Il sacrificio sospeso di Silvano Petrosino (Jaka Book, Milano 2000) è uno scambio epistolare con Jacques Rolland. Questi accusa il cristianesimo di essere una religione sacrificale, e per questo lo rifiuta violentemente («Ti chiedo di accettare di pensare che una dottrina in cui la morte celebra se stessa al punto che un Dio celebra la propria morte, instancabilmente ripetuta e celebrata nel sacrificio della messa, può certamente suscitare una bella volontà polemica, ma provoca soprattutto un’immensa nausea in colui che non ha mai avuto “lo stomaco abbastanza forte” per resistere davanti a un cadavere.»). La risposta di Petrosino è chiaramente orientata al superamento della residua sacrificalità ancor presente nel cristianesimo, e tuttavia in essa il nome di René Girard non si incontra mai. Ne cito un bel passo:
Da questo punto di vista è sempre in direzione dello stringersi dell’Alleanza che bisogna leggere la sospensione qui in questione e il giudizio sulla pratica sacrificale che questa sospensione porta sempre con sé. Certo, inizialmente tutto questo non ha determinato l’immediata soppressione di ogni sacrificio (la tradizione degli uomini continuamente s’impone e ha la sua epoca), eppure in questo racconto del Genesi è già con chiarezza indicato il senso verso il quale l’Antico Testamento costantemente si volge. Qui mi limito a ricordare Isaia 1, 11-17:
“Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero?” dice il Signore. “Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; non posso sopportare noviluni, sabati, assemblee sacre, delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete dalla mia vista il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”.
Ciò che è in questione in tale passaggio non è più il sacrificio umano, ma l’olocausto dei “montoni e del grasso di giovenchi”, così come “i vostri sacrifici senza numero”; inoltre, anche in questo caso il netto “no” di Dio (“I vostri noviluni e le vostre feste io detesto”) deve essere letto in stretta connessione con il “sì” di questa indicazione: “cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. Già lo si indicava: il Dio del sacrificatore è lo stesso Dio del sacrificato, e pertanto anche la vittima è una creatura e in quanto tale anch’essa è amata e voluta dal Creatore. Il sangue della vittima è quindi il sangue di una creatura la quale rende testimonianza, rende gloria al Creatore non attraverso la morte, ma attraverso la vita.
Da questo punto di vista nel brano di Isaia – ma questo è solo un esempio tra molti altri – si assiste ad un sorprendente cambio di prospettiva, ad una radicale conversione dell’immaginazione all’interno della quale l’uomo concepisce il proprio legame con Dio; certo, attraverso il sacrificio si risponde ad un appello, si riconosce una dipendenza e si tenta di stabilire una relazione, e in tal senso esso è sempre a-Dio, ma è proprio la concezione di questo a-Dio che il brano letto sovverte radicalmente e cerca di convertire: l’a-Dio gradito a Dio è quello che va a Dio “deviando” verso la creatura, è quello che, cessando di operare il male, impara a fare il bene e a servire la creatura e quindi la Creazione tutta. Se dunque, attraverso il sacrificio, e in particolare grazie all’olocausto di quella vittima eccellente rappresentata dalla vittima umana, l’uomo si sforza di stabilire un “rapporto diretto” con Dio, allora, suggerisce Isaia, è necessario individuare il senso autentico di questa “dirittura” nell'”indirezione” del diritto, cioè nella dimensione del servizio e della giustizia: il vero a-Dio, pertanto, non sta nella tentata restituzione, o nel risarcimento del dono “direttamente” al Donatore, ma nella sua ulteriore donazione ad un altro donatario. E donando ad un altro donatario, al donatario in quanto altro, che colui che ha ricevuto il dono “restituisce” al Donatore quanto ha da Egli ricevuto.
L’indicazione contenuta nell’affermazione secondo la quale Dio, in quanto padre di Abramo, è anche e al tempo stesso il padre di Isacco, rivela a questo punto il suo significato più profondo: non è possibile alcuna Alleanza, alcun vero rapporto con il Creatore al di fuori dell’ordine della Creazione, e più in particolare al di fuori del servizio a quel culmine della creazione rappresentato dall’uomo, e ancora più in particolare al di fuori del servizio a quel culmine dell’umano rappresentato “dall’oppresso, dall’orfano e dalla vedova”. Da questo punto di vista, nel loro significato biblico, il “diritto” e la “giustizia” non possono mai essere intesi in un’accezione unicamente etico-morale, poiché in verità essi rinviano a quella che, in termini filosofici, si deve definire la struttura ontologico-essenziale della realtà stessa.