Fuggendo da Miljera, la pittrice aveva lasciato a mezzo l’affresco che stava allora dipingendo. Ora, dopo sette anni di lontananza, tornò al villaggio nativo il povero cacciatore Ghedín,che, vedendo il lavoro incompiuto, volle tentar di finirlo; e poiché nella solitudine di Travenànzes aveva sempre continuato a esercitarsi nella pittura, vi riuscí benissimo, con gran gioia del proprietario della casa e di tutti gli abitanti di Miljera. Intanto Ghedín veniva messo al corrente di quanto era avvenuto durante la sua lunga assenza: udí parlare anche della Filadressa e della sua probabile dimora sui Macài. Ghedín., che conosceva quei muraglioni immensi e aveva udito dire che lassú gli Spiriti delle montagne custodivano i segreti delle loro magie, volle tentare la ricerca del rifugio dell’avvoltoio nero. Si recò quindi ai piedi delle rocce e, rimanendo nascosto per ore e ore, riuscí a veder sortire e rientrare il grande uccello di rapina; ma come scoprire la tana in quel sistema dirupato e complicatissimo di scaglioni e di balze pietrose, di spaccature, di canaloni, di cenge? Malgrado la difficoltà dell’impresa, Ghedín non si perse d’animo, e, dopo molti giorni di pazienti ricerche, di faticose e difficili esplorazioni, riuscí a trovare la tana dell’avvoltoio: era posta vicino a una grande macchia rossa della parete di pietra, che anche oggi si può distinguere dalla valle, nelle ore del pomeriggio, stando presso alla cosí detta Gravòna. Ghedín udí venire da quel punto della roccia il cinguettio allegro di molti uccellini e ne fu un po’ spaventato, perché sapeva che in quei dirupi nudi e freddi non potevano vivere piccoli uccelli: temette quindi che gli Spiriti maligni si fossero accorti della sua presenza lassú e tramassero qualche magia per perderlo. Per precauzione rimase nascosto alcune ore in un crepaccio, prima di riprendere la sua difficile ascensione verso la macchia rossa. La riprese alfine e, arrivato all’orlo della macchia, rimase immobile per lo stupore: sul muro di pietra erano appese molte gabbie d’argento, mirabilmente ornate di filigrana, piene di uccellini. Ghedín poté prenderne una, vuota, che era a portata della sua mano, e la portò a Miljera.
Gli abitanti del villaggio, che sapevano lavorare l’argento, ammirarono gli ornamenti finissimi della gabbia e vollero imitarli: cominciarono cosí i lavori in filigrana d’argento che sono, ancora adesso, una specialità degli Ampezzani.
Ghedín volle conoscere a fondo i segreti della montagna; tornò sui Macài, si arrampicò di nuovo fino alla macchia rossa, e passò l’estate intera su quei dirupi. Un giorno vide l’avvoltoio nero che arrivava a volo con un bimbo fra gli artigli e scompariva nella macchia rossa. Subito dopo Ghedín udí cantare una voce di donna, e quando il canto cessò ricomparve l’avvoltoio che, invece del bambino, aveva fra gli artigli un piccolo uccello; si avvicinò a una gabbia vuota, l’aperse, vi chiuse dentro l’uccellino e volò via, scomparendo in un attimo fra le nubi.
Ghedín raccolse tutte le sue forze per arrampicarsi anche piú in alto, e arrivare al luogo dove doveva essere avvenuta la trasformazione: si trovò cosí in una coronella, cioè una larga cengia, fiorita di stelle alpine. E nelle rocce sovrastanti, tutte screpolate e piene di spaccature, scoperse il nido. Nascosto in una fessura della roccia, lo tenne d’occhio per parecchi giorni, finché, una sera, vide apparir di nuovo l’avvoltoio con un altro bambino; lo vide deporre il bimbo piangente e spaurito sulla coronella, poi trasformarsi nella Filadressa e cullarlo dolcemente fra le braccia. Dopo pochi momenti il bambino s’era cambiato in uccello e la Filadressa, ripresa la sua orribile forma di avvoltoio, andava a chiuderlo in una delle gabbie.
Al primo sguardo Ghedín aveva avuto la certezza che la bella Filadressa non fosse altri che la pittrice del monte Falòria: credendo di non essere stato notato da lei, restò a lungo a osservare le sue andate e venute. Ma ella l’aveva riconosciuto fin dalla prima volta, e un giorno gli rivolse la parola:
– Tos, ce fes-to su chesta crodes? (Giovane, che fai su queste rocce?).
– Son venuto per rivederti, rispose Ghedín, e per chiederti ancora una volta se vuoi essere mia moglie. Sei tanto bella, che vorrei guardarti sempre. Sei un po’ cambiata, è vero, ma io so che è opera d’incanto; vedo bene che sei sotto il dominio di una cattiva Strega e te ne voglio liberare.
La Filadressa lo guardò a lungo, pensosa; poi gli disse:
– È una cosa molto, molto difficile; chi volesse davvero liberarmi dovrebbe prima di tutto finire quell’affresco che io lasciai incompiuto a Miljera.
– Io l’ho finito, disse Ghedín, e tutti quelli che l’han visto hanno detto che era fatto bene.
La Filadressa, sorpresa, guardò ancora lungamente e in silenzio, il bravo giovane.
– Tu conosci il principio della mia storia. Sappi dunque che per vendicarmi di Verlòj chiamai in aiuto la Svalazza; ho avuto cosí la vendetta, ma ho perduto la mia libertà: mi son data in potere della Strega, e ora son costretta a ubbidirle.
Dopo un breve silenzio pieno di ricordi tristi, la fanciulla riprese:
– Fra poche settimane l’estate sarà finita, e un freddo intenso verrà sui Macài: non aspettarlo, Ghedín; torna a Miljera, e passa l’inverno laggiú. Ma quando i giorni lunghi torneranno e il sole splenderà di nuovo sulle Dolomiti, se tu pensi ancora a me, torna qui e ci riparleremo.
E lo lasciò.
Ghedín ubbidí e scese a Miljera, dove abitava sua madre. L’inverno trascorse rapidamente. Ghedin passava le intere giornate nella sua stanza a dipingere un piccolo quadro, e la madre sola conosceva il suo lavoro. Ma il lavoro era difficile; non gli riusciva. Piú volte lo distrusse e lo cominciò da capo, mettendo nell’opera l’opera tutta l’anima sua. Era un ritratto della Filadressa.
E quando i giorni lunghi tornarono, e i monti ampezzani furono di nuovo inondati di luce e di colori, il quadro era finito. Ghedín lo mise nella refa (sacco a spalla) e parti per il Soràpis, alla ricerca della coronella. Arrivato lassú trovò la Filadressa, le donò il quadro e le ripeté ancora una volta la sua proposta di matrimonio.
La fanciulla fu commossa da tanta fedeltà:
– Tu sei il solo, gli disse, che mi abbia veramente compresa, lo vedo da questo quadro; ma ti pentirai della tua proposta, quando avrai visto l’orribile deformità della mia persona.
E alzando le braccia, che aveva sempre tenute nascoste sotto il mantello scuro, fece vedere a Ghedín che al posto delle mani aveva due artigli d’avvoltoio.
Ghedín restò inorridito; ma dopo un momento riprese animo e le disse coraggiosamente:
– Non importa. Continuerai a fare come hai fatto finora, terrai le braccia sempre sotto il mantello, e lascerai vedere soltanto il tuo bel viso.
Gli occhi della fanciulla brillarono di gioia: ella alzò di nuovo le braccia, e Ghedin, felice, vide al posto degli artigli le belle mani gentili della pittrice. La costanza del suo amore aveva rotto l’incantesimo.
– Ora devo ridare la libertà ai bambini rubati.
Per l’ultima volta la Filadressa prese la forma d’avvoltoio e apri tutte le gabbie: cantando gioiosamente, gli uccellini ne uscirono e volaron subito alle loro rispettive case, dove, posandosi sui loro letti, ripresero l’aspetto di bambini.
La Filadressa e Ghedín si sposarono.
Nessuno seppe mai che cosa fosse avvenuto del grande avvoltoio: soltanto Ghedín conosceva il segreto, e si guardò bene dal rivelarlo. Nella sua famiglia però se ne è conservata fino in tempi recenti la tradizione.
Oggi non c’è piú traccia del villaggio di Miljera; ma il sangue dell’antica pittrice si trasmise alle genti dell’Ampezzano, e un poco ne scorreva nelle vene della povera montanara che, in una casa di Campo di Sotto, presso Cortina, diede alla luce Tiziano Vecellio: l’artista sovrano, che nella sua pittura trasfuse meravigliosamente le luci e i colori delle montagne native.
Fra i discendenti di Ghedín e della sua sposa ci sono anche le numerose famiglie ampezzane dei Ghedina e dei Ghedini, che hanno già dato e continuano a dare valentissimi artisti, specialmente pittori: e l’origine del loro talento risale alla loro antenata del Monte Falòria.
E questo sono io, ritratto da mio nonno Gino Ghedina all’età di quattro anni
Bellissimo ritratto, eri proprio un bel bambino