Lingue di fuoco (Tongues of Flame, 1985, trad. it. di R. Baldassarre, Adelphi 1995) è un romanzo di Tim Parks che presenta ai miei occhi più di un elemento di interesse. Ambientato nella Londra in fermento degli anni Sessanta, con le sue sub-culture giovanili in formazione e perenne metastasi, offre anche un interno religioso e antropologico formidabile. La vicenda è narrata da un alter ego dello scrittore, figlio di un pastore protestante, che si trova a confrontarsi con un’ondata di fanatismo carismatico che destruttura la vita delle comunità consolidate e tradizionaliste. Le lingue di fuoco sono anzitutto il manifestarsi di un fenomeno di invasamento collettivo (il riferimento alla glossolalia del Nuovo testamento è evidente) che porta a dinamiche di gruppo in cui la soggettività è annientata in favore dell’anima collettiva. E non ci si deve stupire se, in forme non poi tanto travestite, compare la naturale tendenza umana all’individuazione del capro espiatorio. Mirabilmente, il diciassettenne fratello dell’io narrante, il ribelle e ateo e ironico Adrian, ha anche il più classico dei segni vittimari: un piede deforme. E finirà per essere esorcizzato perché ritenuto un indemoniato. Nel cuore della modernità rampante si annidano i vecchi demoni della persecuzione e dell’espulsione.
Questi fenomeni di fanatismo e perdita della misura e della razionalità li ho potuti constatare anche nel più strutturato e gerarchico ambiente cattolico, in anni passati (c’è stata anche in Italia un’ondata di carismatismo): tuttavia, mi piacerebbe che lo scrittore (non solo Parks, lo scrittore) andasse alla ricerca del religioso e del sacro violento là dove in apparenza il sacro e il religoso sono stati eliminati e superati. Infatti, il sacro ha una dimensione infinitamente più vasta di quella delle religioni dichiarate. Ma qui il terreno è difficile, e richiede vero genio.