In una serie di post presenterò la traduzione di una recensione critica di Simon Watson al libro di Richard Dawkins The God Delusion (2006, trad. it. L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori 2008). La critica di Watson è comparsa sull’ultimo numero di Anthropoetics col titolo “Review Essay: Richard Dawkins’ The God Delusion and Atheist Fundamentalism”.
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Nel suo best-seller del 2006, L’illusione di Dio, Richard Dawkins presenta un’argomentazione contro “Dio” che rispecchia la retorica usata dai fondamentalisti religiosi che si propone di criticare. Anticipando l’accusa di “fondamentalismo”, Dawkins sostiene che egli non è un fondamentalista, perché non prevede la violenza contro i suoi avversari (282). Eppure egli ritiene che la ridicolizzazione sia una valida forma di discorso, e usa immagini di malattia per descrivere il religioso (34, 176, 186, 188, 193-4). Il suo linguaggio è dunque di divisione, dipinge il mondo in toni di bianco e nero, bene o male. Al contrario della “irrazionale” religione, che è un” vizio” e un “veleno” (e i suoi seguaci illusi se non folli), la scienza e la ragione sono illimitate nel loro potenziale di discernere la verità e indirizzare la razza umana verso una morale ( 5, 6, 20, 23, 374, 262-272). Utilizzando tale retorica, L’illusione di Dio sembra avere qualcosa di religioso nel suo intento di convertire il lettore all’ateismo: “Se questo libro funziona come intendo, i lettori religiosi che lo apriranno quando lo metteranno giù saranno atei”(6). Dawkins sostiene anche che egli non è un fondamentalista perché non basa le sue convinzioni su un’interpretazione letterale di un libro sacro, anzi, fonda le sue conclusioni su “evidenze che si rafforzano reciprocamente” (282). Ma come il fondamentalista cristiano che travisa e semplifica eccessivamente la scienza evoluzionistica darwiniana, Dawkins ci presenta una “religione” fantoccio, monolitica e semplicistica, che egli denigra e diffama. Generalizzando dall’estremismo religioso e dal fondamentalismo a tutta la religione, Dawkins dimostra una sordità all’altro religioso e una incapacità di uscire dalla sua “Teoria del Tutto” darwinistica, i cui parametri sono limitati al dichiarativo empirico (144).
Credo che l’ingenuità di Dawkins sia soprattutto psicologica: immagina che, una volta acquisite le cognizioni necessarie, il bisogno dell’idea di Dio cessi automaticamente negli altri soltanto perchè così gli sembra essere accaduto in lui, e nei propri “affini”, che assimila implicitamente a modello universale. E’ ingenuo perchè sembra non accorgersi che, una volta trasportato aldilà della “barriera di Dilthey”, ogni suo modello può venire “ampliato” e quindi ridotto e ribaltato. Lì può anche aver ragione il vecchio vescovo Berkeley, non c’è nulla che possa impedirlo, per quanto possa sembrare inverosimile a tipi come lui.
«Una sordità all’altro religioso» è ciò che anch’io ho spesso notato in taluni atei (generalmente animati da acceso anticlericalismo), ragione per cui sono personalmente convinto che, per dare un contenuto positivo-razionale e critico-dialettico ad un ateismo che sia esso stesso fondato, come richiede la scienza moderna, sul metodo sperimentale, è indispensabile passare attraverso il “torrente infuocato” (vale a dire attraverso la conoscenza e la meditazione dei testi di Ludwig Feuerbach).
Certo, non è un esempio di quella “sordità” l’episodio che desidero segnalare. Così, nel pieno di una crisi economica, finanziaria e politica è sorprendente leggere sulla “Repubblica” un editoriale di Eugenio Scalfari, come quello apparso tre giorni orsono, dedicato ad una conversazione intorno al tema della resurrezione svoltasi il 10 maggio scorso a Gallarate presso la casa di riposo dei Gesuiti.
Da un lato, il “principe dei giornalisti” (come negargli questa qualifica dopo che è scomparso l’unico che prima di lui poteva meritarla, cioè Indro Montanelli?), laico e ateo ma interessato alle questioni della teologia; dall’altro lato, un cardinale, che poteva essere papa, interessato al dialogo con i non credenti, Carlo Maria Martini. Il tema della conversazione è, in apparenza, l’argomento teologico più improbabile: la resurrezione. Scalfari dà inizio al discorso ponendo la questione preliminare del carattere miracoloso della resurrezione; Martini risponde negando tale carattere…
Non riferisco il resto della conversazione, mentre non posso fare a meno di descrivere il commiato fra questi due grandi vecchi, perché mi ha toccato nel profondo per la sua delicata umanità. A Scalfari che, presumibilmente chino su di lui, saluta il cardinale malato, questi tende la mano facendogli una carezza sul volto, che l’interlocutore, ormai divenuto amico, ricambia a sua volta. “Eravamo tutti e due un po’ commossi. Fuori continuava a piovere”, annota, conchiudendo l’articolo, il direttore della “Repubblica”.
Bella immagine Eros, dice molto.