Su Descartes

Eros Barone mi invia questo commento, che pubblico come post autonomo.

Il Discours come autobiografia dell’individuo problematico

Ancora una volta il ‘blog’ dell’amico Fabio Brotto si rivela puntuale nella scelta dei riferimenti filosofico-letterari e fecondo nelle piste di riflessione che suggerisce ai suoi frequentatori e commentatori, categoria alla quale sono lieto di potermi ascrivere. Se Brotto mi concede ospitalità, come ha già fatto altre volte con la liberalità di modi e l’apertura culturale che lo contraddistinguono, vorrei quindi avanzare alcune considerazioni, sul carattere di impersonalità che il grande saggista spagnolo Miguel de Unamuno attribuisce al “Discours”.

Infatti, a me pare che questo testo fondativo (non solo della filosofia ma) della cultura moderna proponga un’esperienza soggettiva come trama dell’analisi di un’epoca e, a partire da tale esperienza, un metodo e una metafisica. In questo preciso senso, il “Discours” può essere letto come un romanzo filosofico (assimilabile, anche per le marche narrative che lo segnano, al genere del ‘Bildungsroman’). Tale peculiarità del “Discours” è da intendersi tanto in senso formale (il “Discours” è un’autobiografia che descrive un rapporto problematico tra il soggetto e il mondo) quanto in senso sostanziale (la tensione fra soggetto e mondo, che dà vita al dramma filosofico e storico narrato nel “Discours”, si chiude con una consapevole autolimitazione del soggetto). Le indicazioni fornite da un grande studioso del rapporto tra letteratura e società, György Lukács, dimostrano la produttività ermeneutica di questa chiave di lettura del “Discours”.

Lukács, nella “Teoria del romanzo” (1920), definisce il romanzo come “l’epopea del mondo disertato dagli dèi”, osserva che gli dèi, una volta scacciati, non hanno completamente abbandonato il mondo, bensì sono diventati “dèmoni”, e ne conclude che la formula del dio diventato dèmone è strettamente connessa a quella dell’‘individuo problematico’. Infatti, precisa lo studioso ungherese, «qualora l’individuo non sia problematico le sue mete gli son date con evidenza e il mondo, la cui costruzione è il frutto dell’attuazione di tali mete, può dargli solo ostacoli, mai un pericolo interiore davvero grave, che si manifesta solo quando il mondo esterno non sia più posto in relazione con le idee». (1)

D’altronde, la vocazione di Descartes per l’autobiografia si inscrive perfettamente nel costume letterario del tempo (così come l’amore per i viaggi, si pensi alle Province unite e all’Italia, sembra corrispondere a un codice del secolo) e la letteratura scopre nel rapporto con se stessi una nuova dimensione del rapporto con il mondo, che trova un’espressione profondamente nuova nell’individualismo di Montaigne. L’influenza di questo scrittore sul Descartes del “Discours” si manifesta non solo nel progetto autobiografico che conferisce a tale opera una nota inconfondibile, ma anche in certi princìpi retorici e stilistici, quali la scelta a favore dell’atticismo contro l’asianismo e la preferenza per le virtù filosofiche di una scrittura fatta per dire le “cose”: «Chi ha più pronta la capacità di ragionare e costruisce meglio i propri pensieri per renderli più chiari e intellegibili, potrà sempre convincere su ciò che propone, anche se parla il basso Bretone e non ha mai studiato Retorica.» (2)

Se si tiene presente che il testo francese del “Discours” è destinato a «chi si serve della propria ragione naturale e assolutamente pura» (3) , cioè, in linea di principio, a “tutti”, diviene possibile comprendere e spiegare sia la frequenza con cui in esso ricorrono le marche dell’enunciazione, esplicita e implicita, e le marche dell’attenzione portata dal soggetto del discorso sulla relazione che egli intrattiene con il suo discorso, sia, data l’importanza strategica del ruolo che svolgono gli elementi affettivi nella preparazione dello “stato di evidenza” (4), lo sforzo in cui Descartes si impegna per raggiungere e persuadere il lettore. È impossibile allora parlare di una impersonalità del testo cartesiano, così come, all’inverso, di una soggettività più o meno fantasmatica, poiché in realtà due soggettività sono accoppiate: l’autore e il lettore, l’Io e gli Altri. L’Io del “Discours”, preso nel contesto di questa relazione tra due soggettività, si rifiuta di essere un soggetto linguistico senza spessore o una mera finzione retorica, quasi l’ombra dello “spirito”, e aspira invece a farsi «uomo tutto intero», secondo la bella espressione di una lettera di Descartes a Beeckmann.(5) Pertanto, anche su questo piano narratologico (oltre che sul piano più profondo cui si riferisce la categoria di ‘Bildungsroman’) acquista forma e corpo la dimensione romanzesca che è propria del “Discours” in quanto racconto di un uomo in cerca della saggezza attraverso la ricerca della verità.

Eros Barone

1. G. Lukács, Teoria del romanzo, Sugar, Milano 1962, pp. 107-161.
2. Discours de la Méthode, trad. di E. Lojacono, in Il “Discorso sul metodo”di Cartesio e il problema del metodo nel XVII secolo (a cura di G. Brianese), Paravia, Torino 1988, p. 47.
3. Discours, p. 108.
4. Cfr. G. Rodis-Lewis, L’individualité selon Descartes, Vrin, Paris 1950, p. 156.
5. J. Lafond, Discours et essay, ou de l’écriture philosophique de Montaigne à Descartes, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1990, p. 66.

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