La melanconia gioca col tempo dell’uomo di cui si è impadronita, e gli fa contemplare la scena futura che non vedrà mai con gli occhi del corpo, quella del proprio sepolcro. Da Properzio a Petrarca, da Leopardi a Sbarbaro si può verificare la stretta associazione del sentimento del divenire con l’idea della propria tomba, e del sonno col nulla. Ad esempio, scrive Camillo Sbarbaro in Pianissimo:
Vieni consolatrice degli afflitti.
Abolisci per me lo spazio e il tempo
e nel nulla dissolvi questo io.
…
Quando si dorme non si sa più nulla.
E scrive ancora:
… E penso la mia morte
e vedo me già steso nella bara
troppo stretta fantoccio inanimato…
Quant’albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi!
Di ciò che abbiam sofferto
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo.
La melanconia, come mostra Claudio Magris ne L’anello di Clarisse, è coessenziale al Moderno in quanto ha perduto l’Orizzonte di senso. “La temporalità divora e dissipa l’individualità; l’ateismo è anche l’impossibilità di quella che Kierkegaard chiamava la ‘ripresa’ ossia la rivelazione della vittoria religiosa sul tempo, del riscatto religioso della finitezza”. Per Magris “Il futuro di cui parlano con angoscia Jacobsen e Michelstaedter – e con essi tante voci della civiltà contemporanea – rappresenta invece il trionfo del tempo, la temporalità elevata al quadrato, l’inesistenza della vita, che non è mai e soltanto attende di essere, annientandosi in questa attesa mai soddisfatta e sempre differita (…) Nella corsa verso il futuro la vita passa dal nulla al nulla, dalla continua condizione di non essere ancora alla continua condizione di non essere più”. Ma il trionfo del tempo e l’angoscia che ne è generata trovano uno speculare riflesso in una fortissima tendenza alla negazione del tempo stesso. Il tossicomane si offre a ciò che lo strappa al sentimento della propria mortalità. Si tratta di un sostituto della trascendenza, di cui la vita è stata privata.
L’Ulisse di G. Pascoli, protagonista di un Ultimo viaggio che lo riporta ai luoghi delle grandiose avventure narrate da Omero, e che nulla ritrova se non la perdita del Mito e del Senso, perde infine anche la vita. Tra le braccia di Calipso finisce. Dalla bocca della Dea escono queste parole, con le quali si conclude il poema:
– Non esser mai! non esser mai!
più nulla ma meno morte, che non esser più –
Quanto più nel corso del Novecento sono emarginate, quanto meno numerosi sono i loro lettori, tanto teologia e poesia più sentono il loro reciproco fascino di derelitte. “L’io è segnato dalla necessità di portare una domanda che ottiene come risposta soltanto il vuoto” scrive Heinrich Ott, delineando all’interno del proprio discorso teologico la posizione del senso tragico (sostanzialmente nichilista) di Gottfried Benn, e riportandone una poesia di grande spessore intellettuale e poetico.
Due cose soltanto
Passato attraverso tante forme,
attraverso l’io e il noi e il tu,
tutto è però rimasto scavato
dall’eterna domanda: perché?
Una domanda da bambino.
Soltanto tardi hai imparato
che c’è una sola cosa:
sia esso senso o anelito o leggenda,
sopporta quel destino
che viene da lontano: Tu devi.
Rose neve mari
Tutto ciò che è fiorito appassì;
due cose soltanto vi sono:
il vuoto e
l’io segnato.
riguardo alla poesia che riporti in calce di Gottfried Benn
passato o passano?
Passato: riferito a tutto
ho scoperto questa meraviglia, di Gottfried Benn: Colui che è solo
Colui che è solo è anche nel mistero
e sempre sta nel fiume delle immagini,
del loro generarsi, germinarsi,
anche le ombre hanno questo fuoco.
Gravido di ogni strato è nel pensiero
di ogni strato ricolmo e non disperso,
in suo potere ha l’annientamento
di ogni umano che si nutre e si accoppia.
Impassibile egli vede la terra
un’altra farsi da quella che fu sua,
non più “muori” e non più “divieni”:
la perfezione, immobile, lo guarda.