Il bene sia con voi! è il titolo dello scritto che chiude il libro ononimo di Vasilij Grossman (Adelphi 2011). Ci sono alcuni racconti, e appunto questa narrazione-meditazione sulla breve permanenza dell’autore in Armenia, quando ormai la sua vita si stava avviando al declino. Vi troviamo note tolstoiane, come l’apprezzamento di una semplicità e purezza contadine che è tipicamente russo, e in generale una straordinaria apertura umanistica. Grossman, che nella vita ha molto sofferto, è infinitamente lontano da qualsiasi tendenza nichilistica, e pur conoscendo il male profondo, e la capacità umana di abbracciarlo e diffonderlo, è un credente nel bene, e lo cerca e vede là dove è possibile vederlo, nel chiaroscuro delle vite umane. Riporto due passi che mi sembrano molto belli.
«Goethe ha detto di aver contato undici giorni felici in ottant’anni su questa terra… Penso che ogni essere umano nel corso della propria vita veda necessariamente diverse centinaia di albe e tramonti, piogge e arcobaleni, laghi, mari, prati verdi… Ma di queste centinaia di visioni della natura giusto un paio si aprono un varco nel suo cuore con una forza prodigiosa e diventano per lui l’equivalente degli undici giorni felici di Goethe. Una nuvoletta infuocata da un quieto tramonto non si spegnerà mai nella memoria, laddove centinaia di tramonti più belli e sontuosi finiranno dimenticati, estinti per sempre; così come non scorderemo mai una pioggia d’estate o, magari, una giovane luna riflessa sulla superficie increspata di un ruscello d’aprile nei boschi.
Evidentemente non basta che l’una o l’altra scena sia splendida perché resti dentro di noi e diventi parte della nostra anima e della nostra vita. In quel preciso istante anche in noi dovrà esserci qualcosa di splendido, di puro: è come un amore corrisposto, è l’attimo in cui l’essere umano e il mondo si trovano e si fondono, un attimo di felicità e infelicità insieme.» (p. 188)
«Alcuni anni fa sotto l’altare della cattedrale di Ečmiadzin è stato rinvenuto un antico tempio pagano. Gli scavi hanno portato alla luce un enorme altare sacrificale ricavato da un blocco unico di basalto. È un calderone piatto e sinistro con rozzi colatoi per il sangue. È molto grande; nemmeno il trattore o il carro armato più moderno e potente riuscirebbero a spostarlo. L’oscurità di pietra del sotterraneo trasuda crudeltà di altri tempi. Quali vittime finivano su quella pietra scura, di chi era il sangue che ne colava? Il giovane monaco istruito e colto che ci conduce in gran segreto a visitare il tempio pagano ci risponde con un sorriso malizioso e arguto. La simbologia è sbalorditiva: una cattedrale cristiana sbocciata su un tempio pagano. Quando risaliamo nella cattedrale, un prete corpulento dagli occhi neri sta battezzando un bambino. Tenendo stretto il Vangelo nella sinistra, con la destra immerge l’aspersorio in un massiccio fonte battesimale d’argento e asperge il neonato con l’acqua santa. E intanto recita, biascica, cantilena velocemente le parole delle Scritture, con i piedi sopra il nero altare del sacrificio pagano: la volta arcigna del tempio pagano fa da base all’altare cristiano. E su quell’altare con fregi d’oro massiccio e l’immagine di Dio crocefisso celebra le messe solenni il supremo pastore di tutti gli Armeni, Vazgen I. Generazioni di katholikòs, seppelliti nel marmo all’ingresso della cattedrale, hanno servito messa glorificando Cristo senza sapere che sotto i loro piedi si celava – sinistra – una pietra sacrificale pagana…» (pp. 218-219)
Molto viva questa scena (secondo passo), illustrazione perfetta della visione girardiana della religione e della sua storia. Ma i nostri “salvatori” neopagani vorrebbero (e l’hanno anche fatto) ribaltare l’altare dove si ripete da duemila anni l’unico sacrificio di salvezza per tutti, per sommergerlo nel sangue delle ecatombi, dei genocidi del secolo orribile, che non è affatto passato.