La farfalla di Kant
NOTTE DI GIUGNO
Non potevamo dire sì, partiamo,
e neanche no, restiamo. Dove?
Siamo piccoli, e adesso siamo morti.
Uomini forti ci tengono in braccio.
Il mare di notte ci ha fatto paura,
tutti intorno dicevano a Dio aiutaci,
ma lui non ha ascoltato,
le mani di mamme e papà si sono aperte,
noi siamo stati un po’ nel freddo mare,
e poi a riva, non quella della vita.
(ai bambini morti nel mare di Libia, 2018)
VERMI
Apri la compostiera e ti sorprende
tra scarti di cucina e di giardino,
tra rami marci e vegetali morti,
la vita in corpicini umidi e forti:
il silenzioso canto dei lombrichi
ti immagini, la cieca devozione,
eucarestia di merli e di altri uccelli,
perché anche un verme ha giorni luminosi.
GIANO
Passo il tempo a parlare con Giano.
E Giano è nella foglia,
nella foglia che oscilla ad oriente
per il vento dal curvo occidente,
e cade la foglia matura,
la figlia di Giano, la foglia.
Passo il tempo a parlare con Giano.
E Giano è nella lacrima
che scese sul volto bambino,
la lacrima della mia soglia
di un debole, un forte destino.
Passo il tempo a parlare con Giano.
E Giano è in questa pietra,
una figlia di Giano, la pietra.
Rivoltata in anni lontani,
che ritrovo. Un’altra? La stessa?
Passo il tempo a parlare con Giano.
Passo gli ultimi, poveri giorni,
a parlare con Giano, che tace.
Giano è due. Non parla in due bocche,
guarda cose, a oriente, a occidente.
SVANIRE
C’era un uomo. Adesso la sua ombra.
Nell’ombra i neri lemuri bisbigliano.
Piccole voci tessono quell’ombra.
Nell’ombra sognano un perduto sole.
Disegno di Giuseppe Ghedina (1825 -1896)
LA CASA NELLA SELVA
Incatenato a me, dentro la selva.
Oscura è la selva del domani
per lui, per me, quando da altre mani
sarà condotto nei luoghi senza fiori.
La casa per mio figlio è vasta e vuota,
il sole non la raggiunge mai,
la strada empia e contorta che svanisce
puoi vederla di notte scintillare.
La casa splende di una luce dura,
mentre io sono nell’eterna caccia
e perdo ogni peso, ogni misura lascio
seguendo il suo sentiero senza traccia,
l’angelo dell’autunno sulla faccia.
(Pensando al futuro di mio figlio Guido, autistico averbale e con grave ritardo mentale).
EFESO
Conversazioni amabili,
terre che nessun poeta poté conoscere,
l’impeto di fuga trascinò
dai suoi bianchi furori.
E tu, ragione, la sconsolata,
so che piangesti
di rovine e d’amori.
Oh la passione, l’insostenibile assenza!
Scorrono ora i fiumi
più ambigui che ad Efeso un tempo.
Del flusso silenzioso sorella e dei mortali,
chi ti cercò?
Nessuno conta più le orme.
E i rotoli della Legge imputriditi
balbettano sconce parole.
Disegno di Giuseppe Ghedina (1825 – 1896)
IL PROFETA
di Fabio Brotto
Penetravano il cuore dell’estate
ma entrando dissipava il breve lume
la musica del tempo
e li scioglieva.
Ascendevate le scale sublimi
ma dentro il cuore l’abisso non scavava
vie di rifugio dalla pace morta.
Né altra luce intendo
se non della fragilità canto sottile,
voce trista, finale
della risacca, della schiuma incenso.
Dove la stasi non è data, al fiume
dei cantori, là scende
l’acqua dolce, che copre
putrefazioni, vecchie cose morte.
L’agilità del Verbo che sedusse
generazioni si franò le rive.
Come canna sbattuta dal vento
sul fango sta il profeta.
Nel fango scrive.
Disegno di Giuseppe Ghedina (1825 – 1896)
NON GAIA
di Fabio Brotto
Solo un commento usciva dalla penna,
un commento ai tuoi versi. Se d’amore.
Quello sapeva un canto…
Soltanto. Ripeteva.
Contemplava licheni, pietre. Gli astri
che davano misteri. La sua scienza
contemplava gli eoni. Mille numeri.
Di cifre innumerevoli. Ragione!
Escludeva ogni dio dalle sue tracce.
Dell’inizio sapeva le teorie.
Di ogni fine rideva: qual potenza
miserabile fingi? Quali spie
di eterno avesti nelle mille facce
violente? È finita la stagione
dello spirito, se frughi nelle ceneri
del grande morto trovi solo i rostri
delle aquile al cadavere adunate.
Infine generò soltanto mostri.
Soltanto. Esitava.
Quello sapeva un canto…
Solo un nulla gli usciva dalla penna,
un nulla sui tuoi versi. Se d’amore.
Disegno di Giuseppe Ghedina (1825 – 1896)
ROSA ULTIMA
di Fabio Brotto
Di arcangeli e di fate anche dicevi
alla sera del piccolo che ero
tu vestale del tempo, antica nonna.
E sembrava una fiaba. Ed era il vero.
Altro il vero non era se non fiaba.
L’angelo che ferma il tempo era il più bello.
Ma non venne.
Né per me, né per te.
Venne quello del tempo veloce.
Dieci anni fece un giorno.
Lui che martella il flusso – rovine dentro il cuore.
E la bella fanciulla ho conosciuto.
Ma fu ieri, e oggi sono vecchio.
E la fata non venne,
perché serva del tempo è, non regina.
E la bella fanciulla oggi è una statua
fredda e grigia, e guarda l’occidente.
Io chiedevo, chiedevo, chiedevo
perché sapevo che tu lo sapevi.
Tu – che fissasti il volto meduseo
ora sei pietra, e non mi puoi parlare.
Non ricercavo il nettare segreto
di voluttà delle parole. Alieno
d’ogni potere, al moto sola scala
la mente. Disciplina i veloci brevi anni
lo sai – Shantì – la spina conficcata.
Nel verde sai la rosa dell’assente.
Dentro, un bambino agitato nella culla.
Quarant’anni passati nel cammino
del deserto dei libri, di un destino.
La fame. Intorno il nulla.