I viali di circonvallazione

3099553-9788845278914Se, come pensa anche Elizabeth Stout, ogni scrittore scrive sempre lo stesso romanzo, Patrick Modiano è forse il massimo esempio di inesausto produttore di variazioni su di un unico tema. Il suo tema è quello di una ricerca di identità, propria o altrui, da parte di un soggetto evanescente, tramite ricordi, indizi, testimonianze sfuggenti, oggetti, luoghi, strade, locali e case. Spesso nei romanzi di Modiano l’identità cercata, e quasi mai ritrovata, è quella di una donna: qui invece è quella del padre dell’io narrante. Le vicende pongono più domande che risposte, come avviene sempre in questo scrittore, e d’altra parte il lettore di Modiano non può certo essere un amante delle trame chiare e distinte. Qui, ne I viali di circonvallazione (Les boulevards de ceinture, 1972, trad. di A.F. Tedeschi, Bompiani 2014) tutto è sfocato e nebuloso. L’unica sicurezza è che il ritrovamento del padre da parte del protagonista avviene dopo dieci anni dalla sua sparizione, avvenuta quando il figlio aveva 17 anni, e che il padre stesso è ebreo, e sembra non riconoscere il giovane, cosa alquanto improbabile. In verità, sicura è anche la cornice temporale: gli anni dell’occupazione tedesca, anni pericolosissimi per ogni ebreo. Nei Viali la dialettica padre-figlio, uno dei cardini del genere romanzesco, è declinata in modo particolare: la figura paterna non è oppressiva, non è soffocante, non è modulata edipicamente, ma è piuttosto quella di un uomo debole, in balia di forze che non riesce a controllare, succube degli altri, che cerca di sopravvivere piegandosi, stando al gioco altrui, con mezzucci ed espedienti. I tutto sull’orlo dell’abisso.

Perché tu non ti perda nel quartiere

copPour que tu ne te perdes pas dans le quartier, 2014, trad. it. di I. Babboni, Einaudi 2015. Questo è un Modiano recentissimo, ma come si sa lo scrittore francese mantiene un’assoluta costanza e continuità dei temi di fondo, e qui abbiamo ancora una volta l’eterno Modiano. Qui il protagonista è uno scrittore settantenne, ma cambia poco: c’è, in aggiunta alla solita nebulosità e inconsistenza delle persone l’incombere della vecchiaia e del particolare oblio che porta con sé. Come se l’irrecuperabilità del passato, e delle persone del passato, perno di tutta la narrativa di Modiano, qui subisse una inclinazione verso la solitudine più radicale. Il settantenne ricorda due fasi della sua vita, e così al presente della storia si mescolano due passati. Il primo è quello di lui bambino, affidato ad una giovane donna dalla vita equivoca; il secondo passato è quello di lui giovane scrittore al primo libro, che incontra quella stessa donna, non più così giovane. Vi è poi il presente, in cui quei due passati si parlano vanamente fra loro, mentre la donna è scomparsa dal mondo. Ricerche si sommano a ricerche, tutte vane. Il libro si chiude con un ricordo struggente ma declinato con sobrietà di grandissimo scrittore:

La notte, mentre lei telefona nella camera vicina, lui sente il suono della sua voce ma non le parole. Al mattino lo risvegliano i raggi di sole che attraverso le tende penetrano nella stanza e formano macchie arancioni sulla parete. All’inizio è quasi niente, uno scricchiolio di pneumatici sulla ghiaia, un rumore di motore che si allontana, e ti serve ancora un po’ di tempo per renderti conto che in casa resti solo tu. (p. 123)

Villa Triste

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Tradotto da A. e A. Cattabiani e pubblicato da Bompiani nel 2014, Villa Triste è un romanzo del 1975, di un Patrick Modiano non ancora trentenne ma già perfettamente maturo. Vi sono tutti i temi modianeschi: il tentativo nostalgico di recuperare un passato che svanisce, mediante atti di memoria volontaria; l’identità insicura del soggetto narrante; la fragilità e transitorietà dei rapporti amorosi e delle amicizie; il mascheramento e la problematicità dei nomi; il nascondimento dell’essere ebrei. In questo romanzo si aggiunge una variazione sul tema dell’identità fragile: il proprietario della casa che dà il nome alla stessa e indirettamente al libro, il dottor Meinthe, è un omosessuale che al travaglio dell’identità personale aggiunge quello della sua professione medica, che presenta lati oscuri, mentre la voce narrante ai tempi della vicenda narrata si fa chiamare con un nome che non è suo, presentandosi come l’esotico conte Chmara. E anche del nostalgico narratore, che rivive il suo amore di 12 anni prima, e che in quel tempo viveva sotto falsa identità una vita instabile, nulla sappiamo di certo, come ben poco della bella aspirante attrice Yvonne, con la quale vive una relazione che sembra strettissima e alla fine si rivela illusoria. Le tele tessute da Modiano sono variopinte ma trasparenti, sono veli di Maia.
L’incipit esplicita uno dei nuclei generatori della narrativa di Modiano: «Hanno demolito l’Hotel de Verdun. Era un bizzarro edificio di fronte alla stazione, circondato da una veranda di legno che stava marcendo. I commessi viaggiatori andavano a dormirvi fra due treni. Si diceva che fosse un albergo per coppiette. Anche il vicino caffè, a forma di rotonda, è scomparso. Come si chiamava? Café des cadrans o Café de l’Avenir? Fra le stazioni e le aiuole della Place Albert-Ier c’è adesso un gran vuoto».

Nel caffè della gioventù perduta

cop (1)Dopo Viaggio di nozze e Via delle Botteghe Oscure, ho letto Nel caffè della gioventù perduta (2007, trad. it. di I. Babboni, Einaudi 2010). E oggi, mentre il mondo della cultura contempla stupefatto e inorridito l’ISIS in Palmira, nella mia mente è nato un collegamento tra le gesta dei barbuti pronti alla distruzione e all’auto-immolazione e gli evanescenti personaggi di Patrick Modiano. Una radicale opposizione di essere e non-essere: da un lato una credenza assoluta e un’adesione totale a un senso dell’essere univoco, che significa affermazione di sé nella dedizione illimitata alla causa di Dio, per cui annullarsi significa realizzare il perfetto compimento; dall’altro persone dall’identità sfuggente agli altri e a se stesse, che inseguono di continuo labili ombre del passato e per le quali l’unico senso della vita sembra essere una fuga senza fine. Occidentali perfetti, gente del tramonto. Nei personaggi di Modiano vi è un perfetto interscambio ed un’equivalenza tra la ricerca-inseguimento e la fuga. Ma non vi è un altrove, mancano gli approdi. Nel caffè del romanzo, che non esiste più, si ritrovavano delle persone, alcune delle quali sono voci narranti, che rifrangono i punti di vista. Tutto ruota ancora una volta intorno ad una sfuggente figura di donna, qui la giovane che chiamano Louki, la quale anche, per qualche pagina, si narra. «Ma [come dice un personaggio] oggi, ormai, è troppo tardi. E poi, se tutto quel periodo è a tratti così vivo nel mio ricordo, è proprio grazie alle domande rimaste senza risposta» (p. 16)
Qui veramente gli individui appaiono atomi, la famiglia è un fantasma, un’ombra, un niente. Non ci sono radici che non siano ricordi sfuggenti. Ma se questa è la nostra realtà, ogni legame con gli antenati, a cominciare dai genitori, ogni responsabilità verso le origini, si scioglie e si dilegua. «Siamo veramente responsabili di coloro che incrociamo nei primi anni della nostra vita, semplici comparse che non abbiamo scelto noi? Sono io responsabile di mio padre e di tutte le ombre che parlavano con lui a bassa voce nelle hall degli alberghi o nelle salette private dei caffè e che trasportavano valigie di cui ignoravo sempre il contenuto?» (p.91)