Quando un Paese si trova davanti ad una grave crisi, che rischia di frantumarlo, chiama a raccolta tutte le sue forze. Sempre si rivolge con la memoria a momenti del passato, in cui tutta la nazione ha fatto fronte comune, in cui tutti si sono uniti contro un nemico, e insieme hanno superato la crisi. Le nazioni hanno qualche episodio di unità nella lotta a cui possono ancorarsi. Ma l’Italia?
Negli ultimi decenni, il momento di resurrezione nazionale celebrato, il punto di riferimento, è stato la Resistenza. Il fatto è che la Resistenza non è stata un’esperienza di unità, ma di divisione. Per tre motivi. Anzitutto perché ha spaccato il Paese tra fascisti e antifascisti. In secondo luogo perché è stata anche un’esperienza di coinvolgimento parziale della nazione: il Sud da Napoli in giù non vi ha partecipato affatto. In terzo luogo, perché, esattamente come il Risorgimento, ha diviso l’Italia tra una maggioranza passiva, che è rimasta a guardare, e una minoranza attiva, divisa tra due fronti. La maggioranza attiva era comunque tutta al Centro-Nord. Ergo, essa non può essere un modello per il presente, in nessun senso… O forse lo è, in un certo modo, per la Lega.
Tutto giusto, ma è vero anche che all’interno di un quadro piuttosto desolante la Resistenza italiana, per quanto parziale, sia stata il più importante e massiccio atto di ribellione al “mostro” che paralizzava di paura l’Europa (incredibile , a mio parere, che 6 milioni di Ebrei si siano fatti ghettizare e poi ammazzare senza abbozzare almeno un tentativo di ribellione se non qualche piccola, isolata sommossa).
E’ stato un atto più epico che storicamente determinante, ma proprio a causa di quest’aura epica,difficilmente attribuibile ad altre esperienze del popolino italico,è stato celebrato spesso a sproposito.
Trovo sorprendente, per la fragilità e la parzialità delle argomentazioni con cui viene proposto, il revisionismo antirisorgimentale e antiresistenziale dell’amico Brotto, il quale, nel sottolineare i limiti di questi due eventi fondativi della nazione italiana, limiti peraltro comuni agli eventi fondativi di altre nazioni (dalla rivoluzione inglese e americana a quella francese e russa), forse si è proposto di svolgere una funzione demistificatrice.
In realtà, è opportuno, in primo luogo, precisare che lo spazio sociale e ideologico della Padania coincide con quello della repubblica di Salò e, in secondo luogo, riportare una pagina particolarmente illuminante tratta (non dai libri di un Pietro Secchia o di un Giorgio Bocca ma) dalle memorie di un partigiano cattolico che, essendo stato un esponente di primo piano della Democrazia Cristiana e avendo fatto parte di numerosi governi, è stato anche un protagonista dell’Italia repubblicana.
La pagina è tratta dalla raccolta delle carte di Paolo Emilio Taviani, “Politica a memoria d’uomo”, il Mulino, Bologna 2002, ove, fra una mèsse di dati e osservazioni assai interessanti sul periodo che va dalla Resistenza armata contro il nazifascismo sino agli anni Novanta del secolo scorso, è dato riscontrare, a pagina 60, il seguente giudizio sul revisionismo:
«Qualche revisionista ha scritto che nella Resistenza non fu impegnato il popolo italiano, bensì una esigua minoranza.
599.060 sottufficiali e soldati e 14.033 ufficiali vennero internati nei lager. Resistettero alle proposte di entrare a far parte dell’Esercito tedesco o di quello repubblichino di Salò. Ridotti spesso a larve umane, resistettero con dignità. 40.000 morirono.
I partigiani combattenti sul territorio nazionale furono 310.000.
I combattenti del Cil (Corpo italiano di liberazione), risorto esercito nazionale, furono 200.000, 20.000 i caduti.
I partigiani caduti in combattimento in Italia furono 44.720, mutilati e invalidi 21.168.
I civili uccisi per rappresaglia 9.980.
Il maggior numero di partigiani caduti si ebbe nel Veneto: 6.006; il maggior numero dei civili massacrati nella Toscana: 4.461.
Fra i resistenti all’estero i caduti furono poco meno di 40.000: 10.260 caduti a Cefalonia e a Corfù (Divisione Acqui); 8.800 nelle isole del Dodecaneso; 2.000 in Albania; 3.300 in Grecia; 14.000 in Montenegro; 3.000 in Jugoslavia.
Non è possibile quantificare la gente che ci proteggeva, sosteneva, aiutava.
È peraltro certo che molti di noi siamo ancora vivi, proprio perché non eravamo minoranza.»
Solo tre precisazioni: 1) non sono affatto interessato ad un “revisionismo antiresistenziale”, anche perché ritengo che resistere ad ogni forma di totalitarismo sia eticamente doveroso. A quello nazifascista come a quello comunista. 2) La rivoluzione russa non mi pare fondativa della nazione russa, ma dello Stato sovietico, e in ogni caso oggi moltissimi russi la ritengono un evento calamitoso, e non è un evento quindi su cui possa unificarsi la nazione, esattamente come la Resistenza italiana e a differenza dalla Rivoluzione americana. 3) Lei giustamente scrive che il maggior numero di partigiani caduti si ebbe nel Veneto. Appunto: e il Veneto non è mai stato una regione rossa, ma prima bianca e ora verde. Significa qualcosa, o no?
Ringrazio Brotto per la sua pacata replica, di cui mi piace porre in risalto, relativamente alla prima delle sue precisazioni, la denegazione dell’intento revisionista antiresistenziale. Riguardo alla seconda precisazione, mi limito a far osservare che, se oggi la rivoluzione del 1917 non è più considerata l’evento fondativo dello Stato russo, ha sicuramente un valore fondativo la Grande Guerra Patriottica contro il nazifascismo e la conseguente vittoria pagata con un tributo di sangue di oltre venti milioni di morti: una guerra ed una vittoria che sono figlie della rivoluzione, essendo state realizzate grazie alla direzione del partito comunista e ai sacrifici di un popolo che si riconosceva pienamente in esso. Inoltre, se fosse vero che la rivoluzione del 1917 ha completamente perso il suo valore fondativo, sarebbe difficile spiegare la permanenza del mausoleo di Lenin nella Piazza Rossa, monumento di altissimo valore simbolico che viene ancor oggi visitato da milioni di russi e che nessun governo post-comunista ha osato demolire. Riguardo alla terza precisazione, ritengo che sia un paralogismo l’equazione, che Brotto enuncia con ottica un po’ venetocentrica, fra il numero di partigiani morti in Veneto (che certo non erano né tutti veneti né tutti democratici cristiani) e l’orientamento politico, prima bianco, cioè democristiano, e poi verde, cioè leghista, di questa regione. Sono ordini di grandezza differenti, che non possono essere equiparati in modo semplicistico. Ribadisco infine il valore euristico che va riconosciuto all’analogia tra la Padania e la Repubblica Sociale Italiana, analogia che ha, ‘mutatis mutandis’, un fondamento sociale (la base di massa è la stessa, vale a dire la piccola borghesia), un fondamento territoriale (la Rsi comprende all’inizio il Centro-Nord, poi si restringe al solo Nord), un fondamento internazionale (allora la Rsi era uno Stato-fantoccio al servizio del nazismo hitleriano, così come oggi si fa sentire sulle spinte secessionistiche, soprattutto dal punto di vista economico, l’influenza oggettiva della Germania e del suo mercato) e, ‘last but not least’, in modo larvato e talvolta aperto, un fondamento ideologico (il razzismo differenzialista e il comunitarismo organicista, pronti a sfruttare, ‘et pour cause’, i lavoratori immigrati sul piano economico quanto ad escluderli sul piano dei diritti civili, sociali e politici).
Lo stato russo? Mi risulta che esistesse anche prima della Rivoluzione, come del resto la nazione russa. Forse c’è un po’ di confusione tra Russia e Unione Sovietica. Mi risulta che Stalin quando ci fu l’attacco hitleriano abbia fatto appello agli antichi valori del popolo russo, fu richiamata la memoria di Kutuzov contro Napoleone, ecc. ecc. (a inveramento della mia tesi: quando c’è crisi ci si rivolge a episodi di vittoria unitaria del passato).Del resto, l’esercito russo inizialmente fu liquidato perché Stalin aveva sterminato i generali migliori. L’Unione Sovietica si salvò per il valore del popolo russo, nonostante i comunisti.
Quanto allo status attuale della memoria della Rivoluzione, pensare che sia un segno di unità significa semplicemente ignorare tutto di un Paese che ha fatto sparire il nome di Leningrado (nonostante l’eroismo della resistenza all’assedio nazista) tornando a San Pietroburgo! Sulla polemica circa la RSI non dico nulla, trovo il discorso infondato e stucchevole. Intendevo dire che nel Veneto c’è stata una resistenza non inferiore a quella dell’Emilia Romagna, ma questa è diventata comunista, il Veneto democristiano. E questo è innegabile. Ma tra un comunista convinto e un convinto anticomunista il dialogo è possibile solo fino ad un certo punto.