Slobozia (terra di uomini liberi) si chiama il paese sepolto nella grande foresta, in cui si svolge la cupa storia narrata da Liliana Lazar (Terre des affranchis, 2009, trad. it. di S. Fornasiero, Tropea 2011). In una Romania in cui il cristianesimo deve fare i conti da un lato col regime criminal-comunista di Ceausescu e dall’altro con le ancestrali tradizioni pagane, con tutto il loro corteo di capri espiatori e credenze legate alla violenza e alla morte. La credenza nei moroï è quella più forte e operante, e nel romanzo della Lazar assume un valore simbolico importante e svolge una funzione narrativa primaria. I moroï sono morti inquieti, che non hanno raggiunto l’aldilà, e infestano il mondo dei vivi, una sorta di zombie-vampiri assetati della vita da cui sono stati espulsi. Il protagonista principale è un assassino seriale, che mi ricorda certi personaggi di Cormac McCarthy, ma la prima tematica di fondo del libro è quella della redenzione, del singolo e della collettività. Si tratta di una redenzione possibile, ma nient’affatto certa. La seconda tematica è quella della latenza e del nascondimento: di persone, di identità, di significati. L’oscurità misteriosa e la luce inquietante di un lago cui pochi osano accostarsi, chiamato la Fossa dei Leoni (Daniel è il nome dell’eremita che abita vicino alle sue sponde), è lo sfondo primordiale di tutti gli eventi, sacro e affamato di vite umane. La storia è sacrificale al massimo grado, la Lazar al primo romanzo è già scrittrice sapientissima e potente.
