Un’area di tenebra

Naip

V.S. Naipaul pubblicò Un’area di tenebra (An Area of Darkness) nel 1964. La prima edizione Adelphi, con la traduzione di F.Salvatorelli, è del 1999. Lo spazio di tempo è notevole, ma si può capire. Il centro concettuale del libro è rappresentato dal defecare umano, che in India avviene tradizionalmente all’aperto, in ogni dove. Questa defecazione senza legge e misura, ma nello stesso tempo invisibile, su cui Naipaul insiste a più riprese, è indice di un ritardo culturale forse incolmabile del Paese dell’Anima, dove molti occidentali vanno a cercare il senso della propria vita, trovandolo in una tradizione immobile e immobilizzante.

«Un concetto orientale della dignità e della funzione, fondato sull’agire simbolico: questo il pragmatismo corrotto e pericoloso della casta. Abito simbolico, cibo simbolico, culto simbolico: l’India è esperta di simboli e di inazione. L’inazione nasce dalla funzione proclamata, la funzione dalla casta. L’intoccabilità non è l’effetto più importante del sistema: solo un concetto occidentale della dignità l’ha resa tale. Ma al cuore del sistema c’è la degradazione del pulitore di latrine, e quel noncurante defecare su una veranda osservato da Gandhi nel 1901.
“Non appena caduta l’intoccabilità, il sistema castale sarà purficato”. Sembra un esempio di ambivalenza gandhiana e indiana. Si potrebbe anche interpretare la frase come un riconoscimento dell’inevitabilità della casta. Ma è un giudizio rivoluzionario. La riforma agraria non convince il bramino di poter mettere mano all’aratro senza disonorarsi. Assegnare premi ai bambini per atti di coraggio non elimina l’idea che è imperdonabile rischiare la propria vita per salvarne un’altra. Riservare impieghi pubblici agli intoccabili non aiuta nessuno. È un attribuire responsabilità a persone non qualificate; e la situazione dei funzionari intoccabili, sempre preceduti da questa nomea, è intollerabile. È il sistema che va rigenerato, la mentalità di casta che va distrutta. Così Gandhi batte e ribatte sugli stessi punti, la sporcizia e gli escrementi dell’India, la dignità del pulire latrine, lo spirito di servizio, il lavoro fisico. Visto dall’Occidente il suo messaggio appare limitato e bizzarro; ma è solo che a una partecipe visione coloniale dell’India egli applica elementari criteri occidentali.
Dall’India Gandhi fu distrutto. Diventò un “mahatma”. Andava venerato per ciò che egli era; il suo messaggio era irrilevante. Gandhi eccitò l'”informe spiritualità” dell’India; risvegliò tutta la passione indiana per l’autoumiliazione al cospetto del virtuoso, autoumiliazione che il Kāmasūtra avrebbe approvato, in quanto favorisce le sorti oltremondane di un uomo, non lo induce a lunghe e difficili fatiche, ed è nel contempo gradevole. L’azione simbolica era la maledizione dell’India. Pure, Gandhi era abbastanza indiano per aver commercio con i simboli. Così, la pulitura delle latrine diventò un rito occasionale, virtuoso perché sancito dalla grande anima; la degradazione del pulitore di latrine continuò. L’arcolaio, il filatoio a mano, non conferì dignità al lavoro manuale; fu soltanto assorbito nel grande simbolismo indiano, e il suo significato rapidamente svanì. Gandhi rimane un tragico paradosso. Il nazionalismo indiano si sviluppò dal revivalismo indù; questo revivalismo, da lui ampiamente promosso, rese certo il suo definitivo fallimento. Gandhi fu politicamente vittorioso perché era venerato; fallì perché era venerato. Il suo fallimento è lì, nei suoi scritti: egli è ancora la guida migliore all’India. È come se in Inghilterra Florence Nightingale fosse diventata una santa, con dappertutto statue in suo onore, il suo nome su tutte le labbra; e gli ospedali fossero rimasti come lei li aveva descritti.
Il fallimento di Gandhi è più profondo. Perché nulla scuote tanto l’indiano in modo da renderlo più saldamente statico, nulla lo istupidisce e lo spoglia della sua grazia abituale, quanto il possesso di un sant’uomo.» (p. 96-97).

La perdita dell’Eldorado

La perdita dell'Eldorado

V.S. Naipaul, La perdita dell’Eldorado (The Loss of El Dorado. A Colonial History, 1969 e 2001, trad. it. di F. Cavagnoli, Adelphi 2012). Di coloro che abitavano l’isola di Trinidad prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, gli indios delle varie tribù Arawak, non è rimasta traccia alcuna, nessun ricordo. Cancellati. Nessun ricordo nemmeno di coloro che dettero il nome al Mar dei Caraibi, i temutissimi Caribi mangiatori di uomini. Ma nemmeno dei neri importati come schiavi, e delle loro sofferenze, e del regime disumano cui furono sottoposti, rimangono molti ricordi. V.S. Naipaul può apparire in qualche modo scostante per un pessimismo antropologico radicale, ma questa sua opera è preziosa per chi voglia alzare qualche velo. C’è forse una scrittura eccessivamente secca, che a tratti rende difficoltosa al lettore una piena comprensione degli eventi. Ma non è un testo di storiografia, è un testo di pietas quasi nichilista, si potrebbe dire, ma non del tutto nichilista alla resa finale dei conti. Riaffiorano nomi perduti, si recuperano vicende politico-amministrative, di processi civili e penali, di violenza e di soprusi. Luce ferrigna, con lampi improvvisi. Il lettore viene afferrato da mani rapinose che lo trascinano indietro nel tempo: in epoche culturalmente lontanissime, ma così vicine, troppo vicine.

La maschera dell’Africa

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ef776d5838c77dfc76f821eb27398616_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyTra i libri di V.S. Naipaul che ho letto, La maschera dell’Africa (The Masque of Africa, 2010, trad. it. di A. Bottini, Adelphi 2010) è quello che trovo più bello, in tutti i sensi.
Il titolo già allude ad una dimensione sacrificale, che risulta poi onnipresente. Lo sguardo di Naipaul cerca il sacro africano, la sua pervasiva presenza in tutti gli aspetti della vita, la sua indistruttibilità. Declinato in forme non molto differenti, lo trova in Uganda, Ghana, Costa d’Avorio, Gabon, Nigeria e Sudafrica. Culto degli antenati, rapporti con gli spiriti, iniziazioni (con esclusione delle donne), magia, e sacrificio sacrificio sacrificio. Il permanere di un rapporto con la vita segnato dalla mancanza di un passato di memorie storiche scritte, e da una irrefrenabile tendenza alla crescita numerica e alla crudeltà verso gli animali. Naipaul mostra qui un raro equilibrio tra umanesimo e realismo, con una totale assenza di political correctness e una profonda empatia per l’umano in quanto umano.
L’Africa non è un paese per animalisti, nonostante un’abbondanza di vita animale (che viene abbondantemente consumata). Gatti e cani non se la passano affatto bene, tanto per dirne una. E gli Africani si mangiano qualsiasi creatura (fatti salvi gli animali totemici di ciascuna etnia, che se ne astiene). Mi è molto piaciuta, con una leggera punta di orrore, la denominazione generica di “carne di boscaglia”, per gli animali commestibili che vivono in libertà (scimmie comprese). Nel libro ci sono pagine stupende, come questa sui gatti, una squisitezza.

Poi ci mettemmo a parlare della fauna selvatica del Ghana. Non ne era rimasta molta. I ghanesi se l’erano in gran parte mangiata. Dalla fauna passammo al tema dei gatti e dei cani, che si potevano mangiare senza restrizioni. Nel Nord prediligevano i cani, che chiamavano “capre rosse”. Nel Sud preferivano i gatti, e infatti questi erano quasi scomparsi. Richmond conosceva un tale che li allevava appositamente per mangiarli.
Il guaio dei gatti era che erano difficili da ammazzare. I gatti capivano quando li si voleva ammazzare per mangiarli e si difendevano con tutte le forze, arrivando in quei momenti a diventare pericolosi. Il sistema migliore, se avevi ospiti a pranzo e non volevi dare troppo nell’occhio, consisteva nel tirargli il collo, come si fa in Inghilterra con i conigli. Ma nel farlo c’era il rischio di venire graffiati a sangue. Il metodo più sicuro – se non dava fastidio il baccano – consisteva nel chiudere il gatto in un sacco e ammazzarlo a bastonate. Un altro buon sistema era l’annegamento. Si attirava il gatto in un recipiente usando come esca una sardina, e poi si continuava a versarci dentro l’acqua, finché il gatto affogava.
Un vantaggio di questo sistema era che, dopo, risultava più facile scuoiare la bestiola gonfia d’acqua. (p.160)

La narrazione di Naipaul è punteggiata di incontri con uomini e donne africani, e riporta le loro parole, e le loro interpretazioni degli eventi e della vita. Le ultime pagine del libro sono dedicate al Sudafrica dopo la fine della separazione tra bianchi e neri. Situazione difficilissima, ben spiegata dalle parole di Winnie Mandela, e da quelle di Rian Malan, l’ultimo personaggio cui lo scrittore concede la parola.

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Semi magici

Ho scambiato alcune battute via internet col mio amico Alberto Astolfi sul romanzo di V.S. Naipaul Semi magici (Magic Seeds, 2004, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Adelphi 2007). Eccole qui.
A. Cosa pensi di questo libro di Naipaul?
B. Siccome è una continuazione di Una vita a metà, che avevo trovato fiacco, quando ho iniziato a leggerlo ero predisposto a trovarlo similmente fiacco, ma mi sono ricreduto. Qui Naipaul dà il meglio di sé, non tanto nella figura del protagonista, che continua a sembrarmi un erede dell’uomo vuoto novecentesco tipico, ma nella delineazione degli ambienti, e del clima storico. E tu che ne pensi?
A. Sono d’accordo con te. Sai che io non sono un grande amante di Naipaul, anche se ho letto parecchi suoi libri, ma mi pare che questo sia molto interessante. Forse anche perché la parte sulla guerriglia comunista in India può soprendere chi ne conosce poco. Infatti c’è stato un comunismo indiano virulento nelle campagne di certi stati, e molti morti, e fatti di cui in Occidente si sa poco.
B. Guarda che il comunismo naxalita in India c’è ancora, anche se ha subito molti rovesci. Il lato moderno e tecnologico dell’India odierna qui in Naipaul non appare affatto. C’è il suo aspetto poco attraente degli altri libri di Naipaul sull’argomento: la sporcizia, l’irrazionalità, le conseguenze perverse della dominazione straniera (non tanto inglese quanto islamica). L’avversione di Naipaul per l’Islam è davvero patente. Ad un certo punto lo chiama semplicemente la “fede dell’Arabia”.
A. Quello che mi ha maggiormente colpito è il tipo dell’uomo scricciolo, cioè il contadino piccolo e gracile creato da secoli di denutrizione delle masse contadine imposta dai dominatori (islamici). Per Naipaul l’Islam è il grande artefice della decadenza culturale dell’India, anzi, della sua perdita di identità. Ma oltre alla mancanza dell’aspetto moderno dell’India, manca anche qualsiasi accenno al fondamentalismo indù, che oggi è un fattore potentissimo.
B. Sì, però bisogna tener conto che gli anni in cui il protagonista si trova tra le file della guerriglia comunista non sono questi ultimi. Ma certo l’Induismo aggressivo non è nato adesso.
A. D’altra parte quando Willie Chandran torna a Londra, non è che la situazione lì sembri particolarmente allettante. Soprattutto i rapporti tra i sessi appaiono estremamente problematici.
B. Willie è nato in India, poi è stato a Londra, poi anni in Africa, poi in Germania, poi in India a fare il guerrigliero, infine di nuovo a Londra…
A. Mi viene in mente Peer Gynt, ma non so se a proposito…
B. Ma sì, è sempre la ricerca dell’identità, che non si trova da nessuna parte, col soggetto individuale che annaspa e le tenta tutte, fino all’adesione ad un Movimento, al tentativo di trovare il senso facendosi mera cellula di un organismo più grande, il quale sa dove va (lui e la storia). Una parabola che è stata di moltissimi.
A. È stata anche mia, in qualche modo, quando dopo il Sessantotto mi proclamavo comunista e vedevo il male assoluto nell’America. Adesso ci vivo e ci lavoro, e non tornerei più in Europa, neanche se mi pagassero uno stipendio uguale a quello che prendo qua a Grousehunting.
B. Come molti continuano a fare, vedere il male assoluto nell’America. Pensa che ci sono degli intellettuali che sostengono che le Torri Gemelle se l’è buttate giù Bush…
A. C’è una frase per questi qui nel libro di Naipaul, che mi è piaciuta molto. «Nessuno è più vanesio e perverso di chi sta in basso e vuole raddrizzare il mondo» (97).
B. Sono sempre più convinto che il tipo idealista abbia arrecato all’umanità infinitamente più danni del tipo cinicamente realista. Concordo con la conclusione del romanzo: «È sbagliato avere una visione ideale del mondo. È qui che cominciano i guai. È qui che ogni cosa comincia a sfasciarsi» (p. 329).

Una civiltà ferita: l’India

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Naipaul ci presenta un’immagine non molto attraente – e certo sottratta alla fascinazione cui sono spesso soggetti gli occidentali – dell’India che percorre tra il 1975 e il 1976, nel libro India: a Wounded Civilization (Versione italiana Una civiltà ferita: l’India, trad. M. Dallatorre, Adelphi, Milano 2001). Lo sguardo di Naipaul, né indiano né occidentale, porta alla luce la miseria essenziale della civiltà indiana: secoli di dominio straniero ( prima musulmano, poi britannico), incapacità di autoanalisi, arcaismo tradizionalistico autoassolutorio e deresponsabilizzante, incapacità di superare la divisione in caste. Insomma, l’induismo come religione onnipervadente e debilitante.

“Ci ha esposti a mille anni di sconfitte e di stasi. Non ha dato agli uomini nessuna idea di contratto sociale, nessuna idea dello Stato” (p. 81). Dato il mio orientamento culturale, le pagine più interessanti mi paiono quelle che offrono elementi di antropologia sacrificale. Riporterò qualche passo.

Conosco, per esempio, la bellezza del sacrificio, così importante per gli arii. Era proprio l’idea di sacrificio a trasformare in un rito la preparazione del cibo: la prima cosa cucinata – di solito una pagnottella rotonda, non lievitata, una specie di miniatura, fatta appositamente – era sempre destinata al fuoco, alla divinità. (p. 14)

Le tradizioni della mia infanzia erano a volte misteriose. Non lo sapevo allora, ma i piccoli sassi levigati dentro il tabernacolo della casa di mia nonna, sassi che il nonno aveva portato con sé dall’India insieme alle altre suppellettili, erano dei simboli fallici: ciottoli – di pietra – al posto delle più eloquenti colonne di pietra. E perché proprio una mano maschile doveva impugnare il coltello con cui si tagliava la zucca? Un tempo mi era sembrato – per via dell’aspetto che ha una zucca tagliata a metà, dall’alto in basso – che nel rito ci fosse qualche allusione sessuale. La verità è più raccapricciante, come ho scoperto solo di recente, quando stavo per portare a termine questo libro: nel Bengala e nelle zone vicine la zucca è il sostituto vegetale di una vittima sacrificale; da qui la necessità di una mano maschile. So di essere un forestiero in India, ma mi rendo sempre più conto che i miei ricordi indiani, i ricordi di quell’India che mi sono portato dentro per tutta l’infanzia a Trinidad, sono come botole aperte su un passato senza fondo. (p. 15)

Secondo Naipaul, l’induismo popolare ha in sé un’irrefrenabile tendenza a rovesciarsi in barbarie, come risulta ad esempio dai sacrifici umani ordinati dal grande sovrano di Vijayanagar, Krishna Deva Raya (1509-1529). Egli parla della “facilità con cui l’induismo, perseguendo la continuità interiore e la calma, eliminando la razionalità e l’esigenza di razionalità, possa scadere nella barbarie” (p. 168). In questo senso mi pare assai interessante la citazione, alle pp. 137-138, del drammaturgo Vijay Tendulkar, a proposito dei comunisti naxaliti che dovevano affrontare il problema di mediare le idee rivoluzionarie a masse contadine avvezze da secoli alle idee di un Padrone e di un ineluttabile karma.

Secondo Tendulkar il naxalismo, mentre andava diffondendosi nel Bengala, si confuse con il culto di Kālī: Kālī “la Nera”, la dea aborigena nera come il carbone, che nell’induismo sopravvive come simbolo della distruttivitą femminile, inghirlandata di teschi umani, con la lingua sempre spinta all’infuori per succhiare sangue fresco, destinataria di continui sacrifici, ma insaziabile. Molti delitti compiuti dai naxaliti nel Bengala, secondo Tendulkar, avevano un carattere ritualistico. Il maoismo veniva utilizzato solo per dare una connotazione politica al sacrificio. Alcuni uomini – non necessariamente ricchi e potenti – venivano bollati come “nemici del popolo”, e per legare gli iniziati alla causa – di Kālī, del naxalismo – li si faceva assistere all’uccisione di questi nemici e intingere le mani nel sangue.

All’inizio, quando il movimento era ancora remoto e sembrava rivoluzionario e altamente drammatico, la stampa di Calcutta pubblicò macabre, dettagliate cronache delle uccisioni, e fu proprio in quei ripetitivi resoconti che Tendulkar colse l’aspetto rituale del delitto a sfondo religioso. Quando però il movimento si avvicinò alla città la stampa ebbe paura, e il suo interesse venne meno. Fu come una fosca faccenda di delitti casuali, e con iniziati perlopiù adolescenti, che il movimento arrivò a Calcutta, entrò a far parte della violenza di quella città crudele, e poi si spense. La buona causa – nel Bengala, perlomeno – si era persa molto tempo prima nel culto di Kālī.

L’intreccio tra religione, società e civiltà è estremamente fitto: lo dimostrano anche i fatti di Birmania di questi giorni.