Duecentocinquanta pagine di testo densissimo, più cinquanta di note, il tutto ragionato ed esposto con rigore accademico: non è una lettura per spiriti pigri e facili allo scoraggiamento questo The Head Beneath the Altar (sottotitolo: Hindu Mythology and the Critique of Sacrifice) di Brian Collins, edito nel 2014 dalla Michigan State University Press. L’ho apprezzato molto, perché introduce elementi di complessità all’interno di una sfera, quella degli studi girardiani, che ha una sua intima tendenza alla semplificazione della realtà: un elemento originario, questo, del pensiero dello stesso riccio René Girard. L’immenso corpus della mitologia e del rito indù e la storia problematica e dialettica dell’indologia occidentale sono maneggiate brillantemente da Collins, che affronta uno degli scogli principali della visione girardiana: la questione se la critica radicale del sacrificio sia, come sostiene Girard, un esclusivo prodotto del pensiero ebraico-cristiano. La risposta di Collins è no. Ma è un no molto articolato e sfaccettato, di cui non posso render conto in questa brevissima nota.
Molte pagine sono dedicate da Collins ad una analisi del Mahābhārata e delle sue figure. Questo passo è significativo:
Nell’orchestrare il sacrificio e nell’imporsi come signore della vita e della morte, i due poli del rituale sacrificale, Kṛṣṇa svuota il sacrificio del suo potere trascendente e prende su di sé quello stesso potere. Ma la sua non è una collera divina che serve da maschera alla violenza umana: la collera divina di Kṛṣṇa e la violenza umana sono una sola e unica realtà e le loro vittime sono rivelate come meri espedienti. Kṛṣṇa condanna il proposito di Jarāsaṃdha di sacrificare cento re come peccaminoso pur sapendo bene che egli stesso sta per determinare l’estinzione di quasi tutti i re della terra. La critica Vaiṣṇava del sacrificio, come quella dei Vangeli, rende possibile quel portare all’estremo che rende il sacrificio contemporaneamente più violento e meno efficace, sfociando nel fallimento finale della guerra sacrificale del Mahābhārata. E noi dobbiamo chiamarlo proprio un fallimento, dal momento che quella guerra marca l’inizio di quello che il testo stesso chiama il più degradato di tutti i tempi, quello in cui tutte le distinzioni saranno oscurate, i Veda saranno dimenticati, il rito perderà la sua efficacia, e il mondo sprofonderà in una decadenza destinata a culminare nella dissoluzione cosmica chiamata mahāpralaya. (pp. 156-157).
Ci siamo, più o meno.