Sto leggendo l’ultimo libro di Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, e su di esso sto ragionando, e il ragionamento si tradurrà in una serie di post. Ma intanto rileggo quello che ho scritto sui primi due libri di Mancuso che ho letto, non secondo l’ordine di pubblicazione, cioè Per amore e Il dolore innocente. Secondo me il pensiero di Mancuso sta seguendo una sua ferrea logica, che non può non portarlo ad Averroè e alla metafisica dell’aristotelismo radicale, sotto un manto modernista. E’ un pensiero molto interessante, dal quale sono lontano, ma con cui occorre confrontarsi. Su Per amore ho scritto:
È un poderoso sforzo del pensiero quello che sviluppa Vito Mancuso nel suo libro Per amore. Rifondazione della fede (Mondadori, Milano 2005). Il sottotitolo dichiara la natura ambiziosa dell’impresa: rifondare la fede cristiana, un proposito da far tremare le vene e i polsi. Mancuso è una rara (particolarmente in Italia) figura di teologo non appartenente al clero. Non credo che un prete potrebbe essere audace nel pensiero come lui, nella Chiesa ratzingeriana e post-wojtyliana. Diciamolo francamente: la maggior parte dei teologi-preti, anche i migliori come Bruno Forte, scrivono libri dottissimi e noiosissimi, libri che non ti scuotono. Libri che ti saziano di sapere accademico. E come sono prolifici, quanto scrivono! Se un teologo ha la fortuna di morire in età avanzata, le sue opere riempiono scaffali interi. Sono per lo più libri, tuttavia, in cui si può anche apprezzare il lavoro del concetto, la sua laboriosa fatica, il suo scavare profonde gallerie o edificare immense strutture, ma ai quali sembra mancare, a volte, l’ossigeno vitale. Nel libro di Mancuso invece si respira, si vedono i problemi che stanno davanti ai cristiani, si capisce che essi debbono prendere decisioni all’altezza dell’epoca. Mancuso dichiara apertamente i suoi legami: tre sono i maestri novecenteschi da cui trae linfa, Dietrich Bonhoeffer, Pavel Florenskij e Simone Weil. Tra di essi a mio avviso il rapporto più forte ma intrinsecamente più problematico è quello con Simone Weil.
Centrale nell’argomentazione di Mancuso è, infatti, l’idea del bene. Un’idea che definirei platonico-weiliana. Egli afferma che la superiorità del cristianesimo sulle altre religioni si fonda sul ruolo assolutamente decisivo che all’interno della dottrina cristiana ha il bene (p. 36). In sostanza, la rifondazione della fede secondo Mancuso può avvenire solo ancorandola all’idea di bene, poiché la fede che nasce dalla grazia perde ogni carattere arbitrario se si comprende la natura della grazia come l’evento gratuito dell’adesione incondizionata al bene in un mondo che, né a livello storico né a livello naturale, conosce in alcun modo la gratuità, ma dove tutto è sempre e solo forza. Il bene, l’idea del bene puro, è ciò che ci muove interiormente a credere in Dio—afferma Mancuso—ed è ciò che ci fa legittimamente ritenere che il mistero di Dio sommo bene sia stato definitivamente e irreversibilmente svelato dalle parole e dai gesti di Gesù. (ibidem). Il carattere fondamentale del mondo è il dominio della forza, e questo è anche il carattere della storia. Natura e storia non appaiono realtà essenzialmente differenti. La forza è il segreto dell’essere (p. 50). E se gli umani, come ogni realtà di questo mondo, stanno sotto il dominio della forza, è a motivo del loro essere energia. Quella dell’energia come realtà unificante la sfera materiale e quella spirituale mi pare l’idea più stimolante—e altresì problematica—di questo libro. Essa lascia aperto, tuttavia, il problema della creazione. Come, infatti, dal sommo bene può essere venuto all’essere un mondo in cui il bene propriamente non c’è, se non nella forma della negazione di ciò che è proprio del mondo, ovvero la forza ed il suo uso ai fini della propria affermazione? E infatti anche la violenza, di per sé, secondo Mancuso, non è il male (p. 287) fino a che non si è colta la realtà dell’altro come un Tu (e cioè fino a che non si può corrompere ed annientare il bene in quanto tale). E anche questo punto mi pare problematico. Sempre che si pensi ad una origine del mondo da Dio (cosa che nel libro non è chiara: vedasi, a pag. 230, senza l’uomo Dio non esiste nel piano superficiale dell’essere […] È la fede dell’uomo che pone l’esistenza di Dio).
Gli uomini, come ogni altra parte della natura, sono energia. Ogni essere umano, come ogni altro ente dell’universo, è un centro di energia. E come tale, attrae o viene attratto a seconda che incontri un centro di energia a lui inferiore o superiore. Forza ed energia sono strettamente correlate. Dovunque, chi è più forte attrae chi è più debole, chi è più debole viene attratto da chi è più forte. Un’energia di pari intensità dà luogo a un equilibrio delle forze (condizione necessaria per la nascita dell’amicizia e dell’amore durevole).
La legge di gravità, che è la legge fondamentale del mondo fisico in quanto «chiave che spiega l’espansione dell’universo», ha un’influenza assolutamente decisiva anche sugli uomini e sul loro comportamento. Così come muove i pianeti e le stelle, la legge dell’attrazione gravitazionale struttura pressoché tutti i rapporti umani, dalla politica alla famiglia, dall’economia alle amicizie. Il sistema solare è un’immagine coerente della situazione umana nella quale pure vi sono stelle, pianeti, satelliti. Già in un gruppo di bambini. Prendete alcuni bambini a caso e lasciateli insieme per una o due ore. Presto vedrete la formazione di un sistema, un piccolo sistema solare, fatto di una stella che attrae a sé i pianeti, alcuni dei quali, a loro volta, avranno anche i loro satelliti. Se capita che di stelle della medesima massa ve ne sia più di una, il sistema si spacca. (p. 45)
Ogni filosofia che non parli dell’essere come forza è falsa, afferma Mancuso (p. 55). Condivido queste parole. Tuttavia, penso che un’attrazione e una forza nei termini in cui ne parla Mancuso restino ancora semplici astrazioni, e presentino un aspetto per così dire eccessivamente meccanico se non vengono declinate in termini di mimesi, che in questo libro affascinante è la grande assente (anche se compare fuggevolmente, con un paio di citazioni di Girard). Ugualmente, mi sembra di capire (vedi pag. 81) che Mancuso pensi alla nascita del religioso come precedente le forme di organizzazione sociale degli umani, come adorazione della forza naturale cui seguirebbe l’adorazione della forza sociale. Impostazione che va rovesciata. L’uomo è sociale in quanto tale, e la prima esperienza della forza è quella della forza dell’altro uomo.
L’errore sta nella teologia della creazione e nella conseguente teologia della storia che vi si lega. L’errore sta nella nozione di governo e nel concetto di un mondo totalmente sottoposto a un Signore onnipotente, un mondo senza libertà, che tale governo suppone. È alla luce della concezione di un mondo totalmente subordinato e governato, che il disordine del mondo viene necessariamente letto come colpa. Ecco il punto: se «governo divino = ordine,» allora «disordine = colpa». Il disordine del mondo, che appare inequivocabile agli occhi, contraddice l’ordine postulato dall’infallibile governo divino, e quindi viene necessariamente interpretato non solo come male oggettivo ma più radicalmente come colpa. Il male è pensato come trasgressione dell’ordine. (p. 118)
Ma l’esistenza di un ordine dell’universo (al di là del disordine apparente) è il presupposto di ogni metafisica. E, in effetti, uno dei problemi più difficili per il pensiero religioso è quello del rendere conto della sofferenza e della violenza legate all’essere nel mondo. Sofferenza che appare già nel mondo animale, e forse ancor prima in quello vegetale. Mi pare difficile osservare la dentatura di uno squalo, di un coccodrillo o di una tigre e rendere lode al Creatore dal punto di vista della preda. Da ciò l’arduo tema della Caduta della Creazione, e la tentazione del dualismo manicheo di cui Simone Weil sentiva fortissimamente il fascino.
> Mi pare difficile osservare la dentatura di uno squalo, di un coccodrillo o di una tigre e rendere lode al Creatore dal punto di vista della preda.
Senza contare che la modalità standard di riequilibrio del numero di predatori rispetto alle prede è la morte per fame.
Molto interessante.
Ripensandoci, il mio commento precedente non è molto corretto (in molti ambienti sarebbe difficile portare a termine una consunzione per fame senza venire predati prima). Rimane il “molto interessante” :-)
Caro Fabio,
ho letto con attenzione la Sua analisi di Mancuso.
La teologia contemporanea, così come la filosofia, è relegata ad accademismo di “copia ed incolla” come va sostenendo Soros – l’economista oxoniense -. In Italia Lei ha constatato che la teologia grande, seria, è esclusiva del clero, e per fortuna non è così: vi sono associazioni che tentano di promuovere – in ambito cattolico e non – un nuovo cristianesimo.
La invito, se avrà piacere e gioia :-) a visitare due cose in rete: il sito http://www.teologhe.org e la mia personale pagina che qui Le ho inserito.
Con viva stima.
Antonio DI GIORGIO