L’umano sempre crede. Per quanto uno sia dedito alla più rigorosa scientificità, o filosofi razionalisticamente usando rasoi di Occam, giunge un punto in cui il suo sapere diviene credenza, spesso senza che egli se ne accorga. Eppure c’è sempre un saltus. Per esempio: Umberto Veronesi dice che le scimmie superiori condividono con noi quasi interamente il patrimonio genetico, e per questo hanno dei diritti, come del resto, secondo gli animalisti, li hanno tutti gli animali. Gli scimpanzé sono dei quasi-uomini, secondo una sua dichiarazione: “Uno scimpanzé che cos’è? Un essere vivente con una differenza minima nel genoma rispetto all’uomo. Talmente minima, i geni sono uguali al 99,5 per cento, che potenzialmente potrebbe essere un progetto di uomo. E allora perché non tutelare anche lui? La Chiesa in realtà ha una visione antropocentrica: solo l’uomo conta. Ma io che sono animalista e vegetariano mi chiedo, provocatoriamente, perché non tuteliamo anche gli embrioni degli scimpanzé, anch’essi sono progetti di esseri umani.”
Qui è evidente che, a fronte di un dato scientifico sul genoma, sul quale tutti possono concordare, si apre lo spazio delle interpretazioni e delle credenze. Veronesi crede che quello 0,5 per cento sia irrilevante, altri credono che sia rilevantissimo. Del resto, anche altre culture hanno visto il rapporto tra gli umani e gli animali come rapporto di prossimità e addirittura di permeabilità (si pensi all’antenato-totem), ma questo non ha impedito agli umani stessi di uccidere gli animali (e gli altri umani). Che un uomo non debba uccidere è una credenza, la credenza che esista una legge che vincola, non un sapere oggettivo. La scelta di essere animalista e vegetariano è un’opzione non scientifica e neppure puramente razionale, è qualcosa di essenzialmente sentimentale: ciascuno, nell’Occidente individualista di oggi, sceglie un orizzonte di sicurezze, però socialmente e culturalmente mediate da una collettività che con-sente. L’animalista isolato non esiste: è il frutto di uno sviluppo culturale (ciò che gli animali non possono avere): nel 1901 tutti i bambini in campagna “andavano a nidi”, nel 2008 tutti lo sentono come un atto criminale di spoliazione della natura: non è questione di genomi o di scienza, ma di cultura e di ideologia.
Ho visto un film di R. Redford del 1992, In mezzo scorre il fiume. Ci sono bellissime scene di pesca alla trota, ma alla fine, nei titoli di coda, si avverte che durante le riprese non sono state inflitte sofferenze ad alcun pesce. Fra poco sarà difficile presentare ai bambini la parabola del figliol prodigo, o il miracolo della pesca miracolosa. Forse è già difficile.
La contraddizione appartiene all’essere in quanto tale, che è insieme anche non-essere. Vi è dunque un fondamento metafisico di ogni contraddizione. Spesso però nel discorso comune la contraddizione è confusa con l’opposizione. Credere che l’umano sia essenzialmente libero in quanto umano è appunto una credenza. Essa è opposta a quella della totale determinazione di ogni ente, compreso l’umano – che quindi non sarebbe che uno scimpanzé perfezionato. Sono due credenze opposte, ma non contraddittorie. Continueranno a sussistere, intrecciate fra loro, e non vi sarà mai uno scioglimento di questo nodo, a causa della struttura essenzialmente paradossale dell’umano stesso, che lo distingue da ogni altro ente dell’universo. Appunto.
Ciao, mi lasci senza parole per i pensieri che esprimi.
Riesco solo a dirti che sono anch’io vegetariana e animalista.
In mezzo scorre il fiume, regia di Robert Redford è uno
dei film che trovo magnifico da “incorniciare”.
Grazie
Mistral
Grazie a te dell’attenzione. Io, dal canto mio, sono decisamente onnivoro: mangio ogni sorta di piante e animali, uova e funghi.
mi sembra coerente, da bravo cacciatore quale sei…
ci sono radici che crescono adesso di una squisitezza infinita, li chiamano i ramponch!
A proposito di credenza. Ho fiducia nel cuoco del ristorante dove talvolta vado a mangiare i funghi trifolati. Conosco anche il proprietario del ristorante, e tanto mi basta per credere che non mi avveleneranno. Credo di saperlo e me lo dice, banalmente, anche “il cuore”, ma non lo so davvero: è questione di credenza sulla base di una verità (non dico un sapere) che non esclude l’errore, un incidente o l’imprevisto. Tuttavia ho fiducia.
E con la fiducia noi ci rilassiamo: non dobbiamo andare in cucina a fare l’esame al cuoco e ai funghi, anche se di quella persona, il cuoco, e di quei miceti non sappiamo granché.
Gran parte delle nostre azioni, come appunto andare al ristorante sotto casa o in centro, avvengono al buio, perché sono basate sulla credenza.
Prima della credenza opera, in noi, una specie di dinamismo senza oggetto che possiamo chiamare fede, una passione d’infinitudine che pare connaturata all’umano. La credenza probabilmente è un effetto dell’educazione ricevuta e dell’amore. Ma è banale. Così come sono banali e naturali anche l’amore e il bene. Il sospetto e il male, invece, sono un’interessante aberrazione, quasi un incurvarsi e un arricciarsi della linearità dell’esistenza, che in sé è un bene, nonostante tutto.
In altri termini, nella credenza è all’opera l’intero processo del desiderio, il desiderio di sicurezza, il bisogno di amicizia, di solidarietà e di certezze.
D’altra parte, se una credenza potesse davvero esaurire il reale e le tante storie possibili, o anche impossibili, il nuovo non potrebbe realizzarsi.
Anche la letteratura ne soffrirebbe. Non potrei per esempio scrivere il racconto che ho in mente, un racconto noir dal titolo provvisorio “Il cuoco”…
La letteratura è sempre stata nera, fin dall’Antichità. «Una specie di grande zolfara», sosteneva Maria Corti. E’ come se, mettendosi al lavoro , lo scrittore – consapevole della propria follia – cercasse, simile a un “farmacista matto”, di fabbricare da sé il proprio antidoto, l’antidoto alla propria vulnerabilità. (“Orribile lavoratore”, avrebbe osservato Rimbaud, ecc.).
Così il nuovo è a rischio di male. E il meglio, in moltissimi casi, è nemico del bene. Naturalmente se questa convinzione fosse una credenza fissa e contratta, non sarebbe possibile nessun cambiamento in meglio. Insomma, nessun sapere e nessuna credenza potranno mai esaurire il reale, che resta incommensurabile. In effetti, che cosa sappiamo davvero?
Tutto è credenza (anche la distinzione fra roba interna ed roba estranea operata dal sistema immunitario) ma nulla funzionerebbe se non si ammettessero diversi livelli, o gradi di “adesione”. Nella realtà, siamo animali empirici e tentiamo continuamente di combinare fonti di conoscenza dubbia in aggregati a più alta probabilità. Poi, nelle ricreazioni prive di conseguenze concesse da questo indefesso lavoro (in larga parte implicito nel nostro partecipare ad una società e corrispondente cultura) giochiamo a immaginarci idealisti e a rimappare i nostri comportamenti lungo le linee di qualche principio semplice, e per lo più nobile. Per via di sentimento questo risulta relativamente facile, per via di “razionalità” conduce invece ad orrende complicazioni.
Naturalmente, caro Elio, questa tua visione della cosa si sa essa stessa contingente, e soggetta a dubbio e credenza. Del resto l’ “in realtà” presume sempre un fondamento veritativo inconcusso, oppure risulta una formula vana…
scusami Fabio, ma allora tu credi che l’uomo sia uno scimpanzè perfezionato..?
forse io ho una visione più superiore dell’uomo ma questo non toglie nulla alla mia ammirazione per il mondo animale….