È forse nel primo testo occidentale che narra il Fallimento, l’Epopea di Gilgamesh, sempre presente a Elias Canetti [“… incontrai Gilgamesh, che più di ogni altra cosa ha determinato la mia vita, il suo senso più segreto, la sua fede, la sua forza e le sue attese”], che appare la piena coscienza dell’orrore che agli occhi dell’uomo è portato dall’annientante divenire, di cui costituisce, in verità, l’essenza. Proprio nella forma dell’orrore si manifesta la percezione dell’irrevocabile perdita, quando l’eroe Gilgamesh, che non si è rassegnato alla morte dell’amico Enkidu, e ne ha vegliato insonne il cadavere, scorge vermi scendere dal naso di lui.
Ma la conseguente via fallimentare dell’eroe sumerico all’immortalità è pur una, come quella, coronata dal successo, di Dante, mentre il moderno sperimenta fin dall’inizio l’aporia non come il venir meno dell’unica strada al Vero, ma come eccesso di strade, o labirinto, come scrive con mirabile chiaroveggenza Ugo Foscolo, sotto specie di Didimo Chierico: “Che la gran valle della vita è intersecata da molte viottole tortuosissime; e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vive e muore perplesso, né arriva mai a un luogo dove tutti quei sentieri conducono l’uomo a vivere in pace seco e con gli altri. Non trattasi di sapere quale sia la vera via; bensì di tenere per vera [c. mio] una sola, e andar sempre innanzi”. Il soggettivismo relativistico della Modernità si esprime qui nella arbitraria elezione di una via tra le molte che presentano lo stesso grado di verità. Cioè nessuno. Il venir meno del Libro apre la strada ad una sconfinata moltitudine di libri, Biblioteca di Babele fondamentalmente insensata, in quanto non è miniera di frammenti dell’unica Verità, appropriabile dunque pur se in minima parte dal singolo uomo, ma caotico ammassamento di infinite verità: e parziali e contrastanti fra loro. E quando il suo sapere particolare e ben ordinato, come in cristalli collezionati, e perciò separato dal flusso della vita e dalla sua sapienza, cozza contro il novum di un’apertura non prevista dell’esistenza, il dotto contemporaneo vede divampare intorno a sé il fuoco divoratore che annichila lui e il suo sapere. Come accade del protagonista dell’unico romanzo di Canetti, che brucia con la sua immensa biblioteca di erudito.
Il pluralismo agonistico delle verità e la mai sopita fame di assoluto tracciano i contorni della poesia della Modernità, in cui il rapporto alla Verità è sofferto, negato, discusso. A partire da Baudelaire, che in alcune occasioni sostenne il divorzio della poesia dalla scienza e dalla filosofia, e il suo chiudersi in se stessa, in altre lo contraddisse con estrema lucidità, come in L’Ecole paienne, dove si legge: “La passione frenetica per l’arte è un cancro che divora il resto; e siccome l’assenza completa del giusto e del vero in arte equivale all’assenza dell’arte, l’uomo intero svanisce; l’eccessiva specializzazione di una sola facoltà approda al nulla [c. mio]”.
Codesto “non aver scampo”, alla resa dei conti, questo fatale approdo ad una sostanziale e generale frustrazione di ogni impeto di comprensione della vita, questo palpitare del pensiero unitamente alla consapevolezza di un nulla invincibile e nonostante esso, misurano, nel contempo, straordinarietà e follia del coraggio di stare al mondo, in modo particolare quando il percorso non possa contemplare alcuna fede in un riscatto ultraterreno.
Talvolta mi convinco che l’ uomo ami sopra ogni altra cosa il suo stesso dolore, la sua straziante perplessità, come se sapesse che il massimo del piacere -il piacere davvero pemanente-, abita nel pensiero, anche se fa male.