e silenziosa: una piazza, si potrebbe dire, che è non meno dechirichiana per la sua atmosfera di quanto sia piacentiniana per la sua architettura. In mezzo, ortogonali ai due squadrati e imponenti edifici, si elevano due scalinate convergenti che, creando un effetto altamente scenografico, incorniciano quattro grandi aiuole sovrapposte. Sul tappeto verde raso di queste aiuole spiccano fiori bianchi e rossi che, disposti con raffinata arte topiaria, formano, a partire dal basso, le immagini di un’ancora e delle tre caravelle di Cristoforo Colombo. Continua a leggere

I fatti del 1960

Ricordando l’insurrezione popolare antifascista del 1960

di Eros Barone

“…A diciannove anni è morto Ovidio Franchi
per quelli che son stanchi o sono ancora incerti.
Lauro Farioli è morto per riparare al torto
di chi si è già scordato di Duccio Galimberti…”

Fausto Amodei, Canzone per i morti di Reggio Emilia, 1961.

Cinquant’anni fa vi fu un passaggio decisivo nella storia del nostro Paese. In un certo senso, ciò che accadde, l’insurrezione popolare antifascista, la “nuova Resistenza”, bisognava che accadesse; ciò che invece allora sfuggì alla capacità di previsione di tutti gli osservatori della realtà italiana fu l’erompere, a fianco (ma anche più avanti) del movimento operaio e di quello antifascista, di un possente movimento giovanile: la generazione delle ‘magliette a strisce’. A distanza di soli quindici anni dalla fine della seconda guerra mondiale e della Resistenza, l’Italia aveva infatti condotto a termine la ricostruzione e conosceva un grande sviluppo economico, ma soffriva ancora a causa del permanere, sia nello Stato sia nella società civile, di sovrastrutture giuridiche, politiche e culturali che risalivano al periodo del fascismo. Continua a leggere

Friedrich Engels: un esempio da seguire

Friedrich Engels: un esempio da seguire, un pensiero da usare*
di Eros Barone

Leggendo l’appassionante e documentata biografia intitolata «La vita rivoluzionaria di Friedrich Engels», che lo storico inglese Tristram Hunt ha dedicato recentemente a colui che è stato, assieme a Karl Marx, il cofondatore del socialismo scientifico, mi è tornato in mente, per contrasto, il commento che fu espresso da Fausto Bertinotti sulla scelta del Partito democratico, quando questo, in occasione della campagna elettorale del 2008, scelse di abbinare alla candidatura di un imprenditore la candidatura di un operaio: un commento (“uno dei due è di troppo”) che implicitamente poneva la questione del rapporto tra origine sociale e orientamento politico. Continua a leggere

La lotta!

di Eros Barone

   È possibile far risorgere un uomo sepolto nella sua icona? Francis Wheen con la biografia che ha composto sul fondatore del socialismo scientifico, «Karl Marx – Vita pubblica e privata», Milano 1999, biografia che resta una delle descrizioni più efficaci, limpide e spregiudicate della personalità e dell’opera del pensatore tedesco, è pienamente riuscito in questa impresa non facile, attingendo, per un verso, a una documentazione vasta e originale ed evitando, per un altro verso, sia la Scilla dell’agiografia sia il Cariddi della demonizzazione. Continua a leggere

Il cantore dell’epopea popolare e democratica degli alpini

  di Eros Barone 

   La figura di Mario Rigoni Stern, scrittore di Asiago morto nel 2008 all’età di 86 anni, è legata indissolubilmente a quel capolavoro della narrativa basata sulle memorie di guerra, che è “Il sergente nella neve” (sottotitolo: “Ricordi della ritirata di Russia”). Il racconto, scritto tra il 1944 e il 1945 e pubblicato nel 1953, si divide in due parti, “Il caposaldo” e “La sacca”, e narra  le vicende dell’autore, sottufficiale degli alpini, impegnato sul fronte russo e successivamente nella terribile ritirata dell’inverno 1942-1943. La prima parte descrive la guerra di posizione, scandita dai riti caratteristici della vita militare: il rancio, la posta, gli sfoghi nostalgici tra i commilitoni sui paesi di provenienza, il cameratismo, la pulizia delle armi. Spiccano i volti di tanti compagni che via via si andranno sempre più assottigliando, ognuno còlto in un particolare atteggiamento o attraverso un’espressione dialettale, come Giuanin, la cui ricorrente domanda: “Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”, è il ‘Leitmotiv’ del libro. In questa parte del racconto, accanto alle descrizione del paesaggio, la pianura russa dominata dal “Generale inverno”, più severo e incombente che mai, prendono spesso risalto squarci di altre realtà, come quella lontana e familiare delle vallate alpine e quella della stessa terra russa, quale si indovina sotto il manto uniforme della neve, e tanto simile all’altra nel mondo contadino che la pòpola. Quando giunge l’ordine della ritirata, quel microcosmo militare fatto di cose povere e di sentimenti semplici diviene quasi oggetto di un assurdo rimpianto: “Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontanavano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era il tetto di un’isba giacevano calze sporche, pacchetti vuoti di sigarette, cucchiai, lettere sgualcite: sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini”. Continua a leggere

Un sogno

di Eros Barone

…Me non asperse
del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl’inganni e il sogno
della mia fanciullezza…

 Giacomo Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 62-65. 

    Il dialogo, ma forse sarebbe più esatto dire il racconto che Caio fa a Mevio di un suo sogno, si svolge durante le ore meridiane sulle cime erbose delle alture che cingono la città, da cui si può contemplare, simile ad una donna matura e formosa distesa sulla spiaggia a prendere il sole, il fitto abitato che sale lungo le pendici delle colline e il porto irto di gru e di silos con i grandi moli e gli imponenti bacini, fra cui spiccano le motonavi alla fonda. Più in là, racchiusa dall’ampio arco del golfo, domina la visuale la massa verde-azzurra del mare luccicante di mille riflessi, che si confonde all’orizzonte con la spuma vaporosa delle nuvole. Un lieve venticello, che spira tra le felci, i pini solitari e i radi olivi, porta con sé, assieme a un sentore misto di salsedine e di profumi esotici, i rumori, attutiti e quasi ridotti a sussurri, della vita operosa che ferve nella città mediterranea. Continua a leggere

Dialogo sulla crisi dell’unità italiana ed europea

di Eros Barone

I nostri due amici, Caio e Mevio, approfittando di una delle prime, tardive giornate di sole offerte da questa avara primavera, passeggiano lungo la via Aurelia a Genova, in prossimità del monumento di Quarto dei Mille. Il luogo storico e il momento politico impongono, con la loro forza simbolica e concreta, il tema della conversazione.

Caio: gli eventi che si sono susseguiti in queste ultime settimane hanno messo a nudo il tarlo che rode l’unità nazionale del nostro paese. Non credi, Mevio, che questo sia, per le sue dimensioni e implicazioni, il principale problema dell’Italia e una delle più gravi responsabilità politiche che lascia dietro di sé Berlusconi? Continua a leggere

Dovuto a Edoardo Sanguineti

 

 di Eros Barone

Apprendere la notizia della sua scomparsa e sentirmi mancare il terreno sotto i piedi è stato tutt’uno. Il vuoto lancinante che Edoardo Sanguineti ci lascia è però un pieno straordinario di umanità e di cultura, perché, ora che è tornato a quel nulla con la ‘n’ minuscola che egli amava evocare nelle sue poesie e nelle sue prose, è possibile comprendere che ricostruire la sua carriera di poeta e intellettuale militante significa ricostruire non solo la cultura letteraria, ma anche la cultura politica della seconda metà del Novecento. Continua a leggere