Transit

wab.jpgSi inseguono e si intrecciano, ma non dialogano fra loro, i pensieri e i ricordi dei cinque personaggi di Transit, romanzo di Abdourahman A. Waberi (Transit, 2003, trad. it di A. Belli, Morellini Editore, Milano 2005). Sono tutti in fuga dall’Africa, i personaggi, e passano poche ore nella zona transit dell’aeroporto Charles De Gaulle. C’è l’intellettuale schiacciato dagli eventi, Harbi, c’è la moglie bretone Alice, c’è il figlio giovane Abdo-Julien, c’è il vecchio Awaleh ancora legato alle radici culturali-mitiche africane, e soprattutto c’è il guerriero Bashir Bin Laden, il cui nome di battaglia è già promessa di massacro senza fine.
È proprio quest’ultimo ad apparire ad una coscienza occidentale come il soggetto più interessante, uno che esprime una visione della vita durissima, sconvolgente, davvero totalmente altra rispetto al politicamente corretto, ai buoni sentimenti, alla stessa cultura democratico-progressista contemporanea (e altra rispetto anche a molte altre cose). I pensieri di Bashir Bin Laden sono resi in un linguaggio spesso sgrammaticato e terribilmente mimetico, dal quale emergono tutte le pulsioni dalle quali l’Occidente ha scelto di distogliere lo sguardo. Non è il solito libro di denuncia anticolonialista antimperialista terzomondista, questo, né Waberi vuole invocare una non responsabilità degli Africani per ciò che in Africa è accaduto e continua ad accadere. L’odio per l’Altro africano da parte dell’africano stesso (qui Wadag e Walal provano un odio ancestrale gli uni verso gli altri) è una realtà terribile con cui fare i conti. A Bashir Bin Laden la guerra piace moltissimo, e il kalashnikov è lo strumento di lavoro amato, l’irrinunciabile mezzo della realizzazione di sé. Nella pace, confessa, non si è felici.

Senza kalashnikov non si può più arraffare le ricchezze che sono dappertutto. Non è carità, questa. E poi ‘sta vita civile è tri­ste, non sei più feroce con nessuno. Le belle ragazze, ti boicotta­no. Le brutte ragazze, si girano dall’altra parte quando passi davanti alla loro faccia. I perenni disoccupati, gridano “ecco guarda un nuovo disoccupato” mentre prima facevi: pum! un calcio in pancia tieni stronzo beccati questo e porta a casa. Anche i polli ridono di te. La città, lei dice: la guerra non è bella, non è bella, come il cantante congolese. Io non sono d’accordo. Io dico la guerra è troppo bella. (p. 35)

La guerra è qui scatenamento di tutte le pulsioni. Bashir e compagni si drogano, rapinano, stuprano, vedono morire senza alcun patema d’animo bambini-soldato gettati in battaglia, massacrano bestie e umani allo stesso modo. Sperimentano una esaltazione della virilità come potenza illimitata e senza legge. Una sorta di orgasmo marziale permanente, si potrebbe dire.

Noi, i mobilitati, eravamo felici. Avevamo le armi, il diritto di fare tutto quello che vogliamo. E poi la battaglia non era ancora fero­ce. Era statu quo (anche questo è linguaggio militare). Parità. E anche molti morti, soprattutto ribelli o civili che aiutano sotto sotto i ribelli. Attenzione, bisogna essere seri, ci sono dei morti tra noi, soprattutto giovani mobilitati senza esperienza come me, o Aïdid, Warya, Ayanleh, Haïssama. Un sacco di giovani mobi­litati (chissà perché, dico giovani mobilitati, sono tutti giovani, no?) si sono beccati pallottole nello stomaco. Questa è la guerra ma non bisogna piangere troppo come le mamme. Un uomo con il vero coso duro tra le gambe non piange mai come femmi­nuccia. Punto e basta. Strisciate. (p. 47)

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