Divenire nulla 9

 Attento alla poesia novecentesca, B. Welte ne cita una delle cime più abissali, in cui il massimo dell’enigma si dà nella più pura trasparenza, la Mandorla di Paul Celan, che si trova in Die Niemandsrose (1964).

Nella mandorla – che cosa sta nella mandorla?
Il nulla. Il nulla sta nella mandorla.
Esso sta e sta.

[Più seriamente i conti li fa, a mio avviso, L. Kolakowski nel suo saggio Orrore metafisico (Il Mulino, Bologna 1990). “L’orrore consiste in questo: se nulla esiste veramente tranne l’Assoluto, l’Assoluto è nulla; se nulla esiste veramente tranne me stesso, io sono nulla” (p. 26). Il libro di Kolakowski, tuttavia, non diversamente da quello di Welte, finisce in modo aperto: “E non è un sospetto plausibile che se ‘essere’ fosse senza scopo e l’universo privo di significato, noi non avremmo non solo mai raggiunto la capacità di immaginare in altro modo ma neanche la capacità di pensare precisamente questo: che ‘essere’ è senza scopo e l’ universo privo di significato?” (p. 120). A Welte e Kolakowski si potrebbe affiancare, per un confronto, la prima tesi sul Dio non pensato esposta da A. Jäger in Dio. Dieci tesi, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 34 – 45. Per un confronto con una prospettiva cristiano-buddista sui temi del nulla e del vuoto divini, si può vedere Donald Mitchell, Kenosi e nulla assoluto, Città Nuova, Roma 1993.]

Qui si accostano due termini che nella tradizione metafisica occidentale appaiono inconciliabili, anzi non rapportabili l’uno all’altro: il nulla e lo stare. Che è ben più del semplice essere del nulla, poiché significa la permanenza, l’indefettibilità, la solidità.

Nel suo saggio La caduta, la noia, che compare in Leopardi e il pensiero moderno, alla nota n.8, Cesare Galimberti definisce la Ginestra “disperata ed estatica, materialistica e metafisica, avversa agli scialbi lumi delle fedi e delle scienze umane ma incantata dalla luce del nulla” [c.mio]. Il critico precisa di aver ricavato l’espressione dal testo di Welte. Nella raccolta citata si legge anche un penetrante saggio di G. Scalia dal titolo Leopardi e la “cognizione del nulla” , che porta in epigrafe i versi di Celan che conosciamo, e subito dopo la nota leopardiana dallo Zibaldone (4526): “Due verità gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Leopardi, afferma Scalia, “ha pensato e portato al linguaggio, già dall’inizio, la cognizione del nulla come il nucleo generatore e permanente a cui ha dato i nomi equipollenti di natura, fato, (o fati), dèi, numi, necessità, Arimane, ecc.” [15] E, sotto: “Il principio del nulla, come identità originaria di essere e non essere, è ciò che toglie l’illusione di positività, stabilità [c. mio], permanenza, persistenza all’‘essere’ della tradizione filosofica occidentale”. [16] E poiché “nel pensiero poetico, in cui è da riconoscere un pensiero ‘altro’ dalla ragione, l’unità originaria di essere e nulla è detta nella figura del passare, Scalia attribuisce a Leopardi un conoscere che ha il carattere della sapienza tragica. “Pathei mathos, come in Eschilo”.

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