Sul genere

Sull’ultimo numero del Covile c’è una mia nota sulla questione dei generi. Il mio approccio è antropologico-dialettico, e implica una metafisica assai differente da quella a-dialettica del mio interlocutore Armando Ermini. Che però parzialmente mi fraintende: io non sostengo affatto che l’attuale venir meno delle differenze sia un bene di per sé.

*  *  *  *  *  *  *

Il discorso sui generi, sul maschile e femminile intesi come princìpi, è di una straordinaria complessità. E lo è anche perché non può essere affrontato in modo astratto e metafisico, e nemmeno in quella chiave di metafisica traballante e mistificata che è la teoria su basi psicoanalitiche. Non può per il fatto che noi abbiamo coscienza della sua essenziale storicità. Il genere, infatti, la sua “essenza” e i suoi limiti si determinano storicamente, nel divenire delle culture.
Se in natura una femmina è semplicemente quella che depone le uova o partorisce, e per il resto il suo comportamento, al di là della sfera della riproduzione-cura dei piccoli, può essere del tutto analogo a quello del maschio (come la leonessa o la cagna da caccia – e si pensi alle iene femmine, più grandi e aggressive dei maschi della loro specie, come avviene per gli uccelli da preda), tra gli umani il rapporto tra i sessi si pone in termini culturali. Cosa che può portare ad un estremo grado di tensione la società umana nel suo insieme.
Ora, le cosiddette società tradizionali presentano chiare distinzioni di ruoli tra i maschi e le femmine. La società tecnotronica occidentale contemporanea no: in linea di principio tutto quello che fanno gli uomini può essere accessibile alle donne. Questa è mancanza di discriminazione, cioè di posizione di un discrimen, di una distinzione che separa. Poiché la discriminazione per noi è un male. Ma perché è un male? Lo è per il pensiero vittimario che si è affermato in tutto l’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale. È un effetto dell’orrore cui il mondo è stato portato dalla persecuzione degli ebrei. Dalla discriminazione degli ebrei si è passati a quella dei neri, poi dei giovani (1968), delle donne, ecc. Insieme a questa lotta contro le discriminazioni, si è sviluppato quello che Eric Gans chiama il senso di colpa bianco (white guilt), ovvero l’attribuzione di una colpevolezza a tutti coloro che non abbiano in sé lo stigma della minorità, dell’oppressione, dell’esclusione. Il non-discriminato come colpevole: dunque l’adulto maschio di razza bianca messo nella condizione del capro espiatorio. A sua volta tentato, quindi, di sviluppare un suo vittimismo. Questa è la nostra condizione. Se si vuole pensare autenticamente, occorre sforzarsi di liberarsi dei vincoli posti dal risentimento e dal vittimismo, che sono inestricabilmente collegati.

Il discorso di Illich, come viene presentato da Armando Ermini, presenta in questo contesto vari motivi di interesse, e tuttavia, al di là delle suggestioni, difetta su alcuni punti. Ne tocco velocemente due.
Anzitutto viene saltata la questione del punto di vista femminile. Questo mi sembra del tutto centrale. Con una conseguenza filosofica anzitutto. Se si sostiene infatti che esiste un essere donna che è ontologicamente differente dall’essere uomo, questa differenza ontologica per essere inconfutabile dovrebbe essere affermata su di un piano superiore a quello su cui si pongono le differenze di genere stesse. Dovrebbe quindi situarsi sopra uomini e donne, i quali però entrambi dovrebbero comprenderla e farla loro. Altrimenti la differenza sarebbe intesa come imposizione del più forte sul più debole. Ma nella realtà i termini in cui la differenza di genere si configura sono il risultato del bilanciamento di una serie di forze storico-culturali, sono soggetti al divenire, e presentano molti aspetti accidentali.
In secondo luogo vi è la genesi del punto di vista femminile, il suo venire alla luce nel corso degli ultimi tre secoli. Non si può infatti discutere del rapporto tra maschile e femminile nella società contemporanea senza una visione del processo storico che ha portato alla caduta di ogni discriminazione, e che comincia ben prima della Seconda Guerra Mondiale. In questo processo un ruolo fondamentale è stato svolto dalla lotta culturale in favore della libertà della donna di scegliere per sé, autonomamente, il proprio sposo. La libertà di scelta, che nelle società tradizionali non esiste. In questo il romanzo è stato fondamentale come diffusore di un’idea di libertà di scelta dell’oggetto d’amore. Sono profondamente convinto che il principio del diritto della donna di scegliere se sposarsi o meno, e chi sposare, non si sarebbe mai affermato in un contesto sociale non permeato dal Cristianesimo. Infatti è stato il Cristianesimo a frantumare alla radice il principio della famiglia come totalità entro la quale il singolo non gode della libertà di operare una scelta (ve la immaginate una ragazza romana che dice al padre di voler cambiare religione?). “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.” Matteo 10, 35-36.
Una volta introdotto quel principio, il resto è venuto da sé: prima la fede, poi lo sposo. Il fatto che ci siano voluti tanti secoli per far apparire naturale questa libertà di scelta la dice lunga anche sul concetto di naturalità e natura.
Ed è altresì evidentissimo come questo principio di libertà sia contagioso. Difendere la società tradizionale e insieme il principio della libertà della singola persona è contraddittorio.

6 pensieri su “Sul genere

  1. Vorrei proporre un percorso di ricerca su alcuni aspetti della modernità parallelo a quello tracciato da Brotto. Il titolo di questo percorso potrebbe essere il seguente: la simbiosi tra l’‘emancipazione accidiosa’ e la ‘cultura del narcisismo’ (mi riferisco ovviamente al fondamentale saggio di Christopher Lasch). Si tratta di un paradigma culturale che, per un verso, produce la ‘de-generazione’ e, per un altro verso, è così attraente, avvolgente e affabile che è difficile resistergli. Provo a delineare alcune facce di questo paradigma.
    La prima è l’uso dissipativo del tempo libero, la ‘carnevalizzazione’ della maggior parte del nostro tempo libero e anche di buona parte del tempo occupato. Questo è un cambiamento ontologico profondo, perché, ad esempio, ha trasformato completamente la natura del nostro viaggiare. Il viaggiare, che era una volta una forma primaria di conoscenza accompagnata sempre da una certa quota di incertezza, di rischio e di àlea, adesso è diventato essenzialmente una manifestazione dissipativa. La scotomizzazione di taluni aspetti della realtà si manifesta con particolare evidenza nel corso di viaggi in luoghi di per sé pericolosi e oscenamente repressivi come la Thailandia e le Maldive, dove si può fare una vacanza di sogno ignorando che fuori del ‘muro’ visibile o invisibile, dal quale si è protetti, della gente viene massacrata.
    La seconda questione, anche questa connessa con un cambiamento ontologico piuttosto che antropologico, è la perdita della distinzione tra la realtà e la finzione, che, a mio sommesso giudizio, è la radice profonda della questione, relativa al dileguarsi delle differenze e della capacità positiva di discriminazione, affrontata da Brotto. Orbene, la cultura occidentale ha lavorato per secoli con l’intento di costruire un concetto di realtà e la scienza si è accreditata soltanto quando ha potuto contare su qualche entità considerata come reale, come ‘qualcosa che sta lì’ e che noi possiamo studiare ‘in quanto sta lì’. Sennonché questo concetto è ormai irrilevante: non a caso, gli studi scientifici sono molto poco ricercati negli ultimi decenni in quasi tutto il mondo evoluto e l’Europa registra un calo generalizzato degli accessi a tali studi. Sarebbe interessante capire se ciò possa dipendere dal fatto che si cercano occasioni di successo più facili di quelle che si possono conseguire nella scienza o anche dal fatto che lo studio del reale in quanto tale diventa sempre meno interessante rispetto alla fruizione del mondo fasullo presentato dalla televisione e dai mass media.
    Un altro aspetto importante della simbiosi tra ‘emancipazione accidiosa’ e ‘cultura del narcisismo’ è l’esaltazione esplosiva del ruolo della visione e dell’occhio nella conoscenza e nel rapporto fra le persone. Vale allora di pena di osservare che la visione, pur essendo uno dei nostri sensi fondamentali, è, alla fin fine, il senso più cinico che abbiamo. Infatti, noi possiamo, spostando appena lo sguardo, ignorare che qualcuno ci muore accanto oppure, con l’aiuto della mediazione arcitecnologica della televisione che trasforma tutto ciò che vediamo in qualcosa di falso, possiamo guardare una catastrofe come se fosse uno spettacolo. Occorre, quindi, prestare molta attenzione alla fenomenologia della visione e alle conseguenze che l’esplosione del codice visivo determina nella nostra conoscenza e anche, questo è l’ultimo aspetto, nella evoluzione delle nostre passioni.
    In definitivai, quella simbiosi ha generato degli effetti anche nella sfera interiore: la crisi della compassione e la virtuale scomparsa della vergogna, segnalate da diversi osservatori a partire da Zygmunt Baumann, sono in tal senso due indicatori di straordinario interesse. Il catalogo delle passioni, elaborato da filosofi, scrittori e artisti, da tutti coloro che hanno riflettuto o creato a ridosso delle passioni, deve essere pertanto rivisto. La vergogna è scomparsa, la compassione anche. È abbastanza evidente che vi è una relazione tra questa rielaborazione dell’ordine delle passioni e l’importanza assunta dal vedere. A forza di vedere, tutto ciò che vediamo ci appare come estraneo a noi stessi. L’idea lucreziana del ‘naufragio con spettatore’ è una potente rappresentazione di questa situazione: lo spettatore può guardare un naufragio sapendo che non lo coinvolge, che è lontano da lui e, quindi, può goderselo fino in fondo come spettacolo straordinario. È un’immagine che può essere facilmente riportata ai nostri tempi.
    In conclusione, è importante, come fa lo stesso Brotto con il suo approccio antropologico-dialettico, spostare il ‘focus’ dell’analisi dalle strutture ai soggetti. Così, oggi è molto importante cercare di capire perché nel capitalismo contemporaneo si sia determinata una frattura tra la dimensione materiale e la dimensione simbolica, perché soggetti che sono radicati in determinate strutture materiali abbiano una mentalità così distante dalla loro condizione economica e sociale e donde attinga la sua potenza quella ‘de-generazione’ che, nel mondo occidentale e, ormai, anche nel mondo extraoccidentale, alimenta un complesso di egemonie e di politiche.

  2. Molto interessante sia il post di Fabio che la nota di Barone.
    Per parte mia, direi solo che la posizione di Illich NON difende una presunta differenza ontologica tra uomo e donna, si limita a registrare che le società vernacolari esibiscono un tipo di economia che è essenzialmente domestica (ma ancora per Aristotele l’economia è crematistica, cioè domestica) dove la divisione del lavoro nasce dai rapporti naturali tra i generi e le generazioni (vecchio adulto bambino). L’orientamento verso un lavoratore neutro (de-sessualizzato) è invece frutto dell’egemonia del modo di produzione industriale.
    In secondo luogo, direi che imputare tutto al pensiero vittimario come fa Gans mi sembra eliminare l’aspetto centrale della dimensione estetico-affettiva, che viene schiacciata tra il puramente biologico e il morale. Mi spiego: se la società industriale toglie dignità e importanza pubblica al lavoro domestico, la donna desidera entrare nell’ambito professionale del lavoro salariato perchè è l’unico che consente un riconoscimento sociale.
    Non so se conoscete il primissimo libro di Christopher Lasch, “Rifudgio in un mondo senza cuore”. E’ uno studio sulla famiglia dal mondo pre-industriale ad oggi (nel mio blog ne ho postato uno stralcio). Il difetto di molte teorie antropologiche è quello di isolare le questioni di genere dall’evoluzione della comunità familiare, cioè il contesto concreto in cui la dialettica dei generi si svolge.

  3. -Se si vuole pensare autenticamente, occorre sforzarsi di liberarsi dei vincoli posti dal risentimento e dal vittimismo, che sono inestricabilmente collegati.-

    bella e condivisibile affermazione!

    la rabbia e l’autocommiserazione annebbiano i sensi, e quindi il giudizio imparziale.

  4. Il numero de Il Covile a cui si riferisce Fabio Brotto, che mi risulta non ancora in rete, è un numero monografico dedicato alla problematica maschile/femminile. Oltre ai miei due interventi iniziali ed alla replica soprastante, ospita anche uno scritto di Gabriella Rouf e i miei commenti su entrambi. I lettori che sono interessati lo potranno trovare fra breve.
    In questa sede vorrei solo chiedere a Fabio Brotto perchè la mia metafisica (ma credo onestamente che sia troppo onore definirla tale), sarebbe a-dialettica.
    Vorrei anche precisare che non mi sembra di avergli attribuito il pensiero che il venir meno delle differenze sia positivo in sè. Anche secondo me ci sono differenze diciamo così”differenti”. Alcune, facenti parte del divenire storico e dell’evoluzione dei rapporti, può essere positivo che vengano meno. Per altre, che a mio parere sono inscritte nell’ontologia di genere, è invece negativo. A questo proposito identifico l’ossessione della nostra epoca non tanto nel pensiero vittimario, che semmai ne è effetto, ma nell’attribuire qualsiasi differenza a un elemento di discriminazione.
    Infine, e chiudo, quando Vbinaghi scrive che per Illich nelle società tradizionali “la divisione del lavoro nasce dai rapporti naturali tra i generi e le generazioni”, che altro può voler dire se non che fra maschile e femminile esistono differenze ontologiche che fondamentalmente, ed al netto dell’evoluzione storica, tendono a riflettersi sia nelle condizioni materiali dell’esistenza sia nella diversa concettualizzazione del mondo?
    A mio parere non vi sono alternative, a meno che si pensino corpo e psiche come del tutto scissi, compartimenti stagni attribuibili il primo alla natura e il secondo alla cultura. Ma non è forse questa la base su cui è costruita la teoria del Gender che legge il corpo come puro “accidente”?

  5. Rispondo su due punti (per il momento) all’amico Ermini, scusandomi per il fatto di aver erroneamente presunto che il numero del “Covile” in questione fosse già stato pubblicato.

    Definisco a-dialettico un pensiero sostanzialistico, che sussume l’essere come già dato, e anche l’essere degli enti, prescindendo dal linguaggio in cui questo essere è affermato, e pensando il linguaggio stesso come sempre già avente una struttura dichiarativa (cioè di proposizione dichiarativa), e affermandone la preesistenza all’umano stesso. Definisco dialettico un pensiero che pensa l’essere come relazione, e quindi è in grado di pensare il linguaggio come avente una origine e uno sviluppo (ostativo, imperativo, dichiarativo) sempre basato sulla relazione. Una metafisica a-dialettica è incapace di farsi carico pienamente della ragione dell’altro, perché lo pone come semplice e puro altro, senza poter pensare che l’altro è insieme anche non-altro, perché la sua alterità scaturisce dall’identità, e viceversa. Per questo, una metafisica come quella di Ermini (tutti abbiamo una metafisica di riferimento, anche se non la costruiamo in prima persona o non ne siamo consapevoli) non solo non è dialettica, ma non può neppure essere dialogica, perché finisce necessariamente per accogliere come modelli archetipici invariabili delle posizioni con cui l’altro qui e ora presente (il pensiero femminista, la donna occidentale contemporanea) non può che avvertirsi in conflitto.
    Ermini nel testo del “Covile” sposa tesi come queste di Bertacchini:

    – Mentre nel maschi la conformazione (esterna)
    dell’apparato genitale orienta all’indipendenza
    e alla proiezione fuori da sé, nella femmina la
    conformazione (interna) orienta invece alla consapevolezza
    della propria dipendenza/funzionalità.
    – Mentre il corpo maschile esprime forza, quello
    femminile esprime tenerezza la quale rimanda
    all’accoglienza e al simbolismo del nido e della
    casa (sicurezza, rifugio, riposo) la cui simbolica ripete
    i riti della gestazione.
    – La gestazione, l’essere due in uno, è centrale
    anche per il tipo di conoscenza e di modellizzazione
    della realtà, che tende a unire gli opposti
    privilegiando l’uso dell’emincefalo destro del cervello.”

    Dove è evidente che la donna viene riportata a quel “coraggio dell’obbedienza” di cui dice Aristotele. E la proiezione del maschio fuori da sé è tale da determinare i confini del femminile “dipendente/funzionale”. Se una donna affermasse che dal suo punto di vista il maschio serve solo alla fecondazione, e per il resto è inutile o dannoso, saremmo allo stesso livello di argomentazione a-dialettica.

  6. Per quel che riguarda il “pensiero vittimario”, non è questo a scaturire dal fatto di vedere tutte le discriminazioni come negative, è vero l’esatto contrario. La genesi qui è storica senza possibilità di dubbio, ed è legata alle discriminazioni contro gli Ebrei, che hanno portato allo Sterminio. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la discriminazione-persecuzione contro gli Ebrei ha costituito un modello negativo che si è a tal punto impresso nella mente degli Occidentali da spingere all’individuazione di tutta una serie di “vittimizzazioni” legate sempre ad una discriminazione. E’ perché la discriminazione produce vittime che essa è rifiutata e combattuta. Il pensiero vittimario vede discriminazioni ovunque, e vittime in ogni luogo.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...