La maschera dell’Africa

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ef776d5838c77dfc76f821eb27398616_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyTra i libri di V.S. Naipaul che ho letto, La maschera dell’Africa (The Masque of Africa, 2010, trad. it. di A. Bottini, Adelphi 2010) è quello che trovo più bello, in tutti i sensi.
Il titolo già allude ad una dimensione sacrificale, che risulta poi onnipresente. Lo sguardo di Naipaul cerca il sacro africano, la sua pervasiva presenza in tutti gli aspetti della vita, la sua indistruttibilità. Declinato in forme non molto differenti, lo trova in Uganda, Ghana, Costa d’Avorio, Gabon, Nigeria e Sudafrica. Culto degli antenati, rapporti con gli spiriti, iniziazioni (con esclusione delle donne), magia, e sacrificio sacrificio sacrificio. Il permanere di un rapporto con la vita segnato dalla mancanza di un passato di memorie storiche scritte, e da una irrefrenabile tendenza alla crescita numerica e alla crudeltà verso gli animali. Naipaul mostra qui un raro equilibrio tra umanesimo e realismo, con una totale assenza di political correctness e una profonda empatia per l’umano in quanto umano.
L’Africa non è un paese per animalisti, nonostante un’abbondanza di vita animale (che viene abbondantemente consumata). Gatti e cani non se la passano affatto bene, tanto per dirne una. E gli Africani si mangiano qualsiasi creatura (fatti salvi gli animali totemici di ciascuna etnia, che se ne astiene). Mi è molto piaciuta, con una leggera punta di orrore, la denominazione generica di “carne di boscaglia”, per gli animali commestibili che vivono in libertà (scimmie comprese). Nel libro ci sono pagine stupende, come questa sui gatti, una squisitezza.

Poi ci mettemmo a parlare della fauna selvatica del Ghana. Non ne era rimasta molta. I ghanesi se l’erano in gran parte mangiata. Dalla fauna passammo al tema dei gatti e dei cani, che si potevano mangiare senza restrizioni. Nel Nord prediligevano i cani, che chiamavano “capre rosse”. Nel Sud preferivano i gatti, e infatti questi erano quasi scomparsi. Richmond conosceva un tale che li allevava appositamente per mangiarli.
Il guaio dei gatti era che erano difficili da ammazzare. I gatti capivano quando li si voleva ammazzare per mangiarli e si difendevano con tutte le forze, arrivando in quei momenti a diventare pericolosi. Il sistema migliore, se avevi ospiti a pranzo e non volevi dare troppo nell’occhio, consisteva nel tirargli il collo, come si fa in Inghilterra con i conigli. Ma nel farlo c’era il rischio di venire graffiati a sangue. Il metodo più sicuro – se non dava fastidio il baccano – consisteva nel chiudere il gatto in un sacco e ammazzarlo a bastonate. Un altro buon sistema era l’annegamento. Si attirava il gatto in un recipiente usando come esca una sardina, e poi si continuava a versarci dentro l’acqua, finché il gatto affogava.
Un vantaggio di questo sistema era che, dopo, risultava più facile scuoiare la bestiola gonfia d’acqua. (p.160)

La narrazione di Naipaul è punteggiata di incontri con uomini e donne africani, e riporta le loro parole, e le loro interpretazioni degli eventi e della vita. Le ultime pagine del libro sono dedicate al Sudafrica dopo la fine della separazione tra bianchi e neri. Situazione difficilissima, ben spiegata dalle parole di Winnie Mandela, e da quelle di Rian Malan, l’ultimo personaggio cui lo scrittore concede la parola.

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7 pensieri su “La maschera dell’Africa

  1. Ci vuole un bel coraggio, Fabio, per gradire queste cose. Ma la battaglia contro l’ipocrisia del politically correct mi vede al tuo fianco

  2. Naturalmente quando dico che la pagina è stupenda lo dico per la capacità di Naipaul di far parlare anche persone di cui non condivide affatto la visione della realtà ed i gusti. Naipaul infatti ama molto gli animali, e personalmente prova orrore per questo trattamento riservato ai gatti. Un povero micio trattato così fa pena anche a me. Ma altre culture potrebbero inorridire per il trattamento che noi riserviamo negli allevamenti e nei mattatoi ai maiali e ai tacchini. Che io personalmente trovo orripilante.

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