Conversazione sul male

her1.jpgL’ancora del mediterraneo ha pubblicato, nel 2000, un dialogo tra Gustaw Herling ed Édith de la Héronnière, dal titolo Variazioni sulle tenebre. Conversazione sul male. Ne riporto l’inizio.

Come intende cominciare?

Vorrei cominciare da un racconto. Durante l’estate dello scorso anno è venuto da me un giovane studente del seminario religioso superiore della città polacca di Pelplin, per una breve intervista. Avendo letto alcuni miei libri, era interessato al mio atteggiamento in rapporto al Male. Secondo lui, giovane seminarista, il Male può essere definito come l’assenza del Bene. Questo punto di vista è estremamente diffuso tra i cattolici, per i quali il Male è semplicemente mancanza del Bene, una specie di disordine causato da rapporti non corretti, non precisi tra gli elementi del Bene. Il Male, cioè, ha origine da una disposizione irregolare degli elementi del Bene.
Il mio punto di vista a tal proposito è profondamente diverso. Sono manicheo. Sono del parere che il Male esista in modo immanente, come un fenomeno specifico, non riducibile dunque all’assenza del Bene, bensì dotato di una realtà propria e indipendente.
A tal riguardo vorrei citare, dalla prefazione di Krzysztof Pomian all’edizione francese del mio Diario scritto di notte, un passo particolarmente significativo: “La sensibilità di Herling è manichea, e tale è la metafisica sottesa alla sua opera. Ma il manicheismo non è certo un culto del Male. Esso ammette l’esistenza di due principi nettamente distinti, il cui scontro riempie la storia del mondo, del Bene e del Male, della Luce e delle Tenebre”.
Questa posizione, oltretutto, non è solo mia personale. Anche Simone Weil la condivideva, come testimonia questo brano tratto dalla Lettera a un religioso: “Per quello che posso capire non c’è vera differenza, se non nelle modalità espressive, tra la concezione manichea e quella cristiana nel rapporto tra il Bene e il Male. La tradizione manichea, se studiata con sufficiente pietà e attenzione, è una di quelle in cui si può esser certi di trovare la verità”.
Preparando questa nostra conversazione ho approfondito l’argomento consultando dei testi, concentrando particolarmente l’attenzione su due volumi. Il primo è un’antologia polacca, La filosofia del male, nella quale sono raccolti brani di tre autori francesi, Jean Nabert, Gabriel Marcel e Paul Ricoeur. Il secondo libro che ho letto, o che piuttosto ho cercato di leggere, è quello di uno studioso polacco di filosofia, Cezary Wodzinski, che s’intitola Heidegger e il problema del male. Nel primo volume, l’antologia dei tre filosofi, soltanto Marcel, a mio avviso, ha compreso veramente cosa è essenziale nel fenomeno del Male. Infatti egli è l’unico a impiegare la parola “mistero” a proposito del Male, che non è generalmente utilizzata per un’ovvia ragione, poiché se il Male è semplicemente assenza del Bene, non è un mistero.
Solo di recente, all’interno dell’ambiente ecclesiastico, questa espressione sta conoscendo una certa diffusione, cosa che apprezzo. Molto spesso parla di “mistero del Male” l’arcivescovo di Milano, il cardinale Martini, e anche il teologo laico italiano, il biblista Sergio Quinzio, ha scritto un libro che prefigura il cristianesimo del futuro. In questo libro si racconta che l’ultimo papa della storia, il quale prenderà il nome di Pietro II – fatto che indica la fine del cristianesimo -, pubblicherà due encicliche, una delle quali si chiamerà Il mistero dell’iniquità, che di fatto significa il “mistero del Male”. Così oggigiorno si assiste sempre più spesso all’impiego della parola “mistero” a proposito del Male.
Pur non negando una predilezione per Marcel, un filosofo esistenzialista cristiano, non intendo sottovalutare Nabert e Ricoeur. Tutti e tre hanno sottolineato l’inesprimibilità del Male, il suo sottrarsi alla dicibilità. Nabert, per esempio, sostiene che è una chose injustifiable, perché se fosse giustificabile non sarebbe il Male. È dunque connaturato al fenomeno il fatto che nessuna parola riesca a esprimerlo. Da parte sua, Ricoeur definisce il Male come una sorta di sacrum negativo. Anche Marcel parla del sacro, ma considera il Male il risultato della scomparsa del sacrum nella nostra vita moderna. Secondo lui, è questa la ragione della diffusione inarrestabile del Male. Marcel aggiunge che l’assenza del sacrum rende tragico il mondo, lo costringe a un’esistenza di paura: “Les hommes sont contre l’humain”.
Particolarmente rilevante è la riflessione che Ricoeur pone a corollario delle sue tesi: c’è qualcosa di radicale nel Male, qualcosa di assolutamente indipendente, assurda, inspiegabile. L’unica sua possibile modalità di espressione è rappresentata – e sono perfettamente d’accordo con lui – dall’arte, in virtù della quale esso diviene un tremendum fascinosum.

13 pensieri su “Conversazione sul male

  1. L’agostiniano privatio boni ha prodotto per reazione Pelagio. Dei tre autori citati nessuno esprime la posizione della teologia cattolica, maturata soprattutto attraverso la riflessione tomista.
    Adesso però dì la tua su questa posizione Manichea. M’interessa.

  2. Sono lontano dal Dualismo. Il Dualismo è una soluzione relativamente semplice del problema del male. Che diventa tragico solo nei monoteismi rigorosi, per i quali c’è un unico Signore (della natura, della storia e di tutto). Se ci si confronta con la Bibbia nel suo insieme (quello che rifiutano di fare i Catari di ogni tempo e di ogni tipo, che ne scelgono qualche parte e rifiutano il resto, come fa Simone Weil), risulta evidente come il problema di Dio e quello del Male siano due volti dell’unico problema. Questo appare massimamente nel libro di Giobbe. Resterà sempre un problema non solubile teoreticamente e teologicamente in modo definitivo. Ad ogni “soluzione” teorica replica sempre, e duramente, la realtà.

  3. Approvo. Io sono sempre stupito di come il manicheismo tenda a riemergere dove meno te l’aspetti, per esempio nel libro di Vito Mancuso sul dolore innocente, bellissimo nella disanima storica e naufragato nelle ultime cinquanta pagine. Ne avrei parlato volentieri su LPELS ma lui, anche se tra i collaboratori, non si vede mai.

  4. Brotto ha scritto:
    >risulta evidente come il problema di Dio e quello del Male siano due volti >dell’unico problema. Questo appare massimamente nel libro di Giobbe. >Resterà sempre un problema non solubile teoreticamente e teologicamente >in modo definitivo.

    condivido in toto. aggiungo che è l’errore di quasi ogni teologia aver costruito SUL male la religione, anzichè NONOSTANTE. Ogni teologia sistemica, gicchè implica una giustificazione di Dio, consiste nel conferire un senso al male e dunque contribuisce a propagarlo. In ciò, imho, consiste la debolezza del problema teologico, nel voler conferire un senso al male e nel giustificare Dio, costi quello che costi. Il Carmelo di Auschwitz, tempio umano eretto sul luogo del male, è il simbolo di tale teologia. E’ l’errore della teologia cristiana come della teologia ebraica, consiste nel fondare sul male la credenza e la fede.

    Mi chiedo come sia possibile che la crocifissione abbia un senso metafisico, per tanti cattolici e cristiani. Bisogna scegliere: o lo ha, o non lo ha. Non ci sono vie di mezzo. Se non lo ha, scoprirebbero in realtà un’altra visione di io, del dio debole. Non è possibile fare conciliazioni. Sono mere trappole ideologiche. Dire che la crocifissione abbia un senso metafisico significa dimenticare le ultime parole di Gesù, quel Gesù che non vuole morire. Anche i Vangeli, purtoppo, occultano e trasfigurano mitologicamente
    l’assasinio di un innocente, checcè Girard dica il contrario.

    La sua morte è UNO SCANDALO, non certo la subdola espiazione
    del male del mondo. L’uomo Gesù è stato ucciso. Cambia tutto. Qui mi lego al teologo Karl Barth: “spiegare il male significa cancellare LO SCANDALO”.
    Quell’urlo di Gesù, dell’innocente uomo, Gesù, che deve rimanere senza una
    risposta. Fornire una tale risposta significa cancellare ciò che quella
    morte ci rivela, come tutte le morti violente, del resto: che Dio con
    l’omicidio non ha nulla a che fare. Vivere come se Dio non interviene
    affatto nella storia, il che è possibile. E’ la teologia della morte di dio, che preferisco di gran lunga alla teologia ufficale cattolica.

  5. Bisogna però rilevare che della storia di Gesù uomo ingiustamente crocifisso noi non avremmo la più piccola notizia (e la storia avrebbe preso altre direzioni) se un piccolo gruppo di suoi seguaci non avesse fatto l’esperienza della Resurrezione, e a partire da questa la rilettura della vicenda di quell’uomo, da cui sono nati i Vangeli.

  6. LIBERACI DAI MALINTESI DEL MALE. UNA PRASSI DI LIBERAZIONE PER I CREDENTI

    ADISTA n. 52 del 8.7.2006
    DOC-1754. VALENCIA-ADISTA. Il male, esperienza umana universale, pone in particolare i credenti di fronte all’impegno per una prassi di liberazione, quell’esigenza che il teologo della Liberazione Jon Sobrino definisce con l’espressione “staccare dalla croce i crocifissi”. “Liberaci dal male” chiedono non a caso i cristiani al termine del “Padre nostro”. Questo è il punto di partenza del contributo di p. Juan Masiá Clavel (il gesuita cui è stata tolta la cattedra di Bioetica alla Pontificia Università di Comillas di Madrid per le sue teorie biogenetiche, v. Adista/Contesti, n. 28/06) pubblicato da “Iglesia viva”, rivista trimestrale di pensiero cristiano che si edita a Valencia, in Spagna, nel primo numero di quest’anno (gennaio-marzo 2006). Il teologo, per il quale la prassi di liberazione dal male deve precedere “qualsiasi teoria sulle sue origini o sulla sua presunta giustificazione”, invita a superare quella ‘vecchia’ teologia che vede nella sofferenza un credito per la salvezza o una pianificazione del male da parte di Dio al fine di trarne un bene, e propone una teologia del “malgrado…” fondata sulla speranza evangelica della prassi di liberazione. Di seguito, una nostra traduzione dallo spagnolo di gran parte dell’articolo di Masiá.

    LIBERARE, LIBERARSI ED ESSERE LIBERATI. PRASSI CRISTIANA CONTRO IL MALE

    di Juan Masiá Clavel

    La fede cristiana prega dicendo, alla fine del “Padre nostro”, “liberaci dal male”. Si esprime così il riconoscimento che abbiamo bisogno di essere liberati e che non possiamo liberarci con le nostre sole forze. Questa è una necessità di cui fa esperienza la persona credente che si sente chiamata a liberare dal male gli altri, mentre si rende conto della presenza del male nella sua interiorità, insieme all’impotenza di liberare se stessa dal male.

    Curare ferite, staccare dalle croci
    Di fronte alla realtà quotidiana delle negatività: sofferenza, emarginazione, morte, ecc., la persona credente vive quell’esigenza che Jon Sobrino ha definito con la formula “staccare dalla croce i crocefissi”. Prima e al di sopra di ogni teorizzazione, si fa presente l’urgenza di una prassi di liberazione. Nel buddismo, l’equivalente è la nota parabola raccontata da Gautama il Budda.
    “Un uomo fu colpito da una freccia avvelenata. Perciò parenti e amici chiamarono il medico. Cosa sarebbe successo se il ferito avesse detto: ‘Non voglio che mi si bendi la ferita prima di sapere chi è stato a colpirmi con la sua freccia’? L’uomo sarebbe morto per la sua ferita”. L’urgenza della prassi di liberare dal male ha la priorità su qualsiasi teoria sulle sue origini o sulla sua presunta giustificazione. Di fronte alla realtà del male, l’azione umana non può fare a meno di rispondere cercando di sopprimerlo, o almeno attenuarlo. La risposta pratica a una situazione prevale sopra qualsiasi ricerca di soluzione teorica ad un problema. Senza perdere tempo a domandarsi “da dove viene il male?”, bisogna porsi la questione pratica: “quale strumento abbiamo per combatterlo, sopprimerlo o attenuarlo?”.
    Questa esigenza si percepisce a livello umano, indipendentemente dalle credenze. È certo che il credente sente il problema con particolare acutezza. In effetti, non capisce perché non intervenga l’azione divina a liberare già qui e ora dal male. Il credente si vede tentato di formulare questa crisi della sua fede in termini di “perché Dio lo permette?”. Ma sarebbe uno spreco se la prassi del credente ne rimanesse paralizzata, se rimanesse bloccata di fronte alla incomprensibile assenza di una risposta teorica all’enigma del male. L’altra faccia della fede del credente è l’esigenza della prassi liberatrice dal male. Non si può rimanere a braccia incrociate domandando a Dio perché permette che si crocifiggano i crocifissi. Bisogna agire e fare qualcosa per staccarli dalla croce. Tanto a livello di esperienza umana etica quanto a livello di esperienza umana di fede, la realtà del male pone, anzitutto, l’esigenza di coinvolgimento rsi in una prassi di liberazione. Ci vediamo obbligati e chiamati a cambiare prospettiva: invece di limitarci a domandare “perché e da dove viene il male?”, dobbiamo porci la questione “come liberarsi e liberare dal male?”.

    Far soffrire e soffrire
    Uno dei nodi più difficili da sciogliere al momento di sforzarsi ed impegnarsi nella liberazione dal male è l’impli-cazione reciproca di fare e subire il male, come anche la dif-ficoltà di delimitare in due campi distinti le vittime e gli aggressori. È facile indignarsi, protestare o ribellarsi alla realtà del male. Più difficile è riconoscere all’interno di noi stessi la doppia caratteristica di essere autori e recettori del male, al tempo stesso aggressori e vittime. E tuttavia questo è un passaggio chiave e decisivo nella liberazione dal male.
    Il giorno dopo l’abbattimento terroristico delle torri gemelle di New York, i notiziari si facevano eco della retorica bellica che divide il mondo in buoni e cattivi come nei film western. Dominati alcuni dal desiderio di rappresaglia e angosciati altri dalla paura della ripetizione dell’attacco, facevano coro senza ombra di critica agli slogan dettati dai consiglieri dei politici. In questo scenario mi ha impressionato la reazione di alcuni monaci buddisti miei amici. Mi diceva il maestro Suzuki: “Quando ho visto cadere le torri, ho sentito che avevo contribuito anche io al loro abbattimento; mi son pentito di non aver fatto finora abbastanza per la pace”. Il presidente dell’Associazione buddista Koseikai, Niwano, ha commentato: “L’aereo dei terroristi era pieno del combustibile dei nostri peccati di omissione. Non basta pregare per la pace. Bisogna lavorare positivamente per essa, nella collaborazione di tutte le religioni”. E l’abate del tempio di Eiheiji diceva: “Bombardando innocenti per rappresaglia si ottiene solo di rafforzare gli anelli della catena di violenza. A me accade lo stesso: a novant’anni compiuti, non sono ancora riuscito a rompere la spirale di violenza nel mio stesso cuore”. Questi commenti mi hanno ricordato e fatto riscoprire la parabola evangelica del frumento e del loglio.
    Se di fronte alle notizie dell’ultimo male – terrorismo, crimini, maltrattamenti, guerra, ecc. – reagisco dicendo: “È orribile che facciano questo, loro”, è segno che ancora non ho riconosciuto all’interno di me le radici del male, per piccole che siano, che mi assimilano in qualche modo a un qualsiasi aggressore. Fino a che non saremo capaci di dire “tutti siamo vittime e tutti siamo aggressori”, non sarà possibile intraprendere cammini di autentica riconciliazione senza né vincitori né vinti. Quando si comprende questo, si smette di parlare di guerra o lotta contro il terrorismo per passare a parlare di “raggiungimento della pace e della riconciliazione mediante il superamento di ogni tipo di terrorismo e di violenza, tanto quella che minaccia da fuori quanto quella che tutti, senza eccezione, portiamo dentro”.
    L’autore di un omicidio commette due esecuzioni: oltre ad uccidere un’altra persona, sta in qualche modo uccidendo anche se stesso. Sono due le vittime, la persona assassinata e l’aggressore, che è vittima di se stesso. La ragione del non condannarlo a morte è precisamente nel lasciargli l’oppor-tunità di riconoscere, prima o poi, il male della sua azione, di convertirsi e di liberarsi. Se non facciamo così, aggiungiamo noi stessi e, con noi, la società alla spirale di aggressori e all’accumulo delle vittime. Così, è parte centrale della prassi cristiana di liberazione dal male il riconoscimento, anzitutto, del fatto che tutti siamo insieme vittime e aggressori e tutti abbiamo bisogno di essere liberati.

    Quattro liberazioni
    Nella vita quotidiana ci scontriamo con la realtà del male almeno a quattro livelli: personale, interpersonale, ideologico e strutturale. Sul piano personale, le nostre contraddizioni interne tra fare quello che non vogliamo e non fare quello che al fondo vogliamo. Sul piano interpersonale, mescolanza inesplicabile di responsabilità, destino e caso nelle rotture che riguardano ogni relazione umana. Sul piano ideologico, coesistenza ineludibile di errore e verità, di manipolazione e smascheramento. Sul piano strutturale-istituzionale, propagazione del male nelle istituzioni della società. (…).
    Nella nostra interiorità percepiamo la contraddizione intima che comporta l’esperienza della cattiva azione come radicata in una cecità, un’incoerenza, un’assurdità inspiegabili (…) si percepisce simultaneamente la realtà di essere libero e schiavo, la tragedia di un “servo arbitrio” (…).
    In secondo luogo, abbiamo l’esperienza del male a livello interpersonale. Nelle relazioni umane interpersonali sorgono situazioni di conflitto e di rottura della convivenza e della comunicazione, nelle quali non è possibile attribuire con certezza la causa della crisi ad una o all’altra parte. Tanto certo sembra che entrambe le parti abbiano la colpa quanto che non l’abbia nessuna delle due. Caso vuole che si presentino, certe volte repentinamente e inesplicabilmente, rotture che non c’è modo di razionalizzare e giustificare. L’impegno di fare chiarezza facendo riconoscere ad una sola parte la colpa della rottura è condannato all’insuccesso. (…). Per liberarsi del male e liberarci reciprocamente non c’è altra via d’uscita che il perdono e la riconciliazione bene intesi: non come dimenticanza, non come indulto, ma come creatività che rende possibile tornare a ricominciare. Sarebbe possibile questo senza la certezza di un’istanza assoluta che, accettandomi incondizionatamente, rende possibile che io perdoni me stesso e mi lasci perdonare, punto di partenza per perdonare gli altri?
    In terzo luogo, facciamo l’esperienza del male nel mondo del linguaggio e della comunicazione: il male della menzogna. Ma non solamente quando coscientemente commetto una ingiustizia ingannando un’altra persona o quando sono ingannato. C’è una “rete di menzogna diffusa” della quale è difficile, praticamente impossibile, individuare un responsabile. Inconsciamente o anonimamente, la responsabilità sfuma, ma rimane il fatto che siamo inseriti in una trama di manipolazioni, errori, inganni sottili, distorsioni ideologiche e razionalizzazioni dell’irrazionale. Chiediamo la verità, abbiamo bisogno di liberarci in mezzo ad un mondo di menzogne. Ma se paragoniamo questo ambiente irrespirabile ad una sala di fumatori con finestre chiuse, dobbiamo riconoscere che ognuno di noi contribuisce se accende un sigaro in più invece di aprire le finestre.
    Infine, in quarto luogo, sperimentiamo il malessere che ci produce la difficoltà di sradicare il male dal seno delle istituzioni, cominciando dalle stesse Chiese. Anche qui il male presenta aspetti di anonimato sfumato. Se in politica si potesse addossare tutta la colpa di un disastro ad un determinato governante e nella Chiesa ad un determinato dirigente o responsabile, sarebbe facile la spiegazione, per quanto difficile la liberazione. Ma questa colpa sfumata, che è di tutti e di nessuno, è tanto difficile da spiegare come da sradicare. (…).

    Malintesi sul male tra persone credenti
    Qui ci sarebbe da aggiungere un capitolo lunghissimo di spiegazioni che non è possibile nel limitato spazio di queste pagine. Infatti, a proposito del male, ci sono molti e frequenti malintesi fra credenti. Per esempio, è un errore credere che la fede ci fornisca teoricamente la soluzione dell’enigma del male. Crediamo in Dio non perché risolva il male, ma malgrado non lo risolva.
    È errore frequente credere che la persona credente abbia di fronte a sé una specie di video che le descriva l’aldilà e la liberi così dall’angoscia della morte. La fede non ci fornisce questa descrizione, ma la certezza della speranza che Dio, che mi crea per amore, non mi può dimenticare né abbandonare nel momento critico della morte.
    Altro errore frequente è attribuire a Dio la fortuna nella lotteria o ritenerlo colpevole di una malasorte. Né i mali sono castighi inviati da Dio, né dobbiamo avere di Dio una concezione antropomorfica in base alla quale Dio pianifica mali “per il nostro bene”. La lista di queste errate comprensioni sarebbe interminabile. Limitiamoci all’esempio molto comune della sofferenza.
    (…). Sebbene le si possa dare un senso, la sofferenza non ha motivo d’essere desiderabile. Sebbene non sia impossibile dare senso alla sofferenza, non si può considerare il dolore in sé come buono o inviato da Dio con una qualche finalità. Né dobbiamo colpevolizzarci se crediamo che il dolore sia un castigo, né farne colpa a Dio, credendo che architetti di estrarre un bene da questo dolore e che per questo lo invia. Possiamo e dobbiamo usare rimedi convenienti. (…). Una sana teologia non fa mai un idolo del dolore né acconsente al culto della sofferenza. (…). Il papa [Pio XII] criticava (nel discorso al IX Congresso internazionale della Società Italiana di Anestesiologia, 24 febbraio 1957) coloro che citavano Gesù in croce che rifiutava di bere l’aceto come esempio di rinuncia ad un analgesico. Dire questo è una barbarie, come anche citare Gesù che beve il calice della passione per consolare un malato terminale. A volte viene detto che il malato deve sopportare il dolore per acquisire meriti, ma Pio XII dice che non è opportuno suggerire ai moribondi tali considerazioni, che possono essere controproducenti.

    Prassi della preghiera in forma di lamento
    È naturale che la persona credente si domandi se la fede l’aiuti quando si trova davanti all’enigma del male sulla sua stessa carne viva. Ma non possiamo chiedere alla fede quello che non è suo compito darci. Né risposte teoriche, né ricette magiche per superare l’ostacolo del male o per consolarci superficialmente quando non lo possiamo risolvere. Il Vangelo non ci dà questo tipo di ricette, né facili consolazioni. (…). Quello che ci dà è altro: la speranza di proseguire nella prassi di liberazione del male malgrado tutto. Inoltre ci dà la forza di pregare in silenzio di fronte al silenzio di Dio davanti al male.
    (…). A volte si utilizza una teologia giustificazionista della pianificazione del male. Ma la fede matura deve imparare un altro tipo di teologia, quella che dice “Né Dio ha potuto volere questo, né lo ha permesso per castigarmi, né per il mio bene. Semplicemente, non me lo spiego. Non so perché succede quello che sta succedendo, ma il Dio nel quale credo mi dà la speranza di fare quanto posso per liberarmi e liberare altre persone dal male, malgrado tutto quello che sta succedendo”.
    Per avere questa teologia e questa spiritualità bisogna cominciare a perdere la paura di dire: “non sappiamo, non capiamo, non lo abbiamo chiaro…”. Perché aver fede non vuol dire aver tutte le cose chiare, ma avere speranza quando, e malgrado, restano oscure. Avere fede non è vivere tutte le ore nello splendore della verità, ma ricevere forza per vivere in mezzo alla nebbia delle incertezze e tuttavia con il calore della fiducia amorosa.
    A partire da una fede così si può mantenere la posizione che non ha paura a lamentarsi in forma di preghiera. Allora il lamento non è blasfemia, ma preghiera in forma di grido impaziente, angosciato e speranzoso allo stesso tempo.
    (…). Il contributo del cristianesimo di fronte all’enigma del male è facilitare la prassi dello staccare dalla croce i crocifissi, incoraggiati dal silenzio di Gesù in croce davanti al silenzio di Dio di fronte al male. (…).

    Dio non pianifica mali
    La prassi credente di impegnarsi nella liberazione dal male va sostenuta con una spiritualità della speranza “malgrado…”, come esposta qui. Con un altro tipo di spiritualità o di teologia non sarebbe possibile. Per esempio, bisogna smascherare la teologia e la spiritualità secondo le quali “non c’è male che non venga a fin di bene”. Non neghiamo che ci sia qualcosa di profondo nella saggezza popolare di questo detto. (…). Ma il pericolo del malinteso comincia quando attribuiamo a Dio la pianificazione dei mali per trarne dei beni.
    Questo malinteso è stato reso possibile della traduzione del testo della Lettera ai Romani 8,28 in termini di “tutto si converte in bene”. Più indovinata è la traduzione di p. Alonso Shökel: “con quelli che amano Dio, egli coopera in tutto per il loro bene”. Si suole spiegare questa frase dicendo che, sotto l’apparenza di male, il bene può saltar fuori da tutto, perché Dio agisce al fondo per il bene. Per capire bene i due poli di questa frase bisognerebbe esplicitare che “amare Dio” significa “riconoscersi amato e lasciarsi amare da Dio”. Lasciarsi amare e perdonare da Dio (qualcosa di molto difficile per quanti di noi non perdonano se stessi), lasciarsi accogliere da Dio porta a vedere Dio in tutto e tutto in Lui e a partire da Lui. Così si può intendere l’altro polo della frase: “Dio agisce in tutto, malgrado tutto, per il bene”. Solo così è possibile superare l’amarezza, il rifiuto o l’angoscia che ci producono i mali passati, presenti o futuri.
    Una lettura di questo tipo conduce ad una prassi di speranza di fronte al male e malgrado il male, molto diversa da quella che nasce da letture razionalizzatrici, spiritualiste, moralizzanti o giustificazioniste di Dio. (…).
    Per comprendere la profondità della frase paolina, bisogna partire dai due poli che abbiamo appena considerato. Né accuso del male Dio, né mi sforzo di giustificare Dio attribuendogli la pianificazione del male per trarne del bene. Tantomeno dico che Dio lo permette. Dico, in tutta sincerità, che non capisco il male né spiego perché sia permesso. Ma confido in Dio, dal quale mi lascio amare e per questo, malgrado tutto, posso guardare il male in faccia.
    Sotto questa prospettiva, si possono fare le seguenti affermazioni: a partire da Dio è possibile ricordare i mali passati senza che sia patologicamente doloroso il ricordo; a partire da Dio è possibile guardare in faccia i mali senza provare quel disgusto che cancella ogni traccia di buon umore; a partire da Dio, è possibile anticipare la minaccia dei mali futuri – compresa l’inquietudine di fronte alla morte – senza che la paura ci paralizzi; lasciandosi amare e perdonare da Dio, è possibile perdonare se stessi, senza autogiustificarsi, né condannarsi.

    La prassi del cammino ecclesiale “malgrado…”
    Ciò detto, rimane da trattare un punto molto penoso: il male dentro la Chiesa. Riempiamo pagine e pagine per parlare dell’atteggiamento di pace delle religioni di fronte alla violenza, ma dobbiamo riconoscere la penosa realtà della violenza all’interno delle religioni. Affermiamo che Dio è carità, ma poi pratichiamo quello che Unamuno chiamava l'”odio teologico degli inquisitori”. Si commettono, per motivi di politica ecclesiastica, violazioni di diritti umani dentro la Chiesa e, a volte, da parte di persone cui incombe la responsabilità di vegliare sulla comunione e l’unità. Questa è una delle cose più difficili da digerire in tema di male. Di fronte alla tentazione di allontanarsi dalla comunità o alla tentazione più frequente di rinunciare alla profezia e accondiscendere al male, è tutto faticosamente in salita il cammino ecclesiale di portare avanti la speranza con la teologia del “malgrado…”.
    Ma l’autore di queste righe sta vivendo troppo da vicino situazioni in cui palpa il male e non ha la disposizione d’animo per trattare con imparzialità e serenità la questione. Rimane appena annunciata e con molti punti sospensivi…

  7. “è tutto faticosamente in salita il cammino ecclesiale di portare avanti la speranza con la teologia del “malgrado…”.
    Sono pienamente d’accordo. Con tutto quel che si dice in questo commento, anche se la “fatica del concetto” (e della rappresentazione) rimane un dovere e una vocazione.

  8. Quanto ho letto è stato per me estremamente istruttivo e interessante; purtroppo o per fortuna, il mio essere laica fino al midollo, mi porta a pensare che il male e il bene siano nati con l’uomo e con la conseguente coscienza di se. Qualsiasi tipo di religione dalla più arcaica alla più strutturata ne ha fatto strumento di potere e sopraffazione o di speranza e riscatto. Non credo alla necessità di un Dio che mi indichi la via del bene o che mi aiuti ad allontanarmi dal male, è il mio senso della morale e del rispetto reciproco, se ho la volontà di ascoltarlo, saranno le sentinelle del mio agire. Per me l’ educazione e il senso civico uniti alla disponibilità d’aiuto verso il prossimo sono le filosofie di vita che se venissero introiettate su larga scala eliminerebbero molto del male che ammorba l’umanità.

  9. Scusa per il ritardo nella replica ma ultimamente ho poco tempo a disposizione. Sono perfettamente d’accordo con te la religione è comprendere l’umano e tutto può essere definito religione. Anch’io naturalmente ho la mia: credere che siamo nati per portare avanti nel miglior modo la specie rispettando il più possibile l’intorno e come ha detto il Sommo Poeta:”Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.”

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