Devo dirlo subito: l’unica cosa che mi è piaciuta (forse per la mia personale e biografica sensibilità in materia) in questo libro di Grossman è il modo in cui uno dei due personaggi, Myriam, vive il rapporto col suo figlio disabile (certamente autistico, anche se non viene mai fatto il nome del suo male). Per il resto, trovo molto artificiosa l’idea di fondo, cioè quella di un abbondante scambio di lettere, di lettere di carta, tra i due protagonisti, che non si sono mai conosciuti direttamente e non si incontrano mai fisicamente. Una corrispondenza che ha chiaramente come movente il bisogno di Yair di mettersi a nudo, di scavare nella propria condizione esistenziale. Alla fine, da un lato abbiamo una situazione quasi psicoanalitica. Le cose che lui dice scrivendole alla donna potrebbe dirle disteso su di un lettino. Dall’altro abbiamo la solita espressione del desiderio amoroso secondo la tradizione occidentale, per cui il desiderio è per ciò che non si può avere e quindi preferibilmente si dirige verso l’uomo dell’altra o la donna dell’altro. Canonico.
Ed egualmente canonico, ennesima riproposizione del soggetto che da Rousseau in poi ha imperversato, è l’Io che si rotola nella propria abiezione. Yair insiste su questo aspetto, continuamente. Infine, altro aspetto fondamentale è la verbosità. Mi viene in mente Il fallimento della parola di Weisberg, un testo illuminante sulla parabola del soggetto romanzesco. L’intellettuale verboso come Yair è anche sempre risentito, verso la società e il mondo, ma prima di esserlo con gli altri lo è verso se stesso. E Yair si inscrive nella numerosa truppa degli intellettuali risentiti, incapaci di afferrare la vita, e protesi verso una impossibile realizzazione di sé nella relazione con l’altro/altra. Ma essendo questa realizzazione mediata dal desiderio, spesso furioso e carnalissimo in absentia corporis, avendo il desiderio bisogno assoluto non della presenza dell’oggetto amato ma della sua assenza, essa non può che fallire. L’oggetto assente è anche strumentale, appunto un oggetto e non un altro soggetto. La fine “aperta” del romanzo non deve a sua volta ingannare.
l’ho letto un pò di anni fa, e devo dire che ripensandoci mi viene in mente lo stesso sapore un pò masochistico della lettura di Kundera nell’insostenibile leggerezza dell’essere ..rapporti travagliati e ambigui, mai espliciti…
il finale devo andare a rileggermelo, non lo ricordo più.
i finali sono importanti…
da un finale spesso giudico un libro…basta un brutto finale (dove per brutto intendo insipido), per rovinarlo.
cosa pensi dell’incisione di Marcantonio Raimondi sul peccato originale?
sono andata a riprendere il libro…l’ultimo capitolo è intitolato “pioggia”…ora ricordo…è una sorta di ritorno alle origini….
frammenti di ricordi riuniti in una sensazione comune, la pioggia incessante.
è vero, l’apertura del finale non è completamente limpida, ma apre alla speranza.
appena ho finito con “la fattoria degli animali” lo rileggo.
oh, cavoli, puoi cancellare cortesemente il mio indirizzo e-mail…?
grazie
carla
ma no non disturbarti, ormai….
(tanto la mia posta non la guardo quasi mai!:-)
Scusa, Carla, ma cosa c’entra qui l’incisione di cui parli?
in effetti non c’entra niente.
scusami.