Vita e destino (trad. it. di C. Zonghetti, Adelphi 2008) è del 1960, ma Vasilij Grossman non vide mai la pubblicazione del suo capolavoro, perché la polizia politica sovietica lo sequestrò. Mi viene da chiedermi quanti libri di grande valore siano abortiti, per così dire, nelle grandi società totalitarie, non avendo la fortuna postuma di questo. E questo è un romanzo per cui è difficile trovare aggettivi, tanto è, in tutti i sensi, grande. Forse l’aggettivo che più gli si addice è poderoso. L’hanno chiamato il Guerra e pace del XX secolo, ed è così per vari motivi. È fortemente russo e nello stesso tempo universale; è immenso e ricchissimo di personaggi, e questi hanno una vita intensa anche quando appaiono per qualche riga, come avviene in Tolstoij; la guerra vi è dipinta nella sua verità, come orrore e come fascino, come annientamento e come riscatto. E vi sono tutti i problemi fondamentali del secolo XX, in primis quello del rapporto tra l’individuo e lo Stato.
Lo Stato qui è quello sovietico del 1942, in cui la piramide del potere ha al suo vertice Stalin e in cui la delazione è sempre in agguato, con conseguenze funeste anche per i comunisti più convinti ed ortodossi, cui può capitare di perdere all’improvviso posizione e onore ed essere accusati di collusione col nemico, di antisovietismo, di deviazionismo ecc. ecc. Un incubo continuo. Ma nonostante la mostruosità del potere sovietico la lotta contro l’invasore nazista è sacrosanta. La capacità di distinguere e di problematizzare di Grossman è immensa, e costituisce una lezione anche dal punto di vista storico. La ricchezza di scene è straordinaria. Appaiono anche Hitler e Stalin in momenti di raccoglimento personale che ne fanno emergere la verità. Ci sono sovietici di varia nazionalità e tedeschi, anche nazisti convinti, mai però ridotti a macchiette, e sempre investigati a fondo nelle loro motivazioni e condizionamenti, e si vivono momenti atroci nelle camere a gas ove un intero popolo è distrutto. Eppure, la grandezza dell’arte di Grossman è tale che nel libro non appare alcuna forma di risentimento, e l’umano vi è colto con lo sguardo cristallino di colui che sa cogliere le verità fondamentali. E l’animo umano vi è indagato fin nelle pieghe più riposte. Esemplare in questo senso la vicenda di uno dei personaggi principali, il fisico nucleare ebreo sovietico Strum, la cui teoria ad un certo punto viene accusata di idealismo dai colleghi e dal partito, e che decide di mantenersi coerente e libero a costo di finire in Siberia, ma dopo una telefonata personale di Stalin che lo appoggia e gli consente di riprendere il lavoro, si inebria a tal punto del sostegno del dittatore da firmare una lettera che accusa degli innocenti, autogiustificandosi pur nel tormento e perdendo la felicità e la pace interiore appena riacquistate. Come a dire che per la libertà dell’anima l’appoggio del Potere è più pericoloso della sua inimicizia.
Grande e virile è la pietà di Grossman per tutti gli uomini, ma non è una pietà che rinuncia al giudizio. Come scrive verso la fine del romanzo:
Deboli sono i giusti e deboli i peccatori. La differenza è che, compiuta un’opera buona, un uomo meschino se ne vanta in eterno, mentre il giusto non si accorge nemmeno delle sue buone azioni, ma ricorda in eterno un peccato che ha commesso. (p. 799)
E’ un libro che avevo in programma di leggere.
Il tuo giudizio mi spinge a farlo al più presto.
Caro Valter, questo non è un libro, è un mondo.
L’ha ribloggato su Brotture.