Una civiltà ferita: l’India

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Naipaul ci presenta un’immagine non molto attraente – e certo sottratta alla fascinazione cui sono spesso soggetti gli occidentali – dell’India che percorre tra il 1975 e il 1976, nel libro India: a Wounded Civilization (Versione italiana Una civiltà ferita: l’India, trad. M. Dallatorre, Adelphi, Milano 2001). Lo sguardo di Naipaul, né indiano né occidentale, porta alla luce la miseria essenziale della civiltà indiana: secoli di dominio straniero ( prima musulmano, poi britannico), incapacità di autoanalisi, arcaismo tradizionalistico autoassolutorio e deresponsabilizzante, incapacità di superare la divisione in caste. Insomma, l’induismo come religione onnipervadente e debilitante.

“Ci ha esposti a mille anni di sconfitte e di stasi. Non ha dato agli uomini nessuna idea di contratto sociale, nessuna idea dello Stato” (p. 81). Dato il mio orientamento culturale, le pagine più interessanti mi paiono quelle che offrono elementi di antropologia sacrificale. Riporterò qualche passo.

Conosco, per esempio, la bellezza del sacrificio, così importante per gli arii. Era proprio l’idea di sacrificio a trasformare in un rito la preparazione del cibo: la prima cosa cucinata – di solito una pagnottella rotonda, non lievitata, una specie di miniatura, fatta appositamente – era sempre destinata al fuoco, alla divinità. (p. 14)

Le tradizioni della mia infanzia erano a volte misteriose. Non lo sapevo allora, ma i piccoli sassi levigati dentro il tabernacolo della casa di mia nonna, sassi che il nonno aveva portato con sé dall’India insieme alle altre suppellettili, erano dei simboli fallici: ciottoli – di pietra – al posto delle più eloquenti colonne di pietra. E perché proprio una mano maschile doveva impugnare il coltello con cui si tagliava la zucca? Un tempo mi era sembrato – per via dell’aspetto che ha una zucca tagliata a metà, dall’alto in basso – che nel rito ci fosse qualche allusione sessuale. La verità è più raccapricciante, come ho scoperto solo di recente, quando stavo per portare a termine questo libro: nel Bengala e nelle zone vicine la zucca è il sostituto vegetale di una vittima sacrificale; da qui la necessità di una mano maschile. So di essere un forestiero in India, ma mi rendo sempre più conto che i miei ricordi indiani, i ricordi di quell’India che mi sono portato dentro per tutta l’infanzia a Trinidad, sono come botole aperte su un passato senza fondo. (p. 15)

Secondo Naipaul, l’induismo popolare ha in sé un’irrefrenabile tendenza a rovesciarsi in barbarie, come risulta ad esempio dai sacrifici umani ordinati dal grande sovrano di Vijayanagar, Krishna Deva Raya (1509-1529). Egli parla della “facilità con cui l’induismo, perseguendo la continuità interiore e la calma, eliminando la razionalità e l’esigenza di razionalità, possa scadere nella barbarie” (p. 168). In questo senso mi pare assai interessante la citazione, alle pp. 137-138, del drammaturgo Vijay Tendulkar, a proposito dei comunisti naxaliti che dovevano affrontare il problema di mediare le idee rivoluzionarie a masse contadine avvezze da secoli alle idee di un Padrone e di un ineluttabile karma.

Secondo Tendulkar il naxalismo, mentre andava diffondendosi nel Bengala, si confuse con il culto di Kālī: Kālī “la Nera”, la dea aborigena nera come il carbone, che nell’induismo sopravvive come simbolo della distruttivitą femminile, inghirlandata di teschi umani, con la lingua sempre spinta all’infuori per succhiare sangue fresco, destinataria di continui sacrifici, ma insaziabile. Molti delitti compiuti dai naxaliti nel Bengala, secondo Tendulkar, avevano un carattere ritualistico. Il maoismo veniva utilizzato solo per dare una connotazione politica al sacrificio. Alcuni uomini – non necessariamente ricchi e potenti – venivano bollati come “nemici del popolo”, e per legare gli iniziati alla causa – di Kālī, del naxalismo – li si faceva assistere all’uccisione di questi nemici e intingere le mani nel sangue.

All’inizio, quando il movimento era ancora remoto e sembrava rivoluzionario e altamente drammatico, la stampa di Calcutta pubblicò macabre, dettagliate cronache delle uccisioni, e fu proprio in quei ripetitivi resoconti che Tendulkar colse l’aspetto rituale del delitto a sfondo religioso. Quando però il movimento si avvicinò alla città la stampa ebbe paura, e il suo interesse venne meno. Fu come una fosca faccenda di delitti casuali, e con iniziati perlopiù adolescenti, che il movimento arrivò a Calcutta, entrò a far parte della violenza di quella città crudele, e poi si spense. La buona causa – nel Bengala, perlomeno – si era persa molto tempo prima nel culto di Kālī.

L’intreccio tra religione, società e civiltà è estremamente fitto: lo dimostrano anche i fatti di Birmania di questi giorni.

2 pensieri su “Una civiltà ferita: l’India

  1. Il pittore william Cogdon diceva l’India “buco nero del mondo”: la propensione mai contrastata all’oceanicità la colloca contro la modernità irrinunciabile,il pensiero di Cristo.

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